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A. XVII, n.187, aprile 2023
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Home Page (a cura di La Redazione) . A. XVII, n.187, aprile 2023

Zoom immagine Nella cultura popolare, la fiaba
è un mezzo per criticare il potere

di Marina Benvenuto
Ripubblicate le traduzioni di Gramsci
che mostrano la loro forza pedagogica


«Ho tradotto dal tedesco, per esercizio, una serie di novelline popolari proprio come quelle che ci piacevano tanto quando eravamo bambini... la vita moderna... non è ancora penetrata abbastanza a Ghilarza perché il gusto dei bambini d’ora sia molto diverso dal nostro d’allora. Vedrò di ricopiarle in un quaderno e di spedirtele, se mi sarà permesso, come un mio contributo allo sviluppo della fantasia dei piccoli» [1].
Dal febbraio 1929 e fino al gennaio 1932, Gramsci tradusse 24 fiabe dei fratelli Grimm scelte dall’edizione tedesca di un’antologia di 50 racconti ricevuta in carcere. Furono tradotte per inviarle ai figli in Sardegna nel desiderio del padre di coltivare un legame e ridurre la lontananza, cercando una via di comunicazione per esprimere, anche dal carcere, la propria paternità. Il regime gli impedì di inviarle alla famiglia. Infatti, la loro prima pubblicazione avvenne solo nel 1980, per Vallecchi).
Nelle lettere l’attenzione verso i figli è costante e scrupolosa nel chiedere notizie ed esprimere suggerimenti alla moglie riguardo alla loro educazione. Commovente è quella del 27 luglio 1931 quando, nel ricordare il settimo compleanno del figlio Delio, Gramsci osserva che se la Chiesa cattolica ha fissato a 7 anni l’ingresso «solenne nella comunità religiosa» con la celebrazione della prima comunione, allora forse quello «sarebbe il momento di spiegare a Delio che io sono in carcere» [2].

La fiaba come strumento educativo nella famiglia
Favole di libertà (4 Punte, pp. 148, € 11,00) sono oggi riproposte da 4 Punte per il progetto editoriale #ilTrenoVersoSud nella collana Le stelle. È una scelta coerente, che rinnova l’impegno mostrato dalla casa editrice verso una rilettura del periodo fascista nell’obiettivo di coltivare una consapevolezza contemporanea sull’iniquità del regime anche grazie alla preziosa rilettura di autori che possono offrire una testimonianza in prima persona al fine di perpetuare la memoria dell’ingiustizia subita.
Dai contenuti, che Gramsci scrisse in carcere, traspare ripetutamente l’attaccamento alla famiglia e al suo ruolo nell’educazione dei figli, mentre il sottrarsi della famiglia ai compiti educativi «determina un impoverimento sentimentale per rispetto al passato e una meccanizzazione della vita» quanto più grave quando la «generazione anziana rinuncia al suo ruolo educativo» e cade in forme «statolatriche» [3].
La traduzione delle fiabe non è un lavoro minore. Come traduttore Gramsci ritiene importante trasferire lo spirito della fiaba adattandolo alla tradizione e alla civiltà popolare della lingua tradotta: per le fiabe adottò quindi dal contesto italiano nomi di animali e piante, locuzioni popolari, dialetti, in particolare traendo spunti dall’ambiente sardo. Inoltre, nel proseguire delle traduzioni è stato osservato che dalla quindicesima fiaba si rafforza una tendenza alla secolarizzazione dei termini sostituendo esclamazioni di contenuto religioso con altre di natura laica ma funzionali a creare fiducia nel piccolo lettore e a strutturarne il coraggio per riuscire nell’impresa di reagire a situazioni difficili.

Poetica popolare e presa di coscienza sul mondo
La favola infine è un mezzo privilegiato nella cultura popolare per criticare il potere, rivelare le ingiustizie e dar voce agli afflitti ed emarginati: la scelta di dedicarsi a questa particolare forma letteraria trova giustificazione nell’importanza che Gramsci riconosce al momento educativo e alla responsabilità della generazione adulta verso il giovane.
Questa valutazione ricorre in molte riflessioni nell’opera di Gramsci per la ricerca di una cultura nuova ma che attinga dalle radici della tradizione e del sapere popolare che certo permeano il narrare delle fiabe. Gramsci ricerca una connessione tra sapere, politica, popolo e nazione, termini da non considerare astratti intellettualismi, ma un unicum vivente che si rinnova a ogni generazione se non dimentica le sue origini.
Anche nell’esperienza dell’apprendimento infantile Gramsci privilegia dunque il momento della presa di coscienza: l’elemento folcloristico e tradizionale diventa un viatico che alimenta un nuovo sapere, un saper vivere in una dimensione morale e politica.
Gramsci osserva che ogni uomo è un filosofo capace di esprimersi avvalendosi non solo del linguaggio, ma anche attraverso il buon senso e la religione popolare. Quest’ultima conserva un sapere spontaneo, un orientamento emotivo che se utilizzato con un corretto metodo pedagogico, rafforza le energie individuali e aiuta a creare un pensiero consapevole e partecipativo, in quanto autentico, popolare e non astrattamente intellettuale.
Senso comune e buon senso ricorrono come antidoti all’oppio intellettuale. Tuttavia, il senso comune non è un prodotto fossile, ma è oggetto di revisione, di rielaborazione responsabile. La favola alimenta una radice fertile di conoscenze sul vivere, ma è necessario un impegno civile ed etico per costruire sulle basi della tradizione. In questa prospettiva si comprende meglio la critica feroce verso la classe degli intellettuali laici: «Hanno fallito al loro compito storico di educatori ed elaboratori della intellettualità e della coscienza morale del popolo-nazione, non hanno saputo dare una soddisfazione alle esigenze intellettuali del popolo» [5].

La dimensione morale nell’impegno pedagogico
L’interesse per la fiaba conferma infine un trasporto particolare in Gramsci per la dimensione morale: cultura non è sapere intellettuale. Il bisogno di conoscere è una necessità intrinseca di libertà, da intendersi come volontà svincolata e capace di fare il bene, di elaborare un’azione che sia un movimento solidale, popolare nel senso di essere aperto a tutti, con la consapevolezza di un impegno civile e politico.
Forse la scelta della prima fiaba della raccolta (poiché l’ordine delle fiabe non segue il volume dei Grimm ma è pensato da Gramsci) Giovannin senza paura è una piccola finestra, piccola perché umile, scarna, quasi violenta nell’immediatezza del linguaggio popolare. Giovannin non conosce la paura, non sa della paura, manca di riflessione sugli accadimenti, è solo azione, non tutto il suo decidere è esemplare, lo è la sua spontaneità e buona fede. Di fronte a una prova cercata con il desiderio di riuscire a conoscere la paura, la sua prima frase è la più rappresentativa del carattere: «Che cosa vuoi qui? Parla, se sei un uomo onesto, oppure io ti getto giù dalla scala».
Così appare Gramsci nella tenacia della battaglia contro una reclusione ingiusta: la profondità intellettuale non lo spoglia di un’anima combattiva e resistente che adopera ben altri mezzi da Giovannin, ma che non rinuncia alla spontaneità del coraggio, all’umiltà della riflessione onesta e profonda, alla speranza talvolta ingenua delle possibilità di rinnovamento, ma è questa ingenuità che lo rende fratello, moderno e fertile per le nuove generazioni.

Marina Benvenuto

[1] Antonio Gramsci, Lettere dal carcere, Einaudi, Torino, 2020, p.189.

[2] Ivi, pp. 151-152.

[3] Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, Quaderno 3 (XX), § (61), https://quadernidelcarcere.wordpress.com/2013/12/02/lotta-di-generazioni/.

[4] https://imalpensanti.it/2015/06/antonio-gramsci-riflessioni-sulla-letteratura-sulla-cultura-e-sulla-figura-dellintellettuale-in-italia/.

(www.bottegascriptamanent.it, anno XVII, n. 187, aprile 2023)

Collaboratori di redazione:
Ilaria Iacopino, Ilenia Marrapodi, Maria Chiara Paone
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