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Anno II, n° 11 - Luglio 2008
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Storia moderna (a cura di Mariangela Monaco) . Anno II, n° 11 - Luglio 2008

La storia di Bova alle origini dell’Età moderna
di Fulvio Mazza
Pubblichiamo un saggio che farà parte degli atti di un convegno
organizzato nella cittadina ionica dall’associazione “Apodiafazzi”


Quello che segue è il testo della relazione su Bova e l’avvio dell’Età moderna tenutasi il 3 settembre 2007 a Bova all’interno del Convegno Bova. La sua storia, la sua cultura, le sue prospettive economiche e sociali  organizzato dall’Associazione di Cultura Greca “Apodiafàzzi”.

 

1. L’avvio della modernità

 

Se si dovesse scegliere la data da proporre come avvio dell’Età moderna nella cittadina di Bova, l’indicazione più significativa dovrebbe essere cercata in quella del 29 gennaio 1524. In questa data, si verificò una complessa e non trasparente vicenda di trasmissione del titolo di vescovo della diocesi di Bova dall’anziano presule Procuro Correale al nipote Donato. La successione nella titolarità vescovile, assolutamente non straordinaria, data l’amplissima compravendita di titolarità delle diocesi – fattore non ultimo del Manifesto di Lutero, del 31 ottobre 1517 –, sollevò proteste non del tutto disinteressate nella Chiesa locale e in particolare presso il Metropolita di Reggio Calabria, di cui la diocesi di Bova era suffraganea, anche perché lo stesso arcivescovo della città dello Stretto aveva da secoli la titolarità feudale di Bova.

Il Concistoro vaticano, alla fine di gennaio del 1524, decise di unire la diocesi di Bova a quella di Reggio e l’arcivescovo di questa città avrebbe dovuto divenire la guida spirituale della diocesi reggina. Si trattò anche in questa caso di una scelta contestata e non tanto perché essa minacciasse, come si è voluto credere, il carattere greco del culto religioso bovese, poiché da lungo tempo il presule della diocesi di Bova apparteneva a famiglie latine, da ultimo gli stessi Correale (zio e nipote) era originari di Sorrento. In realtà il cardinale Trivulzio venne costretto da un nuovo intervento vaticano alla rinuncia a cumulare il presulato di Bova, che venne definitivamente affidata a Donato Correale, che la tenne fino al Concilio di Trento. Poi si ritirò lui stesso nella sua città natale e pilotò la nomina, non a titolo gratuito, di un suo parente, sempre sorrentino, alla guida della diocesi, di nome Achille Brancia. Proprio da quest’ultimo si conoscono le ragioni dell’insofferenza, tutta laica, della popolazione della diocesi verso il metropolita di Reggio, poiché questi era accusato di vessazioni e di false testimonianze prodotte ai danni dei bovesi. Se si pensa che Brancia contestava, in nome dei suoi fedeli, una personalità di primo piano della Chiesa meridionale, come Gaspare Ricciulli del Fosso, che era arcivescovo reggino, si può comprendere quali fossero state le ragioni che avevano portato la Curia romana a modificare la decisione concistoriale del 1524.

Si coglie nella vicenda narrata, un complesso di motivazioni di notevole rilievo storico: la dialettica tra potere feudale e potere vescovile che costituisce una modalità attraverso la quale emergono i problemi della comunità, a diverso titolo, amministrata da questi due poteri; la persistenza di questa modalità conflittuale anche quando i due poteri hanno la stessa matrice ecclesiastica; la permanenza per tre titolarità vescovili, nelle diocesi bovese, e per più di un secolo, di famiglie di origine sorrentina, appartenenti cioè a una delle comunità campane tra le più dinamiche nelle attività mercantili. Mentre di minore spessore appare la crisi della spiritualità greca della comunità grecanica, se è vero che proprio il successore dell’ultimo dei tre sorrentini alla guida della diocesi bovese, Giulio Stauriano, già vescovo della diocesi di rito greco di Megera, traslato a Bova, nel 1571, dopo l’occupazione turca di Cipro, verso la fine dell’anno successivo abolì il rito greco nella diocesi di Bova, sostituendovi, senza apparenti reazioni, il rito latino [1].

Che la situazione, dal punto di vista religioso non dovesse avere assunto un andamento drammatico è provato dal fatto che nel corso degli anni Ottanta, proprio l’arcivescovo Ricciulli del Fosso, temendo un assalto turchesco al capoluogo della diocesi reggina, che verrà condotto in effetti qualche anno dopo, per sfuggire al pericolo, si rifugiò con tutta la sua corte vescovile a Bova [2]. E tutto ciò contrasta con le notizie di fonte ecclesiastica soprattutto seicentesca sull’assoluta povertà del sito bovese e sulle scarsissime risorse della sua diocesi [3].

 

2. La popolazione

 

L’andamento della popolazione della cittadina di Bova non è diverso da quello degli altri centri calabresi e meridionali coevi. Dopo la crescita cinquecentesca conclusasi, secondo la numerazione del 1595, con un sostanziale raddoppio rispetto al conteggio fiscale di metà Cinquecento (la popolazione sarebbe cresciuta da 230 fuochi nel 1545 a 413 cinquant’anni più tardi) la numerazione del 1648 vede la cittadina scendere a 373 fuochi. Si tratta di un dato molto significativo, poiché è noto che il conteggio delle famiglie voluto dal viceré di Napoli dopo le rivoluzioni del 1647/48 costituisce una sorta di punizione per i centri che hanno aderito alla rivolta, nel corso dell’anno precedente, da parte dello Stato spagnolo. Quest’ultimo, inoltre, è a conoscenza che la popolazione meridionale in genere e quella calabrese in particolare sono sensibilmente diminuite come l’amministrazione vicereale ha constatato con un precedente conteggio dei fuochi effettuato cinque anni prima e che ha dato esiti così disastrosi per il prelievo fiscale dello Stato, che su quella base sarebbe notevolmente contratto, che il fisco regio ha deciso di non tenerne conto. Il fatto, quindi, che al contrario di ciò che avviene in altre comunità meridionali che hanno aderito ai moti rivoluzionari, i rilevatori fiscali abbiano ammesso una diminuzione della popolazione di una quarantina di fuochi per Bova, è l’indice, abbastanza credibile, che la cittadina ha subito nel corso di mezzo secolo una significativa diminuzione della sua popolazione. Vent’anni più tardi, nel 1669, infatti il nuovo conteggio fiscale vede la popolazione bovese diminuire fino a 264 fuochi, una cifra che testimonia un vero e proprio crollo demografico, che si presenterebbe ancora più accentuato, se si accettassero, sia pure come ordine di grandezza, le cifre calcolate dalla Plutino, che scendono addirittura, per il 1668, a 243 fuochi, anche se, come giustamente nota l’autrice, si tratta di un ordine di grandezza non comparabile con quello della numerazione fiscale di un anno dopo, dato il diverso sistema di conteggio dei fuochi [4].

La situazione sopra rilevata non trova spiegazioni specifiche ricavabili da fonti scientificamente accettabili. Il Valente nella sua già citata scheda dedicata a Bova, e più volte ripresa da altri studiosi in epoca successiva, ricordava come la cittadina sia rimasta coinvolta nei moti insurrezionali antifeudali che si sono registrati anche in Calabria Ultra tra il 1647 e il 1648. Indagini successive sulle vicende dell’età di Masaniello hanno portato a risultati più approfonditi su ciò che è avvenuto in questa parte della Calabria. La Spadaro nel suo volume su Società in rivolta ha esaminato la documentazione esistente su questa parte della regione e ne ha concluso che anche in questa parte grecanica della regione, a partire dal 24 giugno del 1648 molti centri della Calabria Ultra scoppiano in tumulto e gli avvertimenti della Regia udienza provinciale non servono a sedare i disordini. I ribelli cingono d’assedio il palazzo baronale saccheggiandolo senza timore, i baroni sono costretti a fuggire e i rivoltosi si impadroniscono dei suoi beni e delle rendite feudali. In tutti i luoghi sollevati della Calabria Ultra dopo otto mesi le popolazioni non si sono affatto acquietate e continuano saccheggi, incendi e uccisioni. Il duca di Monteleone Pignatelli, incaricato dal governo napoletano di sedare la rivolta, in un rapporto al Governo spagnolo, conclude pessimisticamente che non è nelle sue possibilità sedare il movimento, né in quello del Governo napoletano; inoltre lo stesso Duca ammette di non essere riuscito ad avere informazioni precise per quanto sta avvenendo in territori della provincia come le zone grecaniche e la stessa Bova. La Spadaro riprende la relazione del duca di Monteleone al viceré del 15 luglio 1647, nella quale riferendosi a un gruppo di località della provincia di Calabria Ultra tra cui Bova scrive: «fra questo tempo delle generali revolutioni han tumultuato commettendo eccessi che per esserne poi quietati e non di tanta consideratione lascio di toccare con altra distinta relatione». La relazione è datata 8 aprile 1648 [5].

 

3. L’organizzazione sociale seicentesca

 

Dunque dalle fonti non si ricava che nel circondario di Bova si siano verificati fenomeni assai gravi da richiamare l’attenzione di una personalità così determinata e scrupolosa come il duca di Monteleone, per cui non sono motivazioni politiche quelle che hanno portato alla diminuzione della popolazione. Assai più congruo, per fornire spiegazioni di carattere strettamente demografico, lo studio condotto dalla citata Plutino sull’organizzazione sociale di Bova seicentesca in cui nota che le famiglie complesse «costituite cioè da capifamiglia anziani conviventi con figli sposati e nipoti sono appena il 10% del totale, mentre la famiglia nucleare, costituita cioè da genitori e figli non sposati, copre sostanzialmente il restante 90%. Inoltre viene identificato un gruppo sociale costituito da capifamiglia vedove in numero di 88, un terzo del totale, e capifamiglia anziani o inabili, complessivamente un 15% del totale, nel quale gruppo, pari a più del 50% della popolazione» [6] con redditi che la Plutino calcola al disotto del ducato, la situazione di disagio sociale è grave e le condizioni di vita sono sottoposte a fattori di precarietà legate all’andamento delle congiunture alimentari e di quelle climatiche. Proprio con riguardo a questo gruppo sociale, che la storiografia definisce di poveri strutturali [7], si spiega come una temperie largamente negativa come quella ben nota del Mezzogiorno seicentesco (terremoto del 1638, rivolte dell’età di Masaniello, peste del 1656, rivolta di Messina) abbia inciso fortemente sul numero degli abitanti di questa comunità [8].

 

4. Una descrizione ottocentesca

 

D’altra parte la società bovese moderna non esprime soltanto una scontata e forte condizione di povertà. Una descrizione ottocentesca rimasta a lungo inedita e ora pubblicata da Maria Pia Mazzitelli offre un convincente quadro della struttura urbana di Bova che vale la pena di ripercorrere con l’autore:

«Posta in aperto la situazione della città, ed il dominio, in cui si attrova, prendiamo a parlare della sua estenzione. Questa si deve considerare in due maniere, cioè l’una prima della venuta dei Saraceni, l’altra dopo l’invasione di questi. La prima era troppo angusta, poiché cominciava dal gran Castello, e propriamente nella sua base diretta alla tramontana una muraglia, che sin oggi si vede, e prendeva per l’occidente dal monte interrotta da varie rupi di pietra viva, sopra alcune delle quali erano situate molte torri, e scendeva ad unirsi alla gran rupe, ove oggi è situato il campanile della Cattedrale, il quale prima era una torre della città, e quindi allungandosi verso l’oriente in linia dritta dopo alcune torri in altre rupi situate, di nuovo andava volgendosi alla tramontana, e si univa alla base del castello verso l’oriente, racchiudendo un gran piano di terra oggi detta Parvasia. Questa estenzione della città antica, benche nemeno sia stata la terza parte in grandezza di quello che è al presentemente la città nuova, era non dimeno la più inespugnabile, e la più forte, che potesi considerare dall’umano intelletto, merceche oltre le torri, che ogni poco difendevano le mura attaccate alla loro base, che era di gran pietra di rupe massiccia, il sito di fuori era inaccessibile essendo alpestre, e scosceso (che presentemente non è, essendosi stata molto più in giù la città) e non vi era altro adito per entrare dentro, forché una porta che sin oggi mantiene i vestiggi all’occidente del soprascritto campanile situato in mezzo due fortissime torri, val a dire tra la base del campanile sopradetto, e la base dell’altra rupe, nella quale si vede edificata l’altra torre detta torre di Aghios Marini, o per meglio dire Aghios Marino. Sotto tal porta a distanza di 15 passi incirca vi è una strada lunga, che oggi si appella Dromos, cioè in latino cursus, avendosi per tradizione, che ivi faceansi varii giochi, tra i quali il corso dè pallii, e dei cavalli, o pure come vogliono alcuni dal sito della strada negli due estremi sollevata, e nel mezzo incurvandosi molto più abbassata, per cui di lor natura i cavalli, ed ogni altro giumento da qualsiasi parte d’essa vegnendo sogliono sollecitare il camino, e correr con maggior velocità nel mezzo di essa, che nel suo principio, e fine.

In tal luogo di Dromos è situata la chiesa di San Costantino, cittadino di Bova, stato pria monaco di San Basilio, e poi vescovo dell’istessa sua patria, la quale fu ivi fabricata per riguardo della sua abitazione pria di andar al Cenobio; ed in essa scendeva ogn’anno processionalmente il Capitolo coll’intervento del Magistrato a celebrar la festa nel giorno festivo d’esso Santo nei 20 di settembre. Oggi però dalla sciocchezza d’un vescovo del secolo passato è dedicata tal chiesa a San Costantino Magno imperatore, eretta in parrocchia, come dirò nel corso di questa topografia. Nel descritto recinto della città antica prima delle escursioni saraceniche era sempre racchiusa, (come lo è attualmente) la Catedrale, ed il Palagio Vescovile, e tutti i domicilii degli cittadini ricchi, e civili, poiché la moltitudine del popolo era sparpagliata in moltissime abitazioni sparse per il territorio, sebene sotto il dominio, e nome generale della città di Bova, come dimostrerò più appresso.

Squittinata l’antica estenzione, scendiamo a parlar di quella, che gode presentemente la città. Costretti gl’innumerevoli abitatori delle maritime contrade di Bova dalle barbare devastazioni saraceniche ad abandonare le campagne, una buona porzione di essi si ricoverò in Bova per istare sicura; ma perché il recinto era troppo angusto, e non potevano capire dentro le muraglie di essa città, cominciarono a fabricare verso il mezzodì sotto della medesima a vista del mare, moltissime case, e palazzi, spinti si dall'amenità del luogo, come pure dal vedere alla distanza di 200 passi incirca dall’antiche mura della città varie rupi di pietra non dissimili a quelle, che contenevano le torri soprascritte della città, e tanto più invitati vedendo, che per mezzo di esse fabbricando molte altre torri, e fortini venivano sommamente difesi, e sicuri; come infatti sortì, fabricando in picciol tempo non meno, che cinque torri, e più di sei fortini fatti di grossi baloardi sulle sopracennate rupi di pietra, tra le quali fecero grosse muraglie coi posti delle sentinelle, le quali tutte abenche poco dirute per l'antichità chiudono la città presentemente. Fabricata adunque la città nuova nella scesa del monte, esposta al mezzodì sembra essere un'altra città sottoposta all'antica, infatti ove pria era la muraglia meridionale dell’antica, adesso è la più stesa faccia del palazzo Vescovile, la quale principia dal campanile della cattedrale, e si stende verso l'oriente insino ad un’altra torre, la quale attualmente abellita serve di una vaga, e deliziosa loggia alli prelati; quindi è che il rimanente della città nuova è tutto quasi sottoposto a tal palazzo, fuorché i due borghi siti fuori le porte, e muraglie della città, e quel quartiere detto oggi Pirgoli dal greco vocabolo pirgos, cioè in latino torre, per la molteplicità delle torri attaccate all'esterne mura del suddetto quartiere, nel quale furono situate molte famiglie degl’ebrei, fugiaschi dalla Giudea, le quali erano chiuse non altrimenti che quelle di Roma, da due parti, cioè l'una porta vicino la torre di Ajosmarini, l'altra sopra la porta della torre, con assegnarle ancora una porta, che menava fuori la città, differente dalle quattro, che oggi esistono, e propriamente 20 passi incirca lontana verso il settentrione dalla porta della torre, la quale dopo che furon discacciati gl'ebrei verso il 1578, fu chiusa di muro restando le sole quattro, delle quali raggionerò più sotto. Quindi devesi notare che tal quartiere di Pirgoli sin oggi giorno si appella il quartiere degl'Ebrei, quali anticamente contenea.

Curiosissima però, e meravigliosa è la figura della città, guardata da lontano, sembrando un vero naviglio corredato, e fornito di tre alberi colle vele, prora, poppa, e carina. Infatti il castello sito nella cima del monte rappresenta l'albero maestro; la torre di Ajosmarini rappresenta l'albero della prora, ed una gran rupe con un fortino nella porta di Surizo dimostra l'albero della poppa. La carina vien rappresentata dal borgo di San Antonio, la prora dalla torre, che sovrasta alla porta dell'istesso nome, la poppa dall'antichissima chiesa dello Spirito Santo coi fortini dietro di essa distesi, e le vele son rappresentate dal palazzo del Vescovo unitamente con la cattedrale, ed il seminario, e dagli rimanenti edificii della città, onde è che mirata in qualche distanza porge una gratissima veduta agl’occhi dei riguardanti.

Ma quello che è più considerevole, si è, che la città sebene non piana forche nella parte più meridionale, e non avendo di circonferenza più di un miglio, è non dimeno talmente con ordine, e simetria disposta, che fa meraviglia a chi attentamente la consideri. Ella è divisa infatti in 4 parocchie, due situate all'oriente, e due all'occidente. In ogni parocchia vi è una porta di città con una torre vicina, che la fortifica; così nella parocchia di San Costantino vi è la porta della torre, in quella di San Teodoro la porta della Piazza, amendue rivolte all’occidente. Nella parocchia di San Trifonio vi è la porta di Surizzo (ove vi è un quartiere dell’istesso nome così denominato dall’antico strepito, e sibilo del vento, quale cagionava un molino di vento, ivi situato, di cui sin oggi si conserva il nome col greco vocabolo di Animomilos), e per fine nella parocchia di Santa Caterina vi è l’altra di Rhaos, la quale colla sopracennata di Surizzo è rivolta all’oriente; ne vi è altro adito per menare alla città forche in alcuna parte, ove si diroccò parte delle mura, le quali non furono indi di nuovo rifatte, e restaurate.

Nella parte settentrionale, e propriamente nel mezzo del monte, oltre il gran Castello vi è col Palazzo colla Corte Vescovile. Nella parte più australe, oltre il Seggio della città, e la maggior piazza di essa vi è il Palazzo, che serve di residenza al Governatore della città colla sua corte.

Fuori le mura meridionali dell’istessa sono fabricati i due borghi, dei quali il primo, osia il borgo di Sant’Antonio sito nella parte più bassa sotto la porta, e torre della piazza è sottoposto alla parocchia di San Teodoro, il secondo, osia il borgo di Rhaos sito fuori la porta dell'istesso nome va annesso alla parocchia di Santa Caterina. Per ciò che riguarda le amenità, i palazzi, e case dentro la città sono talmente disposti, che non vengono in alcun modo occupati, e gl’uni non offendono la veduta degl’altri, azi tutti anno una nobile, e spaziosissima veduta si nelle strade della città, come pure nell’amenissime campagne, e verso il mare, a cui per lo più son rivolti. Dalle quattro porte della città sporgono diverse strade tutte inselciate, le quali menano nelle campagne, ed alle fontane; ma di tutte una è la più raguardevole, perché oltre il circondare attorno tutta la città (per cui vien detta volgarmente lo Giro) si rende deliziosa dalle ville, giardineti, ed orti deliziosi, i quali la fiancheggiano quasi per tutto il tratto della medesima, che non le repassa l’estenzione di un miglio, e mezzo. Oltre i sopradetti giardini, e ville, è considerevole la suddetta strada per il comodo, che in ogni tempo somministra ai cittadini, merceche girando intorno il monte non solo si rende piana, ma nell'istesso tempo parte è esposta al sole, e parte ombrosa. Quindi è, che porge un dilettevole spasso di mattina, e di sera, d'inverno, e di està a chiunque la va a passeggiare» [9].

 

5. Il quadro economico

 

Un quadro che rende giustizia anche all’immagine seicentesca della città pubblicata dal Pacichelli e che testimonia, ove ce ne fosse bisogno, di una vita civile e di una condizione di relativa prosperità dei gruppi sociali che mantengono il controllo delle maggiori risorse produttive locali. In primo luogo, naturalmente, la giurisdizione feudale esercitata su Bova dall’arcivescovo di Reggio Calabria, che è anche conte di Bova. Le forme di gestione del feudo ecclesiastico non sono diverse da quelle della feudalità laica, per cui la giurisdizione feudale va distinta anche nella Bova moderna dal forte ruolo che localmente svolgono gli ecclesiastici legati alla vita della diocesi autonoma di Bova. La Plutino ha, inoltre, offerto un’indagine accurata sulle famiglie facoltose della cittadina e ne ha tratto indicazioni molti interessanti sulle fonti di reddito che consentono a queste famiglie, alla giurisdizione feudale, ecclesiastica e alle rendite della diocesi di offrire alla comunità un patrimonio urbano, quale quello sopra descritto. Di particolare rilievo in queste gruppi sociali più fortunati, la coltura dei gelsi che si trasforma naturalmente in seta grezza e quella dell’allevamento del bestiame, in primo luogo ovini, ma anche bovini, attività da cui si traggono quantità più che accettabili di prodotti caseari, di pellame e di lana. Seta grezza, formaggi e pelli sono la ricchezza più cospicua che la Calabria moderna esprime e il contesto territoriale di Bova è, sotto questo aspetto, particolarmente favorito dalla sua vicinanza allo Stretto di Messina e alla grande città siciliana che costituisce uno dei punti di riferimento delle attività mercantili nel Mediterraneo moderno.

Una delle curiosità che meglio descrivono questa condizione della cittadina per quanto riguarda, ad esempio, i rapporti con l’arcivescovo conte è costituita dalle informazioni che possediamo sull’invio da parte della corte feudale di Bova di due schiavi all’arcivescovo di Reggio, in qualità di feudatario della cittadina, che vengono affidati a un collaboratore del sopradetto. Si tratta di un omaggio feudale offerto dalla cittadina di Bova che attesta come alcune sue famiglie fossero in grado di permettersi l’acquisto di schiavi, in genere provenienti da sequestri operati dalla pirateria cristiana nei confronti delle marinerie barbaresche, patrimonio umano molto costoso in questa fase storica. Altrettanto significativo il rapporto presente tra il Conservatorio di donne monache esistente presso la cittadina di Bova e amministrato da un membro della curia diocesana, e nobildonne provenienti dalla città di Reggio. Per esempio a metà Seicento la signora Dianora Furnari, vedova di Giovanbattista Amodei e le sue figlie Francesca ed Atonia chiedono di entrare in detto Conservatorio di Bova portando con loro un cospicuo patrimonio. Le gentildonne fissano, tuttavia, in anticipo le condizioni del loro ingresso: in primo luogo che «guastandosi detta Abbatia seu Conservatorio» questo patrimonio dovrà essere loro restituito. Inoltre chiedono che l’amministrazione del Conservatorio debba garantire di essere «governate di vitto ordinario, medici, medicamenti, come soleno fare li altri monasteri di donne» [10].

Queste testimonianze ed altre ancora sulla vita civile bovese in quell’arco temporale consentono di concludere che le condizioni generali della cittadina e quindi il livello di vita complessivo della sua popolazione è legato a vicende congiunturali solo per la parte povera dei suoi gruppi sociali. Proprio un netto miglioramento della situazione sia climatica che alimentare che si verifica, secondo i consueti circuiti del rapporto tra popolazione e risorse studiati da Galasso [11], consente alla popolazione cittadina nel corso del Settecento di raggiungere i vertici che ha toccato alla fine del Cinquecento. A questa data, infatti, si può calcolare che i 413 fuochi rilevati del 1595 corrispondano, usando il tradizionale moltiplicatore 4,5 adoperato dalla storiografia per questo tipo di rilevazione [12], a circa 1.900 abitanti. Ora, alla fine del Settecento il governo borbonico di Ferdinando IV utilizza un nuovo strumento di rilevazione della popolazione costituito dalle fonti parrocchiali che offrono cifre assai più precise sulla consistenza della popolazione meridionale. A questa data, perciò, le fonti coeve offrono per Bova la cifra di 2.500 abitanti, che testimonia come la cittadina sia stata in grado, nel corso del secolo, di far crescere di tanto le sue attività produttive da alimentare in maniera cospicua una popolazione che accelera di molto la sua capacità di crescita. Tutto ciò pur in presenza di fattori demografici negativi come la peste del 1732, la grave carestia del 1765 e il terremoto del 1783, che colpiscono anche i territori della Calabria meridionale di cui Bova è parte.

 

6. Una depressione settecentesca

 

Il contesto statuale in cui vive la comunità bovese si sta profondamente modificando. In particolare l’avvento della monarchia autonoma di Carlo di Borbone, a partire dal 1734, avvia un processo riformatore che ha esiti positivi. In particolare una più equa distribuzione del carico fiscale che è il risultato non ultimo della riforma catastale carolina, meglio nota come onciario, la quale sottopone, per la prima volta, a gravami fiscali sia metà della rendita ecclesiastica, sia la parte burgensatica della rendita feudale. Inoltre i tentativi di porre mano agli eccessi della giurisdizione che il feudatario esercita nella gestione della giustizia penale e civile costituiscono un merito non di scarso conto delle riforme adottate dai sovrani borbonici nella seconda metà del Settecento. Quando sopraggiunge il grande terremoto del 1783, che colpendo la Calabria meridionale con un numero elevatissimo di morti e con una catastrofe ambientale che distrugge interi centri abitati, anche Bova viene duramente colpita. Se il numero dei morti, che le relazioni ufficiali sulle conseguenze di quel sisma riportano, è molto limitato, appena sei, assai più grave è il giudizio sui danni che la cittadina ha subito. Un grande riformatore calabrese, Francescantonio Grimaldi, scrive che «Bova è andata intieramente distrutta», un giudizio forse esagerato, ma è certo che i danni furono assai seri e che una parte cospicua dell’abitato viene atterrata per danni calcolati in 50.000 ducati [13]. Questa spaventosa sparizione di ricchezza complessiva è testimoniata dalle fonti relative alla ricostruzione del dopoterremoto. Il governo borbonico offre al vescovo di Bova, così come ad altri vescovi calabresi, un sensibile sussidio che dovrebbe servire a riedificare i luoghi sacri, ma da restituire in tre rate. Nel 1797 il vescovo di Bova denunzia la povertà dei suoi sacerdoti che ormai «vogliono disfarsino delle cure dell’anime» [14].

All’indomani del terremoto, sia per sopperire all’opera di soccorso nei confronti delle popolazioni sinistrate, sia per avviare in tempi rapidi la ricostruzione dei molti centri urbani distrutti, il governo borbonico, sotto la spinta della letteratura prodotta dal pensiero riformatore napoletano, crea un innovativo strumento di intervento nella vita del paese. Si tratta della Cassa Sacra, così chiamata perché fa nascere un istituto finanziario chiamato a raccogliere e utilizzare le risorse che il governo borbonico di Ferdinando IV intende raccogliere attraverso il sequestro di buona parte dei beni ecclesiastici della provincia di Calabria Ultra. Al di là del giudizio controverso sull’opera di questa istituzione, Placanica ha studiato le forme che ha assunto nella provincia di Calabria Ultra sia il sequestro dei beni ecclesiastici sia la vendita degli stessi sul mercato immobiliare calabrese. Un suo schema relativo alle famiglie benestanti della zona di Bova ci fornisce interessanti elementi di giudizio. Placanica utilizza, infatti, un certificato notarile del 1779 che riporta i nominativi delle famiglie benestanti della cittadina. Su questa base lo storico catanzarese può annotare che solo una delle famiglie inserite nel documento sopraccitato, quella di Giovanbattista Panagia, si fa parte attiva nell’acquisto di beni posti in vendita dalla Cassa Sacra, comprando «cinque pezzotti, per ducati 475,00», una cifra e una quantità giudicati irrisori dallo studioso e che ritiene essere un segnale serio di una condizione economica non buona del ceto proprietario bovese [15].

Una situazione di depressione quella che si realizza a Bova e nella Calabria del tardo Settecento è esaminata con grande lucidità da uno dei migliori intellettuali napoletani dell’epoca. Giuseppe Maria Galanti, considerato una personalità brillante del governo borbonico, compie un viaggio in Calabria nel 1792 per incarico del governo napoletano. Il suo Giornale di viaggio costituisce una durissima messa a punto delle ragioni istituzionali e sociali del sottosviluppo calabrese che egli individua nella palese ingiustizia perpetrata dalle giurisdizioni regie e feudali nei confronti della popolazione amministrata e nella pesantezza del regime feudale che costituisce ormai un ostacolo verso il progresso civile di questa regione. In questo senso si muovono le osservazioni che egli dedica al territorio in cui si situa la giurisdizione feudale di Bova: «da Reggio fino al Capo dell’Armi non vi sono popolazioni se non di coloni appartenenti alla Motta […] di là dal Capo dell’Armi un pantano produce l’aria cattiva […] . Dopo Melito fino alla Roccella il littorale non ha abitazione di sorte alcuna ad eccezione di qualche fondaco de’ baroni. La causa è che le terre sono de’ baroni e de’ luoghi pii che preferiscono la libertà del pascolo alla bonificazione de’ popoli. Per abitarsi dovrebbero concedersi le terre a censo. Quelli che vi hanno poderi propri non possono chiuderli per bonificarli a loro modo, ma vanno soggetti alla servitù del pascolo» [16].

Quanto al problema delle giurisdizioni che opprimono con la loro inadeguatezza la popolazione, Galanti propone al governo borbonico una riforma intesa a creare una nuova struttura amministrativa intermedia tra la Regia Udienza, che ha giurisdizione provinciale, e la giurisdizione feudale con tutte le contraddizioni e le fragilità che le sono tradizionalmente legate. La proposta di Galanti, per quanto riguarda la Calabria Ultra prevede la divisione in sei Ripartimenti il quarto dei quali unifica amministrativamente il territorio comprendente i centri che fanno parte della diocesi di Bova e quella di Reggio [17]. È oltremodo significativo che la scelta ricada su un vecchio strumento di raccordo territoriale come la diocesi che offre garanzie di rapporti tra i centri abitati collaudati da secoli di relazioni interne alle gerarchie ecclesiastiche. La proposta di Galanti non farà in tempo ad essere eseguita. Sette anni dopo, nell’ambito della Repubblica napoletana del 1799 a cui Bova come il territorio reggino non ha offerto contributi significativi, la cittadina viene inserita da una riforma amministrativa del generale Championnet, per suggerimento dei giacobini napoletani, nel cantone che porta il suo nome e che comprende, oltre alla stessa Bova, i centri di «Amendolia, Porta Polizze, Santa Maria del Tridente, Brancalione, Crepacore sotto, Torre di Brizzano, Motta di Bruzzano, Bianco, Sant’Agata, Casignana, Carraffa, Crepacore sopra, Feriano, Maisano, le Rigade, Africo, Gallico, la Rocca, San Lorenzo, Pente datolo Montebello e Capo dell’Armi». La riforma non farà in tempo ad essere realizzata, ma testimonia come la cultura di governo napoletana all’affacciarsi di tempi nuovi abbia visto nella cittadina di Bova un punto di riferimento per importanti trasformazioni politico-amministrative e territoriali [18].

 

Fulvio Mazza

 

NOTE

[1] - Cfr. P. Natoli, La Cronotassi dei Vescovi di Bova. Con illustrazioni biografiche e storiche dall’origine fino all’anno 1933, ms, 1933, Archivio Arcivescovile di Reggio Calabria, in particolare f. 59; P.B. Gams Series Episcoporum Ecclesiae Catholicae, Ratisbona, 1873, p. 860-861; C. Eubel, Hierarchia Catholica Medii Aevi, vv. I-III, Münster, 1910-1913; W. Holtzmann - D. Girgensohn, Oppido und Bova, in «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», XLV (1965), pp. 419-428; P. Kehr, Italia Pontificia, vol. X, Calabria - Insulae, Turici, 1975, sotto la voce “Bova”, p. 49; F. Russo, Regesto Vaticano per la Calabria, vv. I-V, Roma, 1974-1979, regg. 16387, 16410, 16411, 19075, 19538, 19539, 19542, 21246, 22079, 22286.

[2] - G. Valente, Storia della Calabria nell’Età Moderna, vol. 1, Frama Sud, Chiaravalle Centrale, 1980, p. 158.

[3] - Su queste notizie di fonte ecclesiastica rimandiamo alla relazione di E. D’Agostino, I vescovi della diocesi latinizzata di Bova, tenuta all’interno del presente stesso convegno.

[4] - G. Valente, Dizionario dei luoghi della Calabria, vol. I, Frama Sud, Chiaravalle Centrale, 1973, alla voce; per l’andamento demografico calabrese nel corso del Seicento cfr. A. Placanica, La Calabria nell’età moderna, vol. I, Uomini strutture economie, Esi, Napoli, 1985, passim; per la cifra della popolazione di Bova del 1668 cfr. A. Plutino, Bova nell’età moderna. Economia e società, vol. I, Centro Studi e formazione culturale, Reggio Calabria, 1996, pp. 19 ss.

[5] - C.M. Spadaro, Società in rivolta. Istituzioni e ceti in Calabria Ultra (1647-1648), Jovene, Napoli, 1995, pp. 84, 187.

[6] - A. Plutino, cit., pp. 19 ss

[7] - J.P. Gutton, La società e i poveri, trad. it., Mondadori, Milano,1977, passim.

[8] - Cfr. G. Galasso, Economia e società nella Calabria del Cinquecento, Guida, Napoli, 1992, passim.

[9] - Breve e compendiosa topografia o sia compendiose notizie ecclesiastiche e civili della città di Bova … del sacerdote Domenico Alagna… poste in bello da don Pasquale Autelitano, a cura di Maria Pia Mazzitelli, Reggio Calabria, 2007. Il manoscritto è conservata nell’Archivio Nesci di Santagata, busta 51, fasc. 24.

[10] - Citate in F. Arillotta, Reggio nella Calabria spagnola. Storia di una città scomparsa (1600-1650), Casa del Libro, Reggio Calabria, 1981, pp. 165 ss.

[11] - G. Galasso, Storia d’Europa.2. Età moderna, Roma-Bari, 1996, pp. 71 ss.

[12] - Cfr. F. Cozzetto, Mezzogiorno e demografia nel secolo XV, Soveria Mannelli, 1986, pp. 5 ss.

[13] - G. Valente, Storia della Calabria in età moderna, cit., vol. II, pp. 216 ss.

[14] - A. Placanica, Alle origini dell’egemonia borghese in Calabria, Società editrice meridionale. Salerno-Catanzaro, pp. 284, 365.

[15] - Ivi, p. 109.

[16] - G. M. Galanti, Giornale di viaggio in Calabria (1792), Edizione Critica a cura di A. Placanica, Napoli, Società Editrice Napoletana, 1981, p. 212.

[17] - Ivi, pp. 370-371.

[18] - G. Cingari, Giacobini e sanfedisti nella Calabria del 1799, D’Anna, Messina-Firenze, 1957, pp. 317-318.

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 11, luglio 2008)

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