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A. XVIII, n. 202, 07/08_2024
Percepire il peso angosciante
di non essere valso a niente
di Antonio D'Angelo
Edito da Echos, nel romanzo di Diego Kriščák
si manifesta l’abisso di un uomo tradito dalla vita
Fino a che punto è lecito vivere e assecondare le nostre ossessioni? Dove risiede la nostra volontà di affrontare le asperità che quotidianamente la vita ci pone davanti? Perché inseguiamo un sogno piuttosto che un altro?
La vicenda di Jacob K. spinge il lettore a porsi queste e altre domande e, avendone il coraggio, provare a rispondervi.
Il protagonista della storia narrata in Rigore (Echos edizioni, pp. 96, € 13,00) di Diego Kriščák, è un uomo che vive sospeso, immobile, insanamente incastonato in un susseguirsi di psicosi e di ricordi struggenti che, a posteriori, assumeranno sempre più la parvenza di un copione che altri hanno scritto per lui.
Nulla nella sua vita lo potrebbe oggi distogliere dalle sue riflessioni filosofiche, dalla sua maniaca e ripetitiva quotidianità fatta di musica e gesti che ripete ossessivamente, dal giudizio del suo passato che così prepotentemente lo ha portato fin lì, dalla convinzione che tutta la sua esistenza sia stata fittizia e in balia delle scelte e delle volontà altrui, non vi è in lui ormai che la consapevolezza di non avere più niente da cercare, da scoprire o da vivere e ciò che è peggio di non averne mai avuto davvero la possibilità.
Teatro di questa storia è la casa triestina appartenuta ai genitori del protagonista, il promontorio su cui è situata permette di ammirare la natura che ignara del contesto in cui si manifesta prosegue nel suo incessante movimento che sia ora un tramonto, ora il frenetico rincorrersi di due scoiattoli che si arrampicano su di un pino, oltre il quale, la linea dell’orizzonte si staglia lontano.
Nella sala dall’ampia vetrata si svolgono ogni giovedì mattina i colloqui cui Jacob K. si deve sottoporre settimanalmente con il suo psichiatra, il dottor Schwar¬zkopf.
Sarà quest'ultimo a doverlo giudicare, ascoltare la sua storia e infine decidere quale dovrà essere il suo destino in un mondo che ormai non gli appartiene più e al quale da tempo più non partecipa.
Il palcoscenico familiare
Le vicissitudini e le relative considerazioni che Jacob racconta al suo interlocutore muovono i primi passi proprio in quel salone che oggi ospita i due uomini, fin quando da bambino le sue mani rivelarono una sensibilità che solo i pianisti possiedono.
A notare e alimentare il suo talento è la madre, che avendo alle spalle la medesima virtù, immagina e pianifica per il figlio una vita all’insegna del raggiungimento della produzione di un’opera assoluta, colossale, un lavoro matematico-musical-filosofico, che lo avrebbe consacrato nell'Olimpo dei grandi compositori e musicisti di ogni tempo.
Fin da piccolo, le esaltanti esibizioni di Jacob vissute nella stessa casa che oggi a distanza di anni lo vede inerte e appassito, sono delle soirée che raccolgono il meglio della nomenclatura artistica e culturale di Trieste.
Eppure, una volta ragazzo, inizia a formarsi in lui la necessità di allontanarsi da quel contesto, da quelle serate da lui considerate in fondo mediocri e frutto dell'autocompiacimento dei presenti.
Sarà Vienna ad accoglierlo, e dove altrimenti. La dedizione di Jacob per il pianoforte e per questo progetto è massima, totale, non c'è spazio per nessun'altra esperienza, nessun'altra intenzione, se non il rigore con il quale riempiva i suoi quaderni color antracite perfettamente catalogati secondo il suo personale sistema, il rigore dei suoi studi e del percorrere la strada che lo avrebbe forse un giorno portato così, a compiere quello che allora credeva essere il suo magnifico destino.
Sogni infranti
Oggi la sua anima è lacerata, dilaniata dal pensiero di essere stato niente più che una protesi della vita incompiuta di sua madre e il risultato delle umane meschinità di un padre che mettendolo al mondo, ne aveva sacrificato l'esistenza, al fine di salvare il suo stesso matrimonio.
La profonda convinzione di essere stato solo un passeggero all'interno della sua storia, lo annichilisce, lo strazia e consegna lui una parabola che lo condurrà anni addietro verso scelte irreparabili e definitive, scelte che, dopo la morte di entrambi i genitori, lo getteranno in un universo di congetture lucidi deliri e ossessive ripetizioni comportamentali oggetto oggi delle analisi del dottor Schwar¬zkopf.
Le sue riflessioni lo portano a essere sia oggetto che soggetto delle sue osservazioni, in una ferale danza che lo stringe come una morsa e dalla quale non riesce a uscire, nel mezzo di una continua lotta che a poco a poco lo avrebbe consumato.
Le giornate di Jacob. K, ad anni di stanza dalla morte dei suoi genitori, sono accompagnate dalla figura di una governate, Stefy, della quale egli non esita a criticarne acidamente le caratteristiche fisiche e le mansioni che svolge amorevolmente, chiuso nelle sue elucubrazioni e privo di qualsiasi forza d'animo che gli permetta di vivere qualsiasi soffio di vita, fino a spingere lo zio paterno, ultima presenza dei suoi legami familiari a richiedere una perizia psichiatrica volta a verificare la sua capacità di gestire le proprietà ereditate.
Fiumi di parole
Un romanzo fitto e denso e di certo non banale. Affondare con il protagonista nelle sue idee, attraverso gli occhi dello psichiatra e il flusso di coscienza di Jacob K., che oggi è lì perso nella sua follia, ci esorta a vivere pienamente le nostre esistenze e a fare attenzione a chi e a che cosa lasciamo determinare le nostre scelte e le nostre decisioni, ci ricorda di non scivolare nella mera esistenza, condizione tanto comoda e confortante quanto pericolosa e ricca di insidie. Vale quindi la pena di provare a essere per quanto possibile padroni del nostro destino. Per aspera, ad astra.
Antonio D'Angelo
(www.bottegascriptamanent.it, anno XVIII, n. 202, luglio-agosto 2024)
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi