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Anno II, n° 12 - Agosto 2008
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Home Page (a cura di Tiziana Selvaggi) . Anno II, n° 12 - Agosto 2008

Zoom immagine Ribellarsi alla criminalità:
fatto di rinunce e vittorie

di Alessia Cotroneo
La scelta sacrificata di un uomo di denunciare
gli aguzzini, pubblicato da Edizioni biografiche


L’emblematica vicenda di un onesto cittadino che si ribella alla mafia, ma che, non trovando il giusto appoggio istituzionale, affronta un percorso legale e di vita anomalo, che si conclude con l’assunzione di una nuova identità. Io, il fu Nino Miceli. Storia di una ribellione al pizzo (Edizioni biografiche, pp. 166, € 14,00) è, anzitutto, la testimonianza di un protagonista indiscusso, ingiustamente accantonato, un eroe ante litteram dell’antiracket, che si è battuto per trasformare il sostegno delle istituzioni non più in pretesa ma in diritto legittimo. Questo aspetto viene approfondito ulteriormente nella Prefazione di Tano Grasso, presidente onorario della Federazione delle associazioni antiracket, già consulente della Commissione antimafia e commissario nazionale antiracket che, al di là dei risvolti istituzionali della vicenda di Miceli, non dimentica di ricordare che dietro questo nome c’è un uomo al quale denunciare e ribellarsi al pizzo è costato molto, forse troppo, nella completa indifferenza della società civile. «Ci fu una ferma sentenza, ma quella fu solo una vittoria di Pirro. A che serviva far condannare decine di mafiosi quando poi il principale teste d’accusa, che proprio per restare uomo libero denunciò i mafiosi, veniva privato della libertà di poter continuare a vivere e a lavorare nella città in cui con il suo sofferto lavoro aveva realizzato una parte delle sue aspirazioni?».

 

Un cittadino “cancellato”

Il protagonista del libro è un uomo che non esiste più, eliminato dallo stato il 10 maggio 1996 e ribattezzato con un altro nome. Il suo fantasma aleggia nelle carte di un processo contro la mafia e di tanto in tanto ricompare nelle stanze del Ministero dell’Interno per firmare qualche modulo. La sua “colpa” è stata rompere la cortina del silenzio, passare dalla collusione con la mafia alla denuncia, accusando i suoi aguzzini.

Nino Miceli era uno stimato concessionario “Lancia”, con una bella famiglia e una vita piena di progetti lavorativi e sogni paterni. Aveva conquistato la sua posizione professionale e l’agio con le proprie forze, partendo dal gradino più basso dell’organizzazione aziendale: la qualifica di operaio. Viveva e lavorava a Gela, nel cuore della Sicilia, negli anni delle guerre di mafia tra Cosa nostra e gli Stiddari, dissidenti tristemente famosi per la ferocia delle loro esecuzioni. Basta poco a sconvolgere una vita “perfetta”, nel suo caso una semplice domanda: «Ma tu lo sai chi sono io?». Era Totò di Giacomo, il capo cittadino di Cosa nostra a parlare, a rivendicare la propria posizione e a pretendere reverenza e rispetto; eppure per Miceli era un cliente come tanti, maleducato ma inoffensivo. Da quel momento la sua agonia ha inizio e le richieste estorsive crescono di pari passo con l’umiliazione e la rabbia di chi vuole continuare a sentirsi libero. La denuncia è la logica conseguenza della scelta di non sottostare più alle regole e al linguaggio allusivo della mafia, fatto di minacce velate e mortificazioni impartite con rispetto tanto ostentato quanto falso.

Il processo si chiude con condanne eccellenti, un’apparente vittoria giudiziaria che non ripaga di anni vissuti nel limbo della paura e dello sconforto, senza passato né futuro, costretto a ricominciare da zero come chi deve cancellare una macchia infamante, come chi deve scontare una colpa. Ma che vittoria è quella che impone a una famiglia di vivere sotto scorta, di cambiare città e identità, stritolata dalla paura? Negli anni in cui l’associazionismo, sotto la spinta dell’omicidio di Libero Grassi, era agli albori e Confindustria siciliana non espelleva gli imprenditori che pagavano il pizzo, un onesto commerciate di Gela è diventato fra i tanti “uno, nessuno e centomila” pirandelliani: il fu Nino Miceli.

 

Le modifiche alla legge antiracket

Nel libro trova spazio un tema controverso e particolarmente dibattuto: la distinzione, a livello di status giuridico e di trattamento, tra pentiti e testimoni di giustizia. La lotta dell’autore, infatti, non si chiude con la vittoria giudiziaria e la “morte” a tavolino di un nome e cognome, ma prosegue all’insegna dell’impegno pubblico. Prendendo in prestito un’affermazione del deputato di An, Alfredo Mantovano, pronunciata il 20 aprile 1998 nell’aula audizioni della commissione antimafia, Miceli è «uno dei quattro casi emblematici di mala gestione dei testimoni». A lui, infatti, è stata inflitta dallo stato l’ulteriore offesa di essere trattato alla stregua del criminale, come se un cittadino incensurato, che si era esposto in prima persona contro la mafia chiedendo l’appoggio delle istituzioni, non fosse degno di fiducia e rispetto. Invece, è stato chiamato a sottoscrivere codici comportamentali che menzionavano espressamente «speciali modalità di detenzione» e l’impegno «a non commettere alcun reato»; ha dovuto subire da esponenti delle forze armate mortificazioni di ogni tipo e risposte come: «Io oggi ho avuto a che fare con trenta delinquenti, oggi lei è il trentunesimo». Umiliazioni che hanno il sapore della beffa per un “cittadino modello” abbandonato a se stesso da uno stato scostante, che lo ha trattato come un pacco ingombrante e lo ha relegato nel grande calderone dei pentiti e dei collaboratori di giustizia.

È stato necessario l’intervento della stampa per sensibilizzare l’opinione pubblica e il governo sull’importanza di una vera politica di appoggio agli imprenditori taglieggiati. In seguito ad articoli infuocati apparsi sul Corriere della sera e la Repubblica, che riportavano le testimonianze di Miceli e di altri commercianti, il governo ha modificato la legge antiracket, introducendo un fondo per le vittime delle estorsioni, la quale rende vantaggiosa anche in termini economici la denuncia. Inoltre, è stata sancita giuridicamente la separazione definitiva della figura del testimone di giustizia da quella del pentito. Passi avanti della legislazione e della società in cui l’autore del libro ha svolto un ruolo di primo piano, in nome dell’amore per questo paese e per la libertà. Infatti, se per alcuni versi il libro può essere letto come un diario personale, in cui la rabbia, la frustrazione, lo smarrimento scandiscono il resoconto cronachistico degli eventi, è indiscutibile il valore paradigmatico della vicenda, che non è «una storia normale, ma una storia anomala in un paese anomalo, insomma una storia italiana, di fronte alla quale ognuno di voi potrebbe dire: “Beh, in fondo potrebbe succedere pure a me…”». 

 

La componente autobiografica si insinua tra gli stralci delle sentenze

La storia di Nino Miceli è una delle pagine più emblematiche della lotta al racket. Essa rappresenta la guerra combattuta da tanti commercianti coraggiosi e onesti che hanno scelto di schierarsi a fianco dello stato a tutela della legalità.

La sua vicenda personale è molto più di un percorso individuale e familiare senza ritorno: è uno spaccato di storia contemporanea italiana, una sorta di cartina al tornasole in cui è possibile intravedere, nella solita assenza, il sorgere in Sicilia delle associazioni antiracket e di nuove dinamiche politiche che hanno portato a modificare la legge contro le estorsioni.

Accanto alla voce narrante dell’autore compaiono nel libro passi di condanne, trascrizioni di atti pubblici e foto degli articoli dei quotidiani nazionali che hanno trattato la vicenda. Si esprimono, così, le due anime dell’opera: la fredda verità processuale e la componente autobiografica, che vede l’autore seguire il filo dei ricordi e puntare il dito contro la propria ingenuità, provando a immaginare cosa sarebbe successo se la sua mente avesse ricomposto in tempo tutti i pezzi del puzzle.

Nel raccontare il proprio vissuto, il protagonista interseca i ricordi degli avvenimenti più importanti della sua vita e le immagini più care dei luoghi dell’infanzia e della giovinezza.

Si tratta di tante piccole storie nella storia, che danno respiro alla narrazione e sembrano riconciliare l’autore con se stesso e con il mondo. Le memorie vengono istintivamente tradotte, nei momenti più bui, in istantanee di vita vissuta: Milano, Caltagirone e soprattutto Roma e Messina, ricordate con l’affetto immutato del cadetto e del bambino. Mentre si ha l’impressione di conoscere perfettamente i luoghi in cui si è svolta la vita del protagonista, descritti con dovizia di particolari tanto da acquistare quasi una consistenza tattile, poco o nulla si sa dei suoi affetti. La sorella lontana e soprattutto i figli e la moglie sono figure sfocate, che rimangono sempre sullo sfondo, di cui non si conosce né il volto né il nome. L’impressione è che l’autore abbia voluto ancora una volta proteggere i suoi cari e i suoi sentimenti più profondi, sottraendoli allo sguardo dei lettori. Al tempo stesso, però, l’assenza di figure forti accanto al protagonista testimonia l’isolamento in cui egli è sprofondato, prima, durante e dopo la denuncia. La solitudine è stata ed è la costante della sua vita, segnata ormai irrimediabilmente dal timore per se stesso e i propri cari, dal quale tutt’ora non riesce a liberarsi. È questo il lato più intimo e umano del fu Nino Miceli, un uomo solo.

 

Alessia Cotroneo

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 12, agosto 2008)

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