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Anno II, n° 11 - Luglio 2008
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Home Page (a cura di Tiziana Selvaggi) . Anno II, n° 11 - Luglio 2008

Zoom immagine Voci di donna raccontano
mondi avvolti dal mistero

di Annalice Furfari
Un volume edito da Meltemi passa in rassegna
testi che legano femminismo e multiculturalismo


«La donna come cuore del mistero, dell’inconoscibile, la “straniera” per antonomasia». È questo il filo conduttore che lega i saggi critici di Lidia Curti, raccolti nell’opera intitolata La voce dell’altra – Scritture ibride tra femminismo e postcoloniale  (Meltemi editore, pp. 238, € 19,50). Lo sguardo conoscitivo di una signora studiosa indaga e analizza le pagine scritte da altrettante, con l’obiettivo di portarne alla luce le trame riposte, gli oscuri risvolti, i messaggi subliminali e gli intenti inconfessabili. Così, attraverso la critica, la letteratura femminile prodotta a partire dal secolo scorso, si anima di nuova linfa vitale, svelando i suoi volti misconosciuti, taciuti, incompresi e non considerati da troppa esegesi maschile.

Sono molteplici e variegati i testi interpretati e approfonditi dall’autrice: si passa da Virginia Woolf a Luce Irigaray, da Helene Cixous a Trinh T. Minh-ha, da Angela Carter a Gloria Anzaldua, da Catherine Clement a Mary Kelly, da Anna Banti a Louise Bourgeois, da Jeanette Winterson a Mary Shelley, da Julia Kristeva a Donna Haraway, da Assia Djebar a Fatima Mernissi, da Ingy Mubiayi a Igiaba Scego, per finire con Gabriella Kuruvilla. Il comun denominatore che mette in relazione le opere di queste autrici eterogenee è il loro legame profondo con la teoria femminista, nonché l’essere rappresentanti di una vera e propria diaspora etnica, culturale e identitaria, nell’ambito di un mondo anglofono che si intreccia con quello africano, arabo e indiano, dando vita a una letteratura impregnata di richiami esotizzanti. Infatti, «la voce dell’altra» è proprio quella di colei che, sradicata dalla propria terra o costretta a viverci da schiava e subalterna, individua nell’esercizio letterario un canale espressivo per le proprie istanze, nonché un mezzo per affermare e ritrovare l’identità perduta.           

 

La centralità del corpo nella scrittura femminile, tra mostri e androgini

Lo studio di Curti prende avvio dall’esposizione della teoria femminista, che si popola, nell’ambito della letteratura a essa connessa, di «strane mostruosità – corpi deformi, creature ibride, forme inquietanti – che mettono in questione la frontiera tra brutto e bello, umano e animale, me e te, femminile e maschile». Già emerge, da queste parole, la centralità del corporeo nella scrittura delle donne. Ma si tratta molto spesso di corpi dilaniati, distrutti, martoriati, insopportabili alla vista, che sembrano il prodotto della più fervida immaginazione “nera” o il frutto di un bizzarro scherzo del destino. La mente ritorna alle immagini femminili tratteggiate dalla mitologia: le Gorgoni alate e anguicrinite, tra cui Medusa, «tempestosa bellezza del terrore» (così come la definisce il poeta romantico Shelley), Chimera, la Sfinge, le sirene e le arpie, «inquiete portatrici di morte, assai più sinistre di satiri e centauri miti e dediti alla libidine». Da sempre, quindi, la donna è stata descritta come un essere arcano e misterioso, ineffabile e irraggiungibile, oggetto del desiderio e dell’attrazione maschile, ma anche del terrore e della repulsione, generati da ciò che non si conosce e non si comprende mai fino in fondo. Si tratta, però, di ritratti delineati esclusivamente da uomini. Stupisce, perciò, scoprire che le stesse signore, poetesse e scrittrici, si siano abbandonate a tali raffigurazioni suggestive, a partire dal Novecento con Virginia Woolf, la quale compone Orlando (nel 1928), storia di un’androgina e delle trasformazioni da essa subite nel passaggio da un sesso all’altro, sino a quando non giunge ad ammirare, dinnanzi allo specchio, il suo corpo nudo che sposa la forza maschile alla grazia femminile. Questo romanzo mostra l’ambiguità sessuale come una precondizione della scrittura, posizione ripresa dalla Woolf in un saggio successivo, nel quale si sostiene la necessità della collaborazione e della perfetta unione tra essenza femminile e maschile, ai fini dell’esercizio della creazione letteraria. Questa tesi ha suscitato un dibattito particolarmente vivace tra le teoriche femministe che si sono confrontate con il tema della scrittura nei decenni passati, dando adito a posizioni alquanto eterogenee. Tuttavia, ciò che le accomuna è l’importanza attribuita al corpo in correlazione con l’esercizio della letteratura. Ancora una volta, è necessario chiamare in causa la Woolf, che ha legato la scrittura femminile alla condizione economica, fornendo, a tal proposito, il proprio esempio di ereditiera. Solo la sicurezza del possesso materiale le consente, infatti, di abbandonarsi liberamente alla sua più grande passione, permettendole di «poter chiudere la porta tra sé e il mondo», leggiamo nel testo. Così, il miglioramento economico diventa più importante persino di una conquista politica delle donne.

Il legame tra corpo e scrittura è ribadito dalla Woolf in un’altra occasione, nella quale la celebre letterata si sofferma sull’importanza di un lauto pasto come stimolo all’ispirazione artistica. Ancora più pregnante è l’affermazione secondo cui ogni libro deve adattarsi al corpo di chi lo scrive e alle sue caratteristiche («i libri scritti dalle donne dovrebbero essere più brevi, più concentrati di quegli degli uomini», sostiene  ancora la Woolf). Ecco, allora, che il romanzo sembra essere un genere prettamente femminile, perché «è in quella forma che le donne con i loro tempi interrotti e i loro spazi frammentati hanno potuto più facilmente esprimersi». Allo stesso modo, Helene Cixous identifica questo genere di scrittura come linguaggio del corpo, con l’affermazione: «testo, mio corpo»; Trinh T. Minh-ha mostra il nascere della scrittura dal corpo e viceversa, mentre Gloria Anzaldua lega il corpo femminile alla scrittura con immagini molto terrestri, «ispirate all’arida, terrosa, brulla “terra di confine” tra Messico e Stati Uniti, emblema della sua identità divisa come chicana, lesbica, scrittrice».

Comprendiamo, dunque, che la letteratura femminile è profondamente legata tanto alla materialità del corpo quanto alle radici etniche e all’identità sessuale, tematiche che si intrecciano indissolubilmente nell’opera della Curti.

Un’altra caratteristica spesso associata al genere, dalla scienza medica alla psicoanalisi, è quella dell’eccesso isterico. Ma l’isteria, regno della non-ragione e della follia, diventa la fonte privilegiata della creazione artistica, nonché la protagonista di svariate opere letterarie. Allora, persino la ricerca di un’identità stabile e strutturata diviene ardua impresa e le si preferisce il “rifugio” in soggettività spezzate e vaganti. Al contrario, durante gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso è abbondante la pubblicazione di diari, memorie e autobiografie tra le scrittrici femministe, sintomo di un’affannosa ricerca dell’identità personale, che può essere disvelata con la pratica della scrittura.

 

Tra letteratura e radici etniche: la voce della “subalterna”

La ricerca dell’identità personale può coincidere anche con la riscoperta delle proprie origini etniche e geografiche, in particolare quando si è costretti a vivere sotto il giogo del dominio altrui o in un paese straniero. È questa la condizione di numerose scrittrici femministe di cui la Curti ci parla. Sono queste le voci della “subalterna”: voci fluttuanti, che «parlano dai margini di culture e nazioni diverse», «espressione di diaspore geografiche, etniche e identitarie; voci esterne a confini nazionali, discipline ben delimitate, statuti consolidati, e per questo tenute fuori dai canoni prestabiliti per il mancato rispetto delle partizioni rigide tra generi letterari, scritture codificate, prosa e poesia, critica e narrazione». Sono voci libere, che operano “fuori dal coro”, mettendo in gioco se stesse, sfidando le proprie remore e paure, ma soprattutto le opposizioni e gli ostruzionismi di chi vorrebbe ridurle al silenzio eterno, costringendole a vivere ai margini, private di un’identità stabile e definita.

Secondo la scrittrice del testo, la critica occidentale deve accostarsi a queste autrici “sradicate” senza presunzione, indagando i loro lavori con sguardo amico, approssimandosi alle loro realtà e soggettività con discrezione e delicatezza, per non cadere nella trappola di oggettivare la subalternità e non correre il rischio di scivolare in un razzismo involontario, che sottrae loro la parola, sostituendosi alle loro voci e istanze. È proprio ciò che ha operato il colonialismo, nel suo tentativo di assimilare culture differenti attraverso l’imposizione coatta di lingue, usi, costumi, tradizioni, religioni, correnti e movimenti letterari e filosofici. Il risultato di questo dominio forzato ha coinciso con la progressiva scomparsa di lingue, riti, usanze e culture considerate minoritarie e perciò superflue, nonché con lo sradicamento brutale di migliaia di individui, costretti ad abbandonare la propria casa e la propria terra e a vagare in luoghi sconosciuti e ostili, senza sentirsi mai parte integrante di comunità alcuna e senza poter mai mettere radici.

La stessa società multiculturale, di cui tanto si disquisisce al giorno d’oggi, è il prodotto del colonialismo imperiale, in particolar modo di quello britannico. Infatti, nell’epoca del postcolonialismo, molti occidentali continuano a credere che gli immigrati debbano integrarsi, rendendosi simili a loro, sposando in toto il loro stile di vita, la loro religione, le loro forme di pensiero e le loro usanze. Al confronto con l’“estraneo” vengono adoperati ancora criteri assimilazionisti, ignorando che il presupposto fondamentale di ogni convivenza non può essere altro che il rispetto per la diversità in ogni sua forma, a cui deve seguire un dialogo costruttivo tra le posizioni in gioco. Ecco perché diventa fondamentale tutelare l’opera letteraria delle donne che si muovono tra culture e lingue diverse, consentendo che la loro ispirazione sgorghi liberamente e impedendo, invece, che venga costretta nel solco di canoni e generi letterari dominanti.

La Curti (docente di Letteratura inglese contemporanea all’Università degli studi di Napoli “L’Orientale”, studiosa di letteratura femminile e autrice di Female stories, female bodies, oltre che di saggi su femminismo e psicoanalisi e su cinema e letteratura) affronta la complessità di queste tematiche con il piglio della critica letteraria esperta e con la sensibilità, tipicamente femminile, di chi si accosta al mondo dell’“altra” con rispetto e discrezione, senza mai presumere di parlare al suo posto o di dispensare giudizi affrettati. Il suo stile è asciutto e lineare, ma, al tempo stesso, elevato e a tratti letterario. La sua opera è consigliata a un lettore esperto o appassionato di letteratura femminile, in quanto fitta di rimandi e richiami a testi e scrittrici che il non addetto ai lavori probabilmente non conosce. Tuttavia, anche un semplice curioso può accostarsi alla lettura del libro, senza perdersi, perché, pur trattandosi di una raccolta di saggi specialistici, l’autrice non lascia nulla al caso, chiarendo ogni passaggio, fornendo utili spunti di riflessione o di ulteriore approfondimento e collegando le questioni strettamente letterarie con a tematiche attuali, come l’uso del velo da parte delle donne arabe, il rito induista del “sati” (che spinge le donne indiane a sacrificare la loro vita sul rogo del marito defunto) e lo sfruttamento del corpo femminile nella prostituzione e nel lavoro domestico.

In definitiva, La voce dell’altra – Scritture ibride tra femminismo e postcoloniale ha il merito di gettare nuova luce su un settore troppo spesso frainteso o relegato ai margini: quello della scrittura di donne che soffrono, vivono alla perenne ricerca di un’identità, amano, si sacrificano, si abbandonano al piacere, senza mai spegnere dentro la loro anima il fuoco dell’istanza espressiva.

 

Annalice Furfari  

  

(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 11, luglio 2008)

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