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Anno II n° 13 - Settembre 2008
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Home Page (a cura di Tiziana Selvaggi) . Anno II n° 13 - Settembre 2008

Zoom immagine Peppino Impastato: in un volume
e in un Cd una memoria antimafia

di Giuseppe Licandro
Un saggio Rubbettino narra la storia di un militante politico la cui lotta
è diventata netto simbolo del riscatto delle nuove generazioni siciliane


9 maggio 1978: il cadavere di Aldo Moro ­– rapito cinquantacinque giorni prima dalle Brigate rosse – viene ritrovato a Roma, in via Caetani, nel cofano di una Renault 4. Nello stesso giorno nelle campagne di Cinisi (un paese in provincia di Palermo) viene rinvenuto il corpo dilaniato di Peppino Impastato, un militante dell’estrema sinistra, da tempo impegnato nella lotta contro la mafia siciliana.

In un primo momento la sua morte è attribuita dagli inquirenti a un folle gesto: si ipotizza un fallito attentato contro una linea ferroviaria e si parla anche di suicidio. In seguito, però, emerge la verità: Impastato è stato barbaramente ucciso dai mafiosi locali, capeggiati da Gaetano Badalamenti.

 

Una vita contro la mafia

Peppino Impastato è diventato celebre grazie al film I cento passi, girato nel 2000 da Marco Tullio Giordana, che ne ha ricostruito la vita e l’impegno politico.

Già alcuni anni prima, tuttavia, si era tornato a parlare di lui in virtù della biografia dal titolo Nel cuore dei coralli. Peppino Impastato, una vita contro la mafia (Rubbettino, pp. 196, € 10,33) pubblicata nel 1995 da Salvo Vitale, docente di Filosofia e Storia presso il liceo scientifico di Partinico, che fu un suo grande amico e ne raccolse in parte l’eredità politica.

Di tale saggio è uscita recentemente una nuova edizione, intitolata Peppino Impastato. Una vita contro la mafia (Rubbettino, pp. 324, € 15,00), che è corredata da una ricca documentazione e offre in allegato un Cd Rom contenente alcune trasmissioni di Radio Aut, un’emittente radiofonica di Terrasini (un paese attiguo a Cinisi) impegnata tra il 1977 e il 1980 nella denuncia dello strapotere mafioso, alla cui conduzione Peppino Impastato prese parte attivamente, curando la rubrica satirica Onda pazza.

Il volume non vuole soltanto ricostruire la biografia di un militante politico, ma anche – come si legge nella Nota dell’autore – «la storia di sessant’anni di mafia a Cinisi ed il ruolo di primo piano che essa ha avuto all’interno delle vicende nazionali e internazionali».

 

Le guerre tra i clan palermitani

Il primo capitolo è dedicato proprio a Cinisi, ironicamente chiamata «Mafiopoli», di cui si ricostruiscono gli avvenimenti storici più rilevanti, con particolare riferimento al Secondo dopoguerra, durante il quale si radicò la presenza pervasiva delle cosche mafiose guidate da Cesare Manzella. Si trattava di una mafia legata ancora ad attività criminali di tipo tradizionale (come l’abigeato, il contrabbando di sigarette, il racket delle estorsioni), che iniziava però a inserirsi con efficacia nelle speculazioni edilizie legate al “boom economico” e nel traffico internazionale di armi e stupefacenti.

In questo nuovo contesto esplose la prima guerra tra i clan del palermitano. Fu un conflitto assai cruento, che vide prevalere le cosche della provincia (i “viddani” di Ciaculli, Cinisi, Corleone, ecc.) su quelle della città di Palermo, allora capeggiate da Angelo e Salvatore La Barbera.

Badalamenti, membro di spicco del clan di Cinisi, approfittò della morte di Manzella – ucciso nel 1963 da un’autobomba – per salire ai vertici della cosca locale e per percorrere in breve tempo il cursus honorum della gerarchia mafiosa, ottenendo nel 1967 la carica più ambita: quella di “presidente della Commissione”, cioè di capo della “cupola” che coordinava le attività criminali nel palermitano. Le sue capacità di mediazione garantirono l’equilibrio tra le cosche rivali, tanto che per circa un decennio si affermò una relativa pax mafiosa. Fu proprio in seguito alla destituzione di Badalamenti dalla “Commissione” che ebbe inizio, nel 1978, una nuova, ancor più feroce, guerra tra “famiglie”, che portò alla definitiva affermazione dei “corleonesi”, il famigerato clan comandato in ordine di tempo da Luciano “Liggio”, Totò Riina e Bernardo Provenzano.

 

La famiglia di Peppino Impastato

Della cosca di Badalamenti faceva parte anche Luigi Impastato, padre di Peppino, che aveva sposato Felicia Bartolotta, anch’ella imparentata con vari “uomini d’onore”, tra cui lo stesso Manzella.

Questo particolare non è irrilevante: Peppino crebbe, infatti, all’interno di un mondo plasmato dalle regole dell’“onorata società”. Tuttavia, la madre e lo zio Matteo – estranei alla cultura mafiosa – lo educarono diversamente, inculcandogli comportamenti improntati al rispetto degli altri, alla lealtà e alla sincerità.

Il rapporto con il padre, invece, fu sempre fortemente controverso, al punto che Luigi Impastato scacciò di casa il figlio diciottenne, allorché seppe che aveva iniziato a impegnarsi in politica, sul fronte opposto al suo.

Lo scontro familiare permette di capire meglio le scelte di Peppino, che si ribellò a un padre distaccato e autoritario, prendendo le distanze dall’ambiente in cui fu costretto a crescere, come egli stesso riconosce in una nota autobiografica: «Arrivai alla politica nel lontano novembre del ’65, su basi puramente emozionali: a partire cioè da una mia esigenza di reagire ad una condizione familiare divenuta ormai insostenibile». Tuttavia, il tenace impegno politico da lui portato avanti negli anni seguenti non può essere motivato facendo riferimento semplicemente ai suoi contrasti col padre: giustamente Vitale sottolinea come, dopo qualche anno, «egli avesse […] superato questa fase emotiva per proiettarsi in una prospettiva politica più ampia».

 

La prima fase della militanza politica

Nel 1965 il diciassettenne Peppino entrò a far parte della sezione giovanile del Partito socialista italiano di unità proletaria ­– nato nel 1964 da una scissione del Psi –, che propugnava un programma massimalista, contrario alla formazione del primo governo di centro-sinistra “organico” che segnò l’ingresso dei socialisti nell’esecutivo guidato da Aldo Moro. Peppino cominciò a scrivere i suoi primi articoli su L’Idea socialista, un giornalino dei giovani del Psiup, che fu subito attaccato dalle altre forze politiche e finì nel mirino della magistratura, soprattutto dopo le aspre critiche rivolte al sindaco di Cinisi, il democristiano Pellerito. Il giornalino, in verità, trattava argomenti di largo respiro e analizzava, come ricorda Vitale, «i problemi del mondo del lavoro, dell’emigrazione, della repressione sessuale, e gli aspetti delle componenti socio-politiche-economiche dell’ambiente». Fu proprio in conseguenza dell’impegno di Peppino nella redazione de L’Idea socialista che il padre lo mandò via di casa, obbligandolo a stabilirsi dapprima presso lo zio materno e, in seguito, in una vecchia abitazione priva di corrente elettrica e di acqua.

Nel 1967 il giovane attivista politico, chiusa l’esperienza con il Psiup, entrò a far parte del circolo “Che Guevara” di Cinisi, formato da circa 25 militanti che si batterono intensamente contro la costruzione della terza pista dell’aeroporto di Punta Raisi, affiancando i contadini in lotta contro l’esproprio delle terre. Il circolo confluì poi in uno dei gruppi che animavano in quegli anni il variegato mondo della sinistra extraparlamentare: il Partito comunista d’Italia (marxista-leninista), d’ispirazione maoista. Peppino e alcuni suoi amici parteciparono anche ai movimenti del Sessantotto, organizzando l’occupazione della Facoltà di Lettere dell’Università di Palermo, «quando ­– come ricorda Vitale – per parecchie notti, pernottammo, in una decina, nei locali universitari, passando il tempo a leggere i testi della fornita biblioteca di filosofia».

 

Da Lotta continua a Radio Aut

Nel 1972 Peppino aderì a “Lotta continua”, un’altra delle organizzazioni politiche extraparlamentari nate in quegli anni. Ad avvicinarlo a Lc fu Mauro Rostagno, leader del movimento studentesco, ucciso anch’egli in un agguato mafioso nel 1988, dopo aver denunciato i trafficanti di droga del trapanese.

Peppino, in quel periodo, fu tra i promotori delle lotte dei lavoratori edili e tra i fondatori del circolo “Musica e cultura” di Cinisi, «una consistente esperienza di massa, aperta alle istanze culturali, alle novità ideologiche, musicali e politiche del momento». Scioltasi “Lotta continua”, egli partecipò attivamente al “movimento del ‘77”, prendendo parte a una grande manifestazione contro la repressione, che si svolse a Roma il 12 marzo 1977. Fu in questa circostanza che maturò in lui l’idea di dar vita anche in Sicilia ad una radio libera, sul modello di Radio Onda Rossa.

Nacque, così, Radio Aut, che trasmise fino all’estate del 1980 e divenne un importante strumento di aggregazione sociale e di controinformazione, attraverso cui – con toni spesso sarcastici e dissacranti – si denunciò il malaffare che ruotava attorno al potere della Democrazia cristiana. Furono prese di mira, soprattutto, le attività illecite che coinvolgevano gli affiliati alle cosche mafiose, tra cui proprio il boss Badalamenti, che nelle trasmissioni radiofoniche era spesso etichettato col nomignolo di “Tano seduto”. La radio libera si prodigò specialmente nella denuncia del “Progetto Z 10”, che prevedeva, fra l’altro, la costruzione nel comune di Cinisi di un porto per imbarcazioni di lusso, con la connessa realizzazione di bungalow, piscine e campi da tennis (ovviamente gestiti dalla mafia).

 

L’adesione a Democrazia proletaria

Fu in questo frangente che Peppino entrò in una fase di riflessione critica e si scontrò con la cosiddetta “ala creativa del movimento”, che aveva optato per un ripiegamento individualistico, a scapito dell’impegno politico attivo.

In polemica con una “Comune” sorta in quegli anni a Terrasini, Peppino e altri suoi compagni inviarono una lettera al quotidiano Lotta continua (che però non la pubblicò…), segnalando i pericoli insiti nelle iniziative intraprese dai sedicenti “comunardi”, «in quanto completamente estranee a qualsiasi esigenza politica, culturale e di liberazione».

Maturò così in lui la necessità di un salto di qualità nel suo impegno politico, che lo spinse ad avvicinarsi a Democrazia proletaria e ad occupare simbolicamente la sede di Radio Aut in segno di protesta contro il disimpegno di molti collaboratori.

Egli decise, infine, di dar vita ad una lista antagonista (col simbolo di Democrazia proletaria) per partecipare alle elezioni amministrative che si sarebbero tenute a Cinisi nella primavera del 1978, contando di conquistare almeno un seggio: una strategia che metteva a repentaglio gli equilibri esistenti all’interno del consiglio comunale (dove da qualche anno era in atto un accordo di governo fra la Dc e il Pci), rischiando, quindi, di intralciare le lucrose attività della “mafia imprenditrice”.

 

Cronaca di una settimana cruciale

Nel settimo capitolo Vitale ricostruisce gli avvenimenti che avvennero a Cinisi fra l’8 e il 14 maggio 1978, a partire dal guasto ­– presumibilmente dovuto a un sabotaggio ­– che fermò per alcuni giorni le trasmissioni di Radio Aut.

La sera dell’8 maggio Peppino scomparve improvvisamente e a nulla valsero le spasmodiche ricerche compiute dai suoi amici, protrattesi fino all’alba del giorno successivo, allorché giunse la notizia della sua tragica morte, che all’inizio – come abbiamo già detto – fu attribuita dagli inquirenti a un maldestro attentato ferroviario («non si voleva soltanto ucciderlo, ma distruggerne la figura, l’idea e la memoria»). La Digos avallò poi la tesi del «suicidio “eclatante”», usando pretestuosamente ­una vecchia lettera scritta da Peppino in un momento di sconforto, in cui egli aveva espresso l’intenzione «di “abbandonare” la politica e la vita».

Fu a questo punto che la Federazione palermitana di Democrazia proletaria fece affiggere un manifesto in cui si sosteneva, invece, che «Peppino Impastato è stato assassinato». Gli amici di Peppino si recarono sul luogo del delitto, rinvenendo alcune macchie di sangue su un sedile di pietra all’interno di un casolare, e provvidero a segnalare il fatto ai carabinieri.

Il 10 maggio si tennero i funerali e il corteo funebre si trasformò ben presto «nella prima vera manifestazione di lotta in massa contro la mafia». Il giorno dopo si costituì il collegio di difesa (affidato agli avvocati Turi Lombardo e Nuccio di Napoli), mentre al professor Ideale Del Carpio – il perito che aveva eseguito le rilevazioni sul corpo dell’anarchico Giuseppe Pinelli – fu affidata dalla famiglia Impastato la perizia di parte, che portò a ipotizzare la tesi dell’omicidio, cui aveva fatto seguito la messinscena del finto attentato.

Il 12 maggio ci fu una manifestazione studentesca antimafia a Palermo, che venne duramente repressa dalla polizia. Il giorno seguente si costituì, sempre a Palermo, un Comitato di controinformazione (da cui sarebbe poi scaturito, alcuni anni dopo, il Centro siciliano di documentazione “Peppino Impastato”) e fu presentata un’interrogazione parlamentare da parte di Massimo Gorla e Mimmo Pinto, deputati di Dp, che chiesero al governo di fare chiarezza su quanto era accaduto. La famiglia di Peppino inoltrò alla magistratura una denuncia per omicidio «contro ignoti».

Il 14 maggio, infine, si tennero le elezioni amministrative a Cinisi. L’esito fu sorprendente: la lista di Dp raggiunse il 6,5 % dei voti e Peppino Impastato risultò eletto “da morto” tra i consiglieri comunali, con ben 264 preferenze! Si trattò di un gesto di alto valore politico: una parte dell’elettorato aveva votato apertamente contro la mafia, esprimendo la volontà che fosse fatta piena luce sul delitto.

 

Indagini e sentenze

La perizia sul sangue trovato nel casolare dimostrò in maniera irrefutabile che si trattava di quello di Peppino (il quale aveva un gruppo sanguigno molto raro). L’inchiesta sulla sua morte fu affidata all’Ufficio istruzione della procura di Palermo: del “caso Impastato” si occupò personalmente il giudice Rocco Chinnici, che nel 1983 sarebbe caduto a sua volta vittima di un agguato mafioso.

Chinnici svolse le indagini minuziosamente, senza riuscire però a trovare le prove che avrebbero potuto portare all’incriminazione dei mandanti e degli esecutori, anche perché non fu adeguatamente supportato. Nel 1984 il consigliere istruttore Antonino Caponnetto si vide costretto ad archiviare il caso con la motivazione: «Omicidio ad opera di ignoti».

Nel 1988 l’inchiesta fu riaperta dal giudice Giovanni Falcone, che si recò persino negli Usa per interrogare Badalamenti nel carcere di Fairton nel New Jersey (dove è morto nel 2004). Anche questa volta, però, l’indagine si concluse con una richiesta di archiviazione, nel 1992.

Bisognerà attendere il 1995 per assistere ad una nuova fase investigativa, soprattutto dopo le rivelazioni fatte da Salvatore Palazzolo, «un pentito di mafia di Cinisi, già affiliato alla cosca di Badalamenti». L’indagine si chiuse con una richiesta di rinvio a giudizio per Badalamenti e il suo “braccio destro” Vito Palazzolo, firmata nel 1997 dai sostituti procuratori Ignazio De Francisci, Salvatore De Luca, Franca Imbergamo e Guido Lo Forte.

Tra rinvii vari e patteggiamenti si è giunti nel 2001 alla prima sentenza: Vito Palazzolo è stato condannato con rito abbreviato a trent’anni, quale «mandante dell’omicidio di Peppino». Nel 2002 Badalamenti, in un processo parallelo, è stato condannato all’ergastolo come «mandante e responsabile dell’omicidio». Quanto agli esecutori materiali del delitto, vari collaboratori di giustizia hanno indicato i nomi di Antonino Badalamenti e Francesco Di Trapani; entrambi, però, sono deceduti prima che avesse inizio l’iter processuale.

Giustizia, dunque, è stata fatta, anche se non sono stati perseguiti coloro che, soprattutto all’inizio, hanno deliberatamente tentato di depistare le indagini!

 

Che cosa è rimasto di Peppino?

A trent’anni di distanza il ricordo di Peppino Impastato è ancora forte, e non solo in Sicilia. In questi sei lustri la sua memoria è stata mantenuta viva dagli amici e dai familiari, in particolar modo dal fratello Giovanni e da Felicia, la “madre coraggio” morta nel 2004.

Oltre al Centro siciliano di documentazione “Peppino Impastato” di Palermo, sono recentemente sorte altre associazioni impegnate nella lotta alla mafia: ricordiamo, in particolare, l’Associazione culturale “Peppino Impastato” di Cinisi e il Forum sociale antimafia “Peppino Impastato”, che ogni anno organizzano eventi a carattere culturale e politico, soprattutto nella prima decade di maggio.

Peppino Impastato – a nostro avviso – ci ha lasciato alcuni insegnamenti duraturi, che Vitale ha ben evidenziato nella Conclusione del suo libro: «In ogni caso non ci troviamo davanti a una storia di paese o a una semplice storia siciliana: la capacità di Peppino Impastato, nel saper leggere subito gli aspetti nascosti o meno evidenti della realtà, […] la sua irrisione nei confronti del conformismo e dei modelli precostituiti dell’ipocrisia, […] la sua attenzione sulla funzione e sull’influenza determinata dalle strutture culturali e organizzative della società, costituiscono un’eredità inestimabile e un invito a tutta la società civile ad attivare forti processi di rottura se si vogliono innescare i percorsi del cambiamento».

 

Giuseppe Licandro

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 13, settembre 2008)


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