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Anno II, n° 10 - Giugno 2008
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Home Page (a cura di Tiziana Selvaggi) . Anno II, n° 10 - Giugno 2008

Zoom immagine La memoria
non svanisce:
parla in sogno

di Alessia Cotroneo
Da Falzea editore il viaggio
di una donna alla scoperta
delle proprie radici familiari


Quando l’inconscio nasconde verità che cambiano la vita, difficilmente può essere ignorato. Inizia sussurrando ma la sua “voce” diventa ogni giorno più forte, fino a diventare un urlo sordo che si esprime in una lingua sconosciuta e incomprensibile. È quanto succede a Rebecca, una giovane donna alla ricerca della propria identità, protagonista di Non avrei mai pensato di indossare un colbacco a Roma (Falzea editore, pp. 303, € 14,00). Il romanzo è la prima “fatica” letteraria di Monica Romanesco, una delle ultime, piacevoli scoperte del mercato editoriale calabrese. Questa giovane autrice romana di talento è un’esordiente con il dono della scrittura limpida e scorrevole, che si traduce sulla pagina in immagini vivide.

Qualora la copertina del romanzo, una bella foto in bianco e nero di una bambina su cui spiccano caratteri in rosa, non risultasse già di per sé accattivante, ci penserebbe il titolo ad attrarre il possibile fruitore. Un titolo-esca, insolitamente lungo, bizzarro e affascinante, una sorta di rebus che stuzzica la curiosità del lettore e si scioglie soltanto all’ultima riga dell’ultima pagina del romanzo.

Il libro ripercorre il viaggio della protagonista alla ricerca della verità, in un percorso che parte da un sogno ricorrente, il cui significato indecifrabile diventa una vera e propria ossessione, e si snoda lungo le strade dell’infanzia e dell’adolescenza per concludersi in età adulta. La dimensione onirica sarà lo strumento per riconciliarsi definitivamente con il proprio vissuto, complicato da un rapporto irrisolto con i genitori e da un’insoddisfazione latente. Soltanto la ricostruzione del passato della sua famiglia consentirà a Rebecca di trovare la felicità, perché le radici non si possono ignorare, poiché segnano profondamente la vita di ciascuno e, se negate, parlano attraverso l’inconscio.

 

Un futuro già scritto da genitori che pretendono di decidere il destino dei figli

Rebecca è una bambina bella e intelligente, all’apparenza come tante, ma malinconica, inquieta e solitaria. Il suo carattere è profondamente diverso da quello delle persone che la circondano, soprattutto dei genitori, dai quali si sente rifiutata e poco amata. Vive in una squallida periferia torinese, in un quartiere operaio, dove le velleità di ascesa sociale ricadono interamente sulle spalle dei figli. Un lavoro da impiegata, meglio ancora se statale, è il sogno nel cassetto della famiglia che organizza la sua vita intorno al raggiungimento di questo imprescindibile traguardo.

I genitori, perennemente insoddisfatti, litigiosi, ossessionati dal lavoro, sono totalmente incapaci di mostrare amore incondizionato per la figlia e per se stessi. Quello che desidera Rebecca è superfluo e, soprattutto, insensato, non ci sono margini di trattativa: è tenuta a fare esattamente quello che i genitori le “consigliano”, chiaramente per il suo bene. L’unica cosa che conta è abbandonare il più presto possibile la condizione di operai ed entrare con tutti gli onori nella categoria degli impiegati.

Così Rebecca cresce sempre più strana e incompresa: non è la figlia che la madre vorrebbe e non c’è giorno in cui non senta ripetere questa cantilena asfissiante. L’incomunicabilità aumenta con gli anni, fino a renderle del tutto estranee.

L’amicizia sincera, le marachelle infantili e i primi flirt estivi portano un po’ di brio nella sua vita, ma non l’aiutano a superare il rapporto conflittuale con i genitori, che la spinge a compiere delle scelte del tutto anomale. Il senso di colpa nei loro confronti, la voglia di sottrarsi alle loro ambizioni insensate e una vaga ricerca di benessere economico spingono la protagonista a legarsi a un uomo vizioso  e violento, la quintessenza della corruzione morale dei giovani rampolli alto-borghesi, alla ricerca di emozioni estreme in festini a base di champagne, sesso e cocaina.

Solo il coraggio e l’istinto aiuteranno Rebecca a trovare la sua strada e a scoprire cos’è che la ossessiona.

 

Il sogno e la fantasia come antidoto alla squallida vita di periferia

Lo squallore della periferia, in cui non trovano spazio né la bellezza né la leggerezza che dovrebbero circondare i bambini e gli adolescenti, trasforma tante piccole vite con cui Rebecca si relaziona in parabole di disperazione. La sola consolazione a una vita triste e incolore è rappresentata dal sogno e dall’immaginazione, in cui si riversano i desideri reconditi dei più piccoli e le speranze di un futuro migliore degli adolescenti incompresi.

Ma la realtà è molto diversa dall’immaginazione, ed è popolata da tanti personaggi, che hanno una vita narrativa di poche pagine, giusto il tempo di raccontare la loro storia e sparire, lasciandosi dietro una scia di angoscia e di dolore. Le cronache giornaliere della periferia squallida e povera in cui Rebecca vive parlano di prostitute-bambine, che muoiono travolte da pirati della strada, e di giovani tossicodipendenti, morti suicidi per un amore omosessuale non corrisposto. Queste giovani vite spezzate appartengono a una compagna di scuola di Rebecca, Zippora, uccisa sul ciglio della strada mentre vende il proprio corpo per vivere, e al primo fidanzatino, Noè, “scaricato” senza troppi giri di parole, per poi scoprire che era innamorato di... un altro!

Nel limbo stretto tra la vita e la morte, l’attimo prima di morire diventa interminabile, si allunga fino a coprire un vita intera. E in quegli istanti la mente rifiuta la desolazione della vita e sconfina nel sogno. Così chi vive d’amore venduto per pochi soldi, in una periferia fredda e inospitale, sogna una vita felice, fatta di amore profondo e sincero, musica latina, sorrisi e caldo tropicale.

Anche la stessa Rebecca, fin da bambina, impara a fuggire da una vita grigia rifugiandosi in un sogno ricorrente, che le lascia una piacevole sensazione di pace ma anche di tristezza, perché non ne riesce a decifrare il significato. Tuttavia, improvvisamente, anche il sogno sparisce e Rebecca precipita nell’ossessione e nella solitudine. A questo punto è la fantasia a salvarla dall’infelicità, materializzando davanti ai suoi occhi di bambina amici immaginari, cibi squisiti e storie fantastiche, popolate da maghi, bambole ed extraterrestri. Attraverso queste “fughe” irreali matura ulteriormente la separazione tra Rebecca e la realtà in cui vive, in cui la protagonista si sente totalmente estranea e fuori posto.

 

Le radici e il passato non si cancellano, riaffiorano per ricordarci chi siamo

Può una città e un edificio condizionare così tanto la vita di una donna? C’è un posto sulla terra che non è rappresentato dalla nostra casa ma che ci chiama con voce così ammaliante da non lasciarci la possibilità di resistere? Per Rebecca questa città e questo edificio hanno un nome preciso: Roma e il vecchio tempio ebraico. Una forza sconosciuta la spinge lì, qualcosa a cui la protagonista non sa dare un nome né un volto.

Certamente, almeno all’inizio, non si tratta dell’amore per Enoch, guida turistica di origine ebraica, permalosa e ironica. I loro battibecchi continui, i dialoghi serrati e interminabili, non costituiscono certo la ragione della permanenza della protagonista lontano dalla “sua” Torino. Rebecca è sensibile alla nostalgia delle eleganti pasticcerie del centro, degli amici e delle dolci colline dai crinali costellati di ville opulente della città piemontese, che fa da sfondo alla sua infanzia e alla sua adolescenza. Ma Roma rappresenta molto più di una città: è la speranza di un avvenire sereno, è la Cappella Sistina, il ghetto ebraico, il calore del sole, la sterminata distesa di luci del Gianicolo. La capitale è il suo nuovo e incondizionato amore.

L’istinto e il coraggio la portano a ricominciare da zero qui, alla ricerca di quel “qualcosa” che le renderà finalmente la serenità che non ha mai provato.

Soltanto dopo qualche anno Rebecca scoprirà che sono le sue radici ad averla condotta a Roma, la memoria inconscia dell’origine di un ramo della sua famiglia, e che l’attrazione viscerale e irrazionale per la cultura ebraica trae origine da un senso d’appartenenza sconosciuto e negato. La bambola che le parlava in sogno fin da bambina glielo ripeteva sempre. Così il senso di vuoto, lo straniamento che aveva avvertito per tutta la vita hanno finalmente una spiegazione: l’angoscia di non conoscere esattamente le proprie origini e l’inconsapevolezza della religione dei suoi avi. Tutto ciò aveva aperto un vuoto nella sua anima, in cui si erano accumulate angosce e paure, perché l’eredità culturale e il senso di appartenenza non possono essere dimenticati.

 

Alessia Cotroneo

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 10, giugno 2008)

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