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Anno II, n° 9 - Maggio 2008
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Home Page (a cura di Tiziana Selvaggi) . Anno II, n° 9 - Maggio 2008

Zoom immagine 1905, terremoto.
La disperazione
e la speranza

di Luisa Grieco e Mariangela Rotili
Un saggio della Rubbettino
racconta l’impegno del re
nelle terre colpite dal sisma


La bontà d’un re e la sventura d’un popolo (Rubbettino, pp. 114, € 10,00) scritto nel 1907 da Raffaele Lombardi Satriani, uno dei maggiori folcloristi calabresi e storiografo, pubblicato dalla casa editrice di Soveria Mannelli in una nuova veste editoriale a cura (e con l’Introduzione) del nipote Luigi Maria Lombardi Satriani, già parlamentare e docente di Etnologia presso l’Università “La Sapienza” di Roma, rappresenta uno spaccato storico, autentico ed emozionante, del terremoto che colpì i paesi della costa tirrenica reggina all’inizio del Novecento.

La particolarità di questo lavoro è il fatto che Raffaele Lombardi Satriani compie una vera e propria opera a doppio senso: il primo è quello dalla ricerca storica, documentata e precisa sui danni che lo spaventoso sisma provocò in molti dei centri a est della Calabria, con cifre, stime di danni e di morte. Il secondo è basato sulle sensazioni, sulle parole, sui sentimenti che le vittime del disastro dovettero subire caricandosi addosso il pesante fardello della disperazione e della povertà.

 

La bontà di un re

Oggi è normale pensare che dopo una grande sciagura (la morte di un soldato, un cataclisma, un’epidemia, un incidente nei trasporti nazionali) le istituzioni, il sindaco, l’assessore, il ministro o il presidente di turno, siano presenti sul luogo del disastro.

Come un apprensivo genitore che vede il proprio bambino urlare per un improvviso scivolone nel parco giochi si precipita a rassicurarlo (o a rassicurarsi), così le varie cariche si presentano a incidente o sventura già accorsa.

La cosa è normale, non c’è dubbio. Il rappresentante di turno delle istituzioni (locali o nazionali) in alcuni brutti momenti non può mancare.

Più di cento anni fa, la cosa non era proprio scontata. Le vie di comunicazione erano poche; i viaggi, anche per un re, erano lunghissimi e stancanti.

Ma Vittorio Emanuele III, all’epoca appena divenuto giovane sovrano d’Italia, si recò in Calabria.

Con la sua dolce consorte visitò i paesi disastrati e rasi al suolo dal terremoto: un “mesto pellegrinaggio” che ebbe però un importante valore simbolico, prima che storico.

La presenza del re incusse molta speranza nei cuori lacerati degli abitanti di Briatico, di San Leo e di San Costantino (solo per citare alcuni dei posti visitati da Vittorio Emanuele). Questi venne ovunque accolto con gioia, col calore che solo i calabresi riescono a trasmettere.

Ma questo pellegrinaggio, siamo sicuri, segnò anche il sovrano.

Nelle parole dell’autore tanta riconoscenza per questo gesto: «Il nome augusto del magnanimo re Vittorio Emanuele III, resterà indelebilmente scolpito nella mente e nel cuore di ogni calabrese, che lo ricorderà con animo grato, con devozione e lo benedirà con tutta l’effusione dell’anima», leggiamo nel testo.

 

Un viaggio nella memoria e nella Calabria

L’autore del libro sembra camminare, prendere per mano il lettore, cento e più anni dopo l’evento, portandolo tra i villaggi distrutti, tra le urla delle anziane che maledivano il crudele destino, tra lamenti di donne e pianti di bambini affamati.

Case sbriciolate e tende che, momentaneamente, ne facevano le veci.

Nel racconto del Satriani c’è molto altro: c’è un profondo amore verso la sua terra calabra, un continuo riferimento agli elogi che storici, studiosi e artisti di ogni tempo le hanno regalato.

Un sentimento che l’autore sembra far venir fuori, a nostro avviso, è quello che il popolo calabrese si sente veramente e strettamente legato al territorio nel quale vive.

Una catastrofe di quelle portate ha certamente creato una percezione di smarrimento in quelle povere vittime. È come se quella stessa terra si fosse rivoltata, ribellata a qualcosa lasciando solo disperazione e sgomento.

L’autore stesso sembra vittima di questo smarrimento, i cui pensieri si accavallano, l’uno all’altro, ma allo stesso tempo egli riesce a essere lucido, riesce a raccontare la tristezza e la disperazione.

Ma c’è dell’altro: racconta una tragedia grande, come quella del terremoto, con parole poetiche, ricamando nella mente del lettore le stesse sensazioni che lui medesimo provò in quei giorni. E sembra di vederlo, quel trentenne che vaga tra le macerie cercando di raccogliere di tutto, dalle sensazioni alle cifre dei danni.

«Ma quello che si è notato da tutti è stato il fatto che dopo il terremoto più non si è udito il cinguettar d’uccelli o il canto noioso delle cicale, che il giorno innanzi stordivano maledettamente con la loro stridula cantilena. Tutto era silenzio, solitudine e la terra pareva inabitata, così era malinconica, silenziosa e triste. E mesta ci si presentava dinanzi la natura perocché acerbo, crudele era il dolore, che premeva il cor nostro ed ancor più atroce era il mirar le mura della paterna casa, cadenti, nude d’ogni ornamento».

 

Carmine De Fazio

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 9, maggio 2008)

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