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Anno II, n° 12 - Agosto 2008
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Problemi e riflessioni (a cura di Francesca Rinaldi) . Anno II, n° 12 - Agosto 2008

Zoom immagine Uguaglianza di diritti
e libertà di essere:
competizione aperta

di Anna Foti
Discriminazione e pregiudizio, e diritto
alla diversità in un volume Rubbettino


Ogni comunità ha i propri centri e i propri margini, abitati dalle minoranze. In ogni società il singolo individuo ha un proprio ruolo. Questa lettura essenziale, ma non semplicistica, sottolinea la necessità di affermare il principio di uguaglianza dei diritti nel più ristretto contesto di appartenenza, che rappresenta un viatico imprescindibile per un suo autentico e responsabile riconoscimento in una dimensione universale e globale. Verso questo percorso di consapevolezza guidano le pagine del volume intitolato Traiettorie di sguardi. E se gli altri foste voi?, scritto da Geneviève Makaping, antropologa di origini camerunensi da oltre vent’anni in Italia, ed edito da Rubbettino (pp. 138, € 7,75). Una provocazione che induce alla riflessione e che delinea una visione, per qualcuno un’utopia, ad ampio raggio in cui dignità e libertà di ciascuno trovano medesimo spazio a livello globale laddove si attiva lo strumento della responsabilità individuale nelle singole comunità, considerate tasselli del più complesso ed eterogeneo puzzle di una globale. La logica suggerisce, infatti, di allargare le nostre vedute solo quando si è certi di aver osservato bene intorno a noi ciò che accade e di aver assunto, individualmente prima e collettivamente poi, un ruolo nei confronti di quei valori che riteniamo universali.

Ebbene, possono esistere delle minacce per l’uguaglianza e la libertà, che prontamente manifestiamo di condividere e che condanniamo. I volti di queste minacce sono insidiosi e spesso ben mimetizzati dietro la paura del diverso, l’esigenza di sentirsi gruppo e il timore di confronti individuali, la paura di smarrire una propria identità nazionale e di contaminare le proprie tradizioni, la resistenza ad una forma di accoglienza fatta di reale interazione ed effettiva cooperazione. Questa minaccia si chiama discriminazione e il punto di partenza per impedirle di radicarsi è rappresentato dalla consapevolezza per la quale «le diversità sono sempre almeno due». Dovremmo chiederci se tale diversità, mai presente in uno solo ma in entrambi gli interlocutori, non costituisca un problema nella nostra cultura, nel nostro quotidiano.

In questo libro Makaping racconta di aver subito discriminazioni nel nostro paese, proprio qui tra noi, e di avere scelto di condividere la sua esperienza attraverso la stesura di esso, che ha le vesti di un diario. La discriminazione è il primo vero nemico di quei valori inviolabili la cui enunciazione e la cui condivisione, senza un’effettiva liberazione dal pregiudizio e dalle etichette, perdono ogni significato.

Tale argomento ci trova molto poco inclini alla problematizzazione del fenomeno, all’ammissione di alcuni atteggiamenti magari ormai consolidati, ad alcune reazioni sempre ben giustificate che, invece, nascondono quel che è difficile riconoscere nella sua interezza e gravità, poiché è universalmente combattuto: il razzismo. Se razzismo deve essere che sia almeno consapevole.

 

Dalla discriminazione al desiderio di ascolto

La diversità determinata da origini etniche esiste, questo è un dato di fatto, il punto è comprendere come interagire con esse. «Dobbiamo disimparare il pregiudizio», scrive l’antropologa. La sua esperienza ci serve infatti per conoscerci, per evidenziare quello che tra di noi non emerge per incapacità, per ipocrisia, per paura e che invece ci riguarda direttamente, visto che per altro ci ostiniamo a parlare di libertà, di uguaglianza e di giustizia, essendone nella maggior parte dei casi sinceramente convinti.

Il suo racconto ci è utile perché ci pone di fronte ad una realtà con cui dobbiamo necessariamente fare i conti, abbandonando i falsi passi di un antirazzismo facile che fa stare tutti dalla parte giusta in un ruolo che, pur dovendo essere quello di un attore nella promozione concreta di valori, invece diventa un ruolo di passivo, a volte incoerente, spettatore. Sul filo di un’alternanza necessaria ma non definitiva tra “me” e “loro”, “loro”, “i diversi da loro” e “la mia gente al margine”, gli “uni” e gli “altri”, Makaping racconta il suo viaggio di osservazione, di scoperta, di indagine in riferimento alla discriminazione di razza. Un percorso che invita ad un cammino comune in occasione del quale ragionare su un fenomeno trasversale che alimenta i pregiudizi e che coinvolge, a tutte le latitudini, tutti gli individui, magari anche solo in modo inconscio, compromettendone il pieno esercizio delle libertà e l’uguaglianza nei diritti. Un’esperienza che non suscita nella scrittrice vano vittimismo, né quella rivendicazione di chi, subendo atteggiamenti discriminatori, non riesce a decontestualizzarli, a decostruirli, ad analizzarli obiettivamente, fermandosi così al fatto in sé, che, pur se grave, rappresenta solo una fetta di un problema invece molto più ampio. Tale visione parziale non favorirebbe, infatti, una consapevolezza globale del problema, né tantomeno suggerirebbe un intervento idoneo a minare quello stesso pregiudizio.

L’esperienza di discriminazione in quanto donna e in quanto donna di colore, ha condotto invece l’autrice a maturare il desiderio di ascolto e comprensione, di osservazione e ricerca. Uno sguardo che, durante la sua fuga da casa, scorreva velocemente su quanto la circondava. I “bianchi” erano ciò che avevano, erano superiori, stavano su un piedistallo ma solo perché “avevano” di più e non perché “fossero” di più. Adesso la stessa Mapaking, appartenente ad una minoranza, ha scelto di confrontarsi con la maggioranza, per acquisirne gli strumenti, per pensare e articolare in consapevolezza il suo vissuto.

Durante il suo viaggio non comprendeva tanti episodi, si arrendeva dinanzi a certi divieti, a certe difficoltà e si indignava rispetto ad altri. Adesso il suo sguardo si è acuito, come il suo ascolto, e si sofferma più attentamente sugli altri e su se stessa. «Non è affatto ovvio capire a fondo il perché delle cose che ci accadono, malgrado nell’immediatezza dei fatti abbiamo la certezza di aver subito un torto o, peggio, di essere rimasti feriti nella nostra persona. La ferita sanguina ancora di più rispetto a quando prendiamo coscienza delle sue cause». Questo scrive per raccontare che gli orizzonti si sono allargati dolorosamente e faticosamente quando ha realizzato che il colore della sua pelle incarnava un’inferiorità totale e globale della persona, non riguardando solo uno svantaggio in termini di ricchezza. «La sua inferiorità è stata pensata prima della sua negrezza». Si stenta a comprendere, sottolinea nel suo libro, un concetto fondamentale e cioè che la schiavitù ha posto le persone di colore in una posizione di svantaggio. La schiavitù, come evento storicamente e socialmente determinato, si è concluso. Dunque non il colore della loro pelle li ha resi schiavi ma la storia nel suo complesso percorso.

 

La mediazione come strategia per decostruire il pregiudizio

Una voce, quella dell’autrice, che racconta, si interroga e interroga, alzando i toni e tacendo all’occorrenza per denunciare, anche con il silenzio, ciò che, oltre ad essere universalmente ingiusto, è divenuto intollerabile e inaccettabile per lei stessa, donna di colore con il diritto ad avere dei diritti.

Il suo confronto con il centro le ha fornito quegli strumenti di conoscenza e consapevolezza di cui l’Occidente ha da tempo piena disponibilità e che ha spesse volte utilizzato per alimentare il pregiudizio e, poi, per non vederlo. Utilizza i medesimi strumenti per decostruire quello stesso pregiudizio e ridenotare certune parole «che a volte sono pietre» come tolleranza, extracomunitari, persone di colore, poveri. La sua strategia si concretizza attraverso la mediazione e il dialogo. Cercare le ragioni di una propria appartenenza, sapendo di dover prima individuare e scandagliare le ragioni della sua esclusione. Un’azione costante tra margine e centro. Essere, come lei stessa scrive, borderline, eccentrica, al centro e al margine al tempo stesso. Ella si trova al centro rispetto al margine in cui è rimasta la “sua gente” e al margine rispetto al centro della società occidentale. Diventa un vero e proprio esercizio, una sfida che accoglie perché la riguarda e cerca gli strumenti per poterla affrontare.

Non si può scegliere dove nascere ma si può scegliere dove rinascere e a che cosa appartenere, senza dimenticare mai da dove si sia venuti e senza che questo crei delle fratture o delle etichette di diversità o di alterità. Eppure gli incontri sono spesso invece dedicati a celebrare e scandagliare queste etichette. Come se tale rinascita fosse lecita ma di fatto additata. C’è da chiedersi se consentire ciò non costituisca uno dei nuclei fondanti dell’essenza di un paese autenticamente democratico e soprattutto consapevole della presenza di sfide di civiltà non ancora pienamente affrontate.

 

Anna Foti

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 12, agosto 2008)

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