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Anno II, n° 10 - Giugno 2008
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Biografie (a cura di Luisa Grieco e Mariangela Rotili) . Anno II, n° 10 - Giugno 2008

Zoom immagine La disciplina militare
attraverso il sistema
punitivo: altra forma
violenta della guerra

di Vincenzo Santoro
Uno studio sulla decimazione di soldati
italiani tramite delle crudeli e ingiuste
fucilazioni, edita in un testo di Gaspari


Quest’anno ricorre il novantesimo anniversario della fine della Prima guerra mondiale, conflitto che ancora oggi può ritenersi d’attualità, visto che tanti avvenimenti del XX secolo traggono spunto ed origine proprio dagli esiti della Grande guerra. Basti pensare ai nazionalismi ancora presenti in vari Stati europei, alle rivendicazioni territoriali, ai conflitti etnici, per considerare come da cotanto massacro, che ha provocato decine di milioni di morti, in realtà molti problemi hanno trovato un loro sbocco naturale con la Seconda guerra mondiale o risultano ancora  aperti.

L’Italia con i suoi 650.000 morti e milioni tra feriti, mutilati ed invalidi, ha pagato un prezzo elevatissimo in termini umani, sociali, economici. Negli anni sono state approfondite le cause del conflitto, le modalità belliche, le tattiche e strategie utilizzate, gli armamenti in dotazione agli eserciti contrapposti, gli aspetti politici, sociali, comportamentali; ma sicuramente un argomento che per tanto tempo è stato trascurato o poco studiato dalla storiografia, riguarda il sistema disciplinare e punitivo sul fronte italiano, ove si toccarono punte esasperate di repressione, sfociate spesso in arbitri ed abomini.

Alle corti marziali, ai tribunali di guerra ed ai tribunali straordinari, previsti dal codice penale militare vigente all’epoca, si affiancarono forme estreme come le esecuzioni sommarie e le soppressioni sul posto, che ben poco avevano a che vedere con le esigenze di giustizia. La parola d’ordine era la salutare esemplarità ed il monito verso tutti, per cui in presenza di reati disonorevoli per il Regio Esercito, commessi in prima linea o in faccia al nemico, l’ordine era di fucilare immediatamente i responsabili; e quando questi non erano facilmente individuabili o in caso di reato collettivo, scattava la terribile pena della decimazione e cioè la punizione consistente nell’individuare a caso, tramite conta o sorteggio, un militare (colpevole o innocente che fosse) ogni dieci appartenenti ad un reparto macchiatosi di una mancanza, e giustiziarlo, come esempio, davanti agli altri commilitoni, contravvenendo ai principi generali giuridici della responsabilità penale soggettiva.

 

Le terribili cifre della guerra

Sarebbero oltre 350 i fucilati a seguito di esecuzioni sommarie e parecchie decine i decimati, che si uniscono ai 750 giustiziati a seguito di formale sentenza. I numeri sono in difetto, considerato che non sono compresi i soldati soppressi seduta stante, direttamente dagli ufficiali o dai carabinieri, in caso di codardia o di rifiuto ad andare all’assalto, e quelli nei cui confronti mancò o si perse qualsiasi verbalizzazione o resoconto formale di quanto accaduto. Mancano, inoltre, all’appello ovviamente tutti i fucilati all’indomani della rotta di Caporetto.

In ogni caso sul fronte italiano si giustiziò molto di più che negli altri eserciti, anche laddove si possedevano tradizioni militari autoritarie e più severe delle nostre, e non può essere usato a scusante il fatto che i militari italiani fossero più indisciplinati e propensi a delinquere dei nemici; infatti, da un punto di vista quantitativo il numero dei reati commessi fu pressoché analogo nei vari Stati.

Di recente è stato pubblicato un saggio dal titolo Fucilate i fanti della Catanzaro. La fine della leggenda sulle fucilazioni della grande guerra (Gaspari editore, pp.260, € 18,00); autori Marco Pluviano e Irene Guerrini, che segue un altro libro da essi scritto nel 2004: Le fucilazioni sommarie nella Prima guerra mondiale (Gaspari editore). In entrambi i testi gli autori mettono in risalto il rigido sistema punitivo del Regio Esercito italiano che applicò, più di altri eserciti contendenti, forme tragiche ed a volte illegittime di giustizia sommaria e quindi senza alcuna garanzia processuale.

Nel saggio in questione, gli autori si soffermano soprattutto sui due episodi di decimazione ai danni dei fanti della brigata Catanzaro, la cosiddetta “brigata di ferro”; unità militare costituita a Catanzaro (141° reggimento) e Monteleone, l’attuale Vibo Valentia (142° reggimento) nei primi mesi del 1915 ed inviata sul Carso dall’inizio delle ostilità, ove si battè valorosamente in varie battaglie della Grande guerra, meritando una Medaglia d’oro al valor militare ed una d’argento nonché varie citazioni sui bollettini di guerra.

I militari aggregati erano prevalentemente meridionali (calabresi soprattutto, ma anche siciliani, pugliesi, molisani, lucani), mentre gli ufficiali provenivano da ogni parte d’Italia.

 

Le atrocità del monte Mosciagh

I casi analizzati si riferiscono a fatti avvenuti sul monte Mosciagh nella zona dell’Altopiano di Asiago nel maggio del 1916, ove l’unità era stata trasferita in piena Strafexpedition, con 8 decimati appartenenti al 141° reggimento di fanteria, puniti per il reato di sbandamento, ed a Santa Maria la Longa (Udine), sul Carso, nel luglio del 1917, con 12 fanti del 142° fanteria, puniti per il reato di rivolta.

In entrambi gli episodi gli autori mettono in luce una certa speditezza, da parte delle autorità militari, nel voler dare immediata giustizia, anche in mancanza di una effettiva flagranza di reato, elemento questo fondamentale nell’effettuare esecuzioni senza processo; evidenziando pertanto che questi casi furono in realtà atti illegittimi oltre che arbitrari. Fermo restando che la pena della decimazione non trovava alcun riscontro nei codici e regolamenti in vigore, ma era prevista solo da direttive ed ordini specifici da parte del Comando supremo. 

Il testo, dopo un’approfondita introduzione sulle fonti normative vigenti all’epoca dei fatti e sulle operazioni militari condotte da tale reparto nei vari teatri operativi ove operò, analizza i singoli episodi di decimazione, avvalendosi di fonti documentali e d’archivio, nonché di studi e specifiche ricerche svolte in questi anni.  In particolare si avvale di quelle condotte dallo storico catanzarese Mario Saccà, tra l’altro presidente dell’Associazione culturale Calabria in Armi, che ha avuto il merito, in primis, di aver organizzato uno convegno sulla brigata Catanzaro nel maggio 2005 in collaborazione col Comune di Catanzaro, da cui poi sono scaturite riflessioni e  ricerche sul tema. Saccà ha poi scoperto ed ufficializzato i nominativi di 16 fucilati a Santa Maria la Longa, di fatto sollevando un velo sull’oblio in cui questi fatti erano caduti, e in un certo modo mettendo in dubbio anche la storiografia ufficiale che parla di complessivi 28 fucilati, in quella che è stata definita la più grave rivolta mai avvenuta in seno all’Esercito italiano sul fronte della Prima guerra mondiale, causata dalle condizioni inumane patite dai nostri soldati in trincea.

Il saggio riporta poi ciò che rimane nella memoria nazionale e locale dei tristi fatti della brigata Catanzaro, elencando gli studi, le ricerche, le rappresentazioni teatrali (es. Roccu u’ stortu e Mosciagh 1916) etc., aventi ad oggetto tali avvenimenti, che purtroppo per molto tempo sono stati rimossi. L’obiettivo perseguito dagli autori è quello pertanto di ridare giustizia, anche se tardiva, a chi ha perduto la vita per colpa di ordini draconiani non suffragati da effettiva legittimità. Il libro si conclude con quanto affermato in un’intervista al Corriere della Sera, di qualche anno fa, dal fante Carlo Orelli, uno degli ultimi reduci della Grande guerra e morto poco tempo addietro, il quale dopo aver assistito a fatti terribili e crudeli ed essere stato testimone di tremendi massacri, con una forma quasi di pudore e compassione dichiarava: «(...)Mi scuso se non ho detto tutto. Ci sono cose che non ricordo. Ci sono cose che non voglio ricordare!».

 

Vincenzo Santoro

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 10, giugno 2008)

 

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