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Anno II, n° 9 - Maggio 2008
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Home Page (a cura di Tiziana Selvaggi) . Anno II, n° 9 - Maggio 2008

Zoom immagine Note su un caso
di poesia infelice:
le rime di Sannelli

di Ennio Masneri
Il coraggio della casa editrice inEdition
di pubblicare Nome, nome: versi
incomprensibili e, si spera, immortali...


Si dice che il nostro è un paese di poeti. Questa affermazione è comunque vera. A parte, infatti, Dante e Petrarca, Foscolo e Leopardi, Ungaretti e Luzi, che tutti conoscono e hanno studiato, comporre – e pubblicare – poesia è ormai una moda che attualmente colpisce, secondo un’attenta e ironica analisi dello scrittore Marcello Veneziani, con maggiore profondità il mondo femminile, pervaso da una mania di esprimere con immortali versi l’emozionante fase della spesa o l’immobilità del ferro da stiro o l’analisi feroce sulle capacità amorose di noi poveri maschi. Da questo marasma esce fuori con prepotenza anche Massimo Sannelli.

Sua la silloge dal titolo, non di certo futurista, Nome, nome (pp. 64, € 11,00), pubblicata nella collana di poesia Le invetriate diretta da Gianfranco Fabbri e Salvatore Della Capa, presso Il crocicchio/inEdition editrice di Bologna.

Il libro viene presentato da una breve introduzione di Marina Pizzi, che introduce, sì, il lettore ma lo fa in una maniera particolare in quanto le parole ivi contenute sono quasi dello stesso livello del mondo astruso e caleidoscopico di questo poeta genovese, il cui estro poetico e misterioso solo una molto ristretta élite capirà e farà suo.

 

Il vero compito del poeta: il buono

Poesie come quelle del francese Ives Bonnefoy o come quelle del nostro Corrado Calabrò hanno una tecnica propria, liscia, quasi come se descrivessero, attraverso i loro versi, un mondo tutto loro. Coinvolgono il lettore, gli permettono di immergersi dentro questo loro mondo che appare, temporaneamente, segreto e che verrà scoperto solo quando si aprirà il libro che lo contiene.

Il poeta ha il compito di condurre il lettore verso un luogo o verso la descrizione di un’immagine, come se fosse un regista e una guida. Gli racconta, con emozione, viaggi, fatti della vita quotidiana, eventi storici passati sotto il suo occhio e la sua memoria (come dimenticare l’immortale poesia Alle fronde dei salici di Salvatore Quasimodo?), o lo rende partecipe di una sua pace interiore («Col mare / mi sono fatto / una bara / di freschezza», poetava Giuseppe Ungaretti), o lo accompagna dentro le spire dolci e amare dell’amore (inutile ricordare l’Odi et amo catulliano). Il poeta non descrive l’intimo. Ci vive e lo rende vivo. E vuole che il lettore lo segua per accompagnarlo e viverci, per conoscerlo e capire una delle innumerevoli filosofie dell’animo umano. Vuole inoltre che il lettore viva con emozione la sua stessa emozione. Si viene rapiti nell’emozione della parola quando si legge un Cardarelli, un Garçia Lorca o un Prévert…

Quando qualcuno scrive una poesia, sa cosa scrive. Segue se stesso, il suo cuore, la ragione, l’estasi poetica, un’ispirazione, un fatto, una parola gettata lì lì per caso e raccolta come se fosse una foglia smorta e caduta da un albero in una giornata di autunno. E ci ricama sopra, ci aggiunge altre parole ed ecco il prodotto fatto e finito. È un artista che dipinge un quadro. È un ballerino che esegue un passo di danza. E con questo riteniamo utile non aggiungere altro sulla bellezza delle emozioni artistiche.

 

Il brutto

Ma tra tanti versi che colpiscono e stuzzicano i nostri gusti ci sono anche le mele marce. In un mondo in cui la tecnologia fa ormai da padrone nella vita e facilita il genere umano in quasi tutte le cose, nel bene come pure nel male, chiunque, fattasi una cultura, può arrivare a credere di avere una capacità altisonante nel sapere scrivere di tutto, senza freni. Spinto dalla cocciuta consapevolezza di essere capito da chiunque, senza esitazioni, ad ogni costo, senza seguire la regola basilare di tutta la scrittura mondiale, quella dell’umiltà, ognuno può far passare come immortali quei versi che, agli occhi di semplici estranei, agli occhi di persone che hanno avuto la malaugurata sorte di ricevere in regalo questi, chiamiamoli così, pamphlet, sono, in realtà, frasi che nulla hanno di poetico. E sono questi, chiamiamoli così, sedicenti poeti, e pure tanti, che inquinano l’arte sacra della parola.

Per fare un semplice paragone, è come se durante un valzer una coppia si mettesse a ballare musica tecno!

E, almeno secondo noi, Sannelli, classe ’73, non è da meno.

 

È vera poesia? (il cattivo)

Prima di continuare, dobbiamo fare un’ulteriore premessa. Quando abbiamo letto i versi di questo poeta (che tra l’altro coordina, insieme a Marco Giovenale, la rivista-lettera Bina), abbiamo cercato di capirlo trovando, però, soltanto frasi spezzate, periodi sgrammaticati che terminano in una maniera che dà al tutto una sorta di rigidità e non di certo quella musicalità capace di condurre su una strada lineare, di pianura. Per avere un’idea, consigliamo di leggere le poesie di Salvatore Quasimodo o di Ungaretti e di fare un confronto con quelle di Nome, nome.

Riportiamo, fedelmente, due poesie di Sannelli per offrire un assaggio: «in un modo si legge solo, basti; / quando, in terra, si coglie, ti schiaccio, l’alto, che schiaccia: // questo senso è ai sensi / altri, occhio con occhio, l’erba / con l’emozione diffusa, i fili / nel selciato, da tutti penetrare “io sono”». Altro secondo esempio: «il primo, ah, sopra, / cambia la gioia / in sonno, salute, / sogno; / dopo l’oro, nei grumi / larghi, cade l’oro altro. / è il cervello primitivo: / preso di adesivi / e colla, vetro, raso, pelo: attento / a te! // capisci che l’infanzia è meno / propria; con lealtà che non / dirige; è niente: né uno stimolo / o la corsa al sole, nude / due braccia o le gambe, // nato maturo, nato torre, diffusa / in uno cielo».

Da questi versi si nota uno stile fondato sugli aggettivi e sui participi passati, su misteriose deviazioni veloci, stacchi incompresi, forse una sorta di stile da teatro sperimentale, da quattro soldi. E, cosa più importante, ma anche veramente triste, da questi e altri versi non traspare nessuna emozione. Non c’è l’emozione che accompagna la lettura. Non c’è sentimento, è tutto secco e tortuoso. È come attraversare un campo minato della lingua italiana…

Purtroppo non intravediamo un qualche messaggio che questo giovane poeta intende forse offrire al pubblico con la propria sensibilità.

Per quanto riguarda la nostra recensione ci basiamo soprattutto sull’Introduzione di Marina Pizzi.

Di cosa parla questo poeta genovese? Quali suoi messaggi noi, in quanto, più di ogni altra cosa, lettori, non siamo riusciti nostro malgrado ad assorbire, a usare per scoprire un mondo tutto suo in cui viverci per un attimo? A parte alcuni luoghi geografici come Genova, Firenze, Roma, Urbino, ecc., egli parla di un viaggio della solitudine in rapporto alla madre in una sorta di coma affettivo. E il nostro uomo piange evidentemente per fame di amore, per abbandono, per ritrovarsi, forse, nella fede religiosa. Se proprio vuole condurre il lettore verso qualcosa di suo, probabilmente lo fa sulle pareti scoscese e sugli strapiombi pericolosi dell’animo umano. La lettura è, infatti, accidentata: mancano i pronomi, i soggetti, i verbi modali e tanto altro ancora. È come se lasciasse al lettore il divertimento di aggiungere le parole adatte, di correggerle lui stesso.

 

Consolazione

Di sicuro sono tentativi di fare poesia, di elevare la propria arte a quei livelli irraggiungibili di un Dante o di un Ungaretti. Fare poesia è un modo di esprimere la propria umiltà attraverso le parole, i toni, la disposizione dei versi, la musicalità delle stesse. Forse si può intravedere qualche metafora o qualche messaggio tra questi versi contorti, ma chi siamo noi, e lo diciamo senza sarcasmi di sorta, di fronte alla volontà del lettore, al potere (quello di acquisto) di vita e di morte di un’opera? Sarà, quindi, dello stesso lettore il compito di dare il giudizio finale alle poesie di Sannelli. Sarà lui a far sì che queste poesie possano meritare di essere immortali oppure no.

 

Ennio Masneri

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 9, maggio 2008)

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