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Anno II n° 13 - Settembre 2008
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Biografie (a cura di Luisa Grieco e Mariangela Rotili) . Anno II n° 13 - Settembre 2008

Zoom immagine Il mitico Sessantotto:
autori, testimonianze,
scritti, tesi e pensieri
quarant’anni dopo

di Giuseppe Licandro
Riecco gli anni della contestazione:
da don Enzo Mazzi a Mario Capanna.
Quale eredità per i giovani di oggi?


Il 1968 fu un anno davvero singolare, durante il quale milioni di persone si riversarono nelle strade delle maggiori città del mondo, protestando contro il potere costituito e battendosi per una società  più libera ed equa.

A quarant’anni di distanza sembra che sia rimasto ben poco, dal punto di vista politico, di quell’“anno formidabile”, ma rimangono pur sempre vive le dispute intorno al suo valore storico.

E se, da un lato, non mancano certo i detrattori che giudicano assai negativamente il movimento del Sessantotto, d’altra parte c’è chi tuttora ne parla come uno degli avvenimenti più significativi della seconda metà del XX secolo.

 

I caratteri molteplici del ’68

Il Sessantotto, in verità, non fu affatto un movimento uniforme e compatto, come giustamente fa notare don Enzo Mazzi – esponente delle Comunità cristiane di base – nell’articolo Dall’Isolotto al mondo, e ritorno (in Sessantotto: mito e realtà, supplemento a Micromega, n. 1, 2008) quando afferma che: «È gravemente e rozzamente superficiale ridurre, come fa molta parte della cultura storiografica dominante, un imponente processo storico di trasformazione globale della società alla rivolta studentesca [...]. C’è ovviamente il ’68 degli studenti. Ma c’è anche il ’68 del movimento operaio, che inizia in quell’anno con lotte significative per esplodere l’anno successivo, e c’è il ’68 della psichiatria e della medicina alternativa, della magistratura, del mondo della scuola, del movimento femminista, del movimento conciliare nella Chiesa, perfino di un certo fermento democratico dentro la polizia».

Ci furono, comunque, alcuni tratti comuni a tutte le componenti del variegato moto di protesta, in particolare le istanze di libertà e uguaglianza che lo percorsero in ogni parte del mondo, come per altro è attestato da Alberto De Bernardi e Scipione Guarracino nel seguente brano, tratto da La conoscenza storica. Manuale, fonti e storiografia. 3. Il Novecento (Bruno Mondadori): «L’omogeneità ideologica che fu la caratteristica del movimento di rivolta sul piano internazionale e che ne costituì il comune denominatore può essere ricondotta a un nucleo essenziale, composto da un insieme di istanze rivoluzionarie di impronta egualitaria e libertaria, umanista e radicale».

 

La genesi del periodo

I movimenti di protesta ebbero inizio negli Stati Uniti d’America, nei primi anni Sessanta, quando accaddero due eventi che incisero profondamente sulla gioventù statunitense: la lotta per i diritti civili degli afroamericani e la guerra del Vietnam.

Fu Martin Luther King, pastore battista dell’Alabama, a farsi promotore di una rivolta non violenta contro il razzismo ancora imperante, trovando ampi consensi anche fra i giovani “bianchi”. Molti di loro parteciparono all’imponente marcia pacifica svoltasi il 28 agosto del 1963 a Washington, che portò poco tempo dopo all’approvazione del Civil Rights Act, una legge con cui si tentava di porre fine alla discriminazione razziale e che fu varata nel 1964 dal presidente Lyndon B. Johnson (questa normativa era stata proposta da John F. Kennedy, che non riuscì a farla approvare durante il suo mandato presidenziale, perché fu ucciso a Dallas il 22 novembre del 1963).

Sempre nel 1964 ci fu la prima occupazione dell’Università di Berkeley, in California, che rappresentò l’atto fondante del movimento studentesco negli States.

In quel periodo si tennero anche le prime manifestazioni di massa contro l’escalation statunitense nel conflitto del Vietnam che era iniziato formalmente nell’agosto del 1964, in seguito all’“incidente del golfo del Tonchino” (cioè ai ripetuti scontri fra alcune motosiluranti nordvietnamite e due cacciatorpediniere della marina degli Usa: sulla versione dei fatti fornita allora dall’amministrazione statunitense, però, si nutre oggi più di qualche perplessità).

A causa della guerra, Johnson – che pure aveva sottoscritto la legge sui diritti civili – diventò il principale bersaglio della contestazione giovanile, tanto che alla fine del suo mandato decise di non ricandidarsi alle elezioni presidenziali.

 

La “contestazione” nei paesi occidentali

Negli Usa le proteste assunsero connotati prevalentemente antiautoritari e pacifisti (gli Hippies ne furono il simbolo vivente), esprimendo un livello di “politicizzazione” indubbiamente inferiore rispetto a ciò che avvenne in altre parti del mondo.

Sulla stessa lunghezza d’onda degli Usa si posizionarono anche i movimenti giovanili del Giappone e della Gran Bretagna, mentre in Spagna gli studenti si impegnarono principalmente nella lotta contro la dittatura franchista, in favore di una riforma democratica delle istituzioni.

In Francia, in Italia e nella Repubblica federale tedesca, invece, la contestazione, nata all’inizio come rifiuto del modello scolastico vigente, si distinse ben presto per i suoi aspetti spiccatamente politici, che favorirono il radicamento tra i giovani francesi, italiani e tedeschi di gruppi dell’estrema sinistra (in particolare di anarchici, maoisti e trotzkisti), i quali si posero l’obiettivo della trasformazione rivoluzionaria del sistema capitalistico.

In Francia (nel maggio del 1968) e in Italia (nell’autunno del 1969), pertanto, il movimento studentesco cercò di collegarsi alle rivendicazioni dei lavoratori, impegnati nei rinnovi contrattuali, sostenendone le istanze di classe in polemica con i partiti tradizionali del movimento operaio (socialisti e comunisti), accusati di essere troppo moderati. Gli esiti di queste lotte si dimostrarono nel complesso fallimentari, visto che il “sistema” riuscì ben presto a neutralizzare l’azione delle organizzazioni politiche nate dal movimento studentesco (e qualche frangia più estremista finì addirittura per inoltrarsi lungo i sentieri infidi della lotta clandestina, con gli esiti infausti che tutti conosciamo).

Nonostante ciò, a nostro avviso, il Sessantotto lasciò ugualmente un segno indelebile nella società occidentale, modernizzando i costumi e influenzando i gusti di una parte significativa dell’opinione pubblica (è di quel periodo, ad esempio, la nascita di nuovi fermenti culturali come l’arte pop o la musica rock, che si diffusero a dismisura fra le giovani generazioni). Lo stesso movimento femminista trovò nuovo vigore grazie alle rivendicazioni egualitarie portate avanti proprio dai movimenti degli anni Sessanta.

 

Il Sessantotto in altre parti del mondo

È esistita, infine, un’altra faccia del Sessantotto, spesso sottaciuta, che ha riguardato diverse aree del Terzo mondo e anche vari paesi comunisti dell’Europa dell’Est.

La protesta studentesca interessò stati come l’Algeria, il Brasile, l’Egitto, la Turchia e l’Uruguay; animò e insanguinò le strade di Città del Messico, quando, poco prima dell’inizio delle XIX Olimpiadi, ci fu, ad opera dell’esercito, il massacro di inermi cittadini che reclamavano riforme sociali (a piazza delle Tre culture); coinvolse Belgrado, Praga e Varsavia, dove tanti giovani protestarono per ottenere maggiori libertà individuali e per contrastare i privilegi di cui godeva la nomenklatura al potere. Persino la “Primavera di Praga” – il nuovo corso politico voluto nel 1968 dal segretario del Partito comunista cecoslovacco Alexander Dubček e duramente represso dai carri armati del Patto di Varsavia – può considerarsi, per molti versi, il frutto delle spinte di rinnovamento maturate in quegli anni anche nei paesi del blocco socialista.

Non del tutto assimilabile, invece, agli altri movimenti internazionali ci appare la “Rivoluzione culturale” che ebbe inizio in Cina nel 1966 e che raggiunse il suo culmine proprio nel 1968, cui i settori più ideologizzati del movimento studentesco europeo spesso fecero riferimento. Riteniamo, infatti, che le “Guardie rosse”, pur animate all’inizio da motivazioni analoghe a quelle dei giovani occidentali, finirono per diventare lo strumento inconsapevole della lotta interna al Partito comunista cinese, sostenendo la fazione politica più radicale (guidata da Mao Zedong e Lin Piao) contro quella più moderata (capeggiata da Liu Shaoqi e Deng Xiaoping) e contribuendo, in sostanza, a rinsaldare i tratti più autoritari del maoismo.

 

Le tesi di Marcello Veneziani...

Come già sottolineato in precedenza, il ricordo del Sessantotto rimane piuttosto vivo anche nel dibattito storico attuale, generando ancora oggi giudizi diametralmente opposti. Senza addentrarci troppo nella nutrita bibliografia relativa all’argomento, vorremmo brevemente segnalare due saggi scritti di recente, che esprimono pareri molto discordanti su quanto accaduto negli anni Sessanta, soprattutto in Italia.

Ci riferiamo, innanzi tutto, al testo di Marcello Veneziani, intellettuale annoverabile tra i critici del Sessantotto, che ha pubblicato Rovesciare il ‘68. Pensieri contromano su quarant’anni di conformismo di massa (Mondadori, pp. 176, € 17,00).

Egli è convinto che i modelli comportamentali dei sessantottini si siano in fondo affermati nella società di massa e abbiano determinato una sorta di nuovo conformismo, imbevuto di pregiudizi egualitari, che di fatto ha favorito l’omologazione capitalistica e il livellamento sociale, vanificando quanto di buono c’era nella società tradizionale, soprattutto la meritocrazia.

Inoltre, con particolare vis polemica, Veneziani nota che tanti ribelli di quell’epoca occupano adesso posti di rilievo all’interno dell’establishment internazionale e si sono spostati su posizioni politiche decisamente moderate. Il Sessantotto, a suo avviso, «è il numero civico di una casa di riposo per ragazzi invecchiati che passarono dall’adolescenza alla senilità senza attraversare la maturità» e la sua conseguenza più nefasta, dunque, è consistita in «una forma di trasformismo che ha fatto dei contestatori di allora la classe dominante di oggi».

 

...e la replica di Mario Capanna

Alle tesi di Veneziani ha replicato Mario Capanna, ex leader del movimento studentesco ed ora esponente del mondo ambientalista, nel libro Il Sessantotto al futuro (Garzanti, pp. 144, € 13,00).

Capanna parte dal presupposto che i valori del Sessantotto non si siano per niente realizzati e che, anzi, il sistema capitalistico sia riuscito nel tempo ad affermare la propria egemonia su tutto il globo terrestre.

Lo sviluppo del capitalismo globale, tuttavia, ha creato una situazione insostenibile per l’ecosistema del pianeta, al punto che, a suo a parere, «ci stiamo avvicinando a un punto di non ritorno, che nel giro di dieci anni potrebbe renderci impossibile evitare danni irreparabili all’abitabilità della Terra».

I valori di solidarietà, libertà e democrazia diretta, su cui si fondava gran parte delle lotte degli anni Sessanta, sono secondo lui ancora validi e rappresentano una possibile soluzione dei mali che affliggono l’umanità: «Quella necessità di cambiamento, che il mondo per la prima volta aveva indicato a se stesso nel 1968, è ora qui, di fronte a noi, nelle condizioni nuove di oggi. Aggravata dal tempo perduto, e dal moltiplicarsi dei problemi irrisolti, adesso urge. Il Sessantotto al futuro: è lo sguardo che, dal passato, contribuisce a scrutare il domani».

Senza indulgere in nostalgiche celebrazioni, Capanna ritiene che oggi non si possa riproporre tout court un nuovo Sessantotto e auspica l’avvento di movimenti più maturi e incisivi, perché «è necessario qualcosa di più e di meglio, se si vuole che la storia prosegua».

 

Giuseppe Licandro

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 13, settembre 2008)

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