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A. XV, n. 168, settembre 2021
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Problemi e riflessioni (a cura di La Redazione) . A. XV, n. 168, settembre 2021

Zoom immagine Riflettere sull’attuale era
ossessionata dal vedere

di Mario Saccomanno
Fabio La Rocca cura un volume sull’importanza
dell’immagine nella nostra interazione col mondo


L’analisi degli aspetti peculiari della nostra quotidianità non può prescindere dalla pregnanza assunta dall’immagine e dalla dimensione visuale nel contesto odierno. Infatti, l’epoca attuale è indubbiamente oculocentrica al punto che il ruolo della vista precede con sempre più insistenza ogni altro aspetto, compreso il pharmakon della scrittura, per dirla in termini platonici. Così, questo ruolo cardine del vedere, questo indiscusso primato della vista, finisce per modellare insistentemente il corpo sociale fino a contrassegnare il nostro assetto culturale.
Per questo motivo, risulta indispensabile soffermarsi sulla natura di questa nostra interazione col mondo segnata irreversibilmente dalla pratica ossessiva del vedere. Di sicuro, la vista è il senso che più d’ogni altro ci trascina costantemente a investigare gli elementi caratteristici che è possibile afferrare nell’istante presente. Di più: è proprio l’occhio che ci fa scrutare le forme culturali che ci consentono di abitare la nostra dimensione sociale.
Per discutere sulla portata di questi temi corre in soccorso il volume Epidemia visuale. La prevalenza delle immagini e l’effetto sulla società (Edizioni Estemporanee [1], pp. 328, € 24,00) a cura di Fabio La Rocca. Già nell’Introduzione si pone in risalto come lo sguardo non è soltanto un prodotto del sociale. Al contrario, esso risulta essere un aspetto capace di produrre il sapere, di condizionare la conoscenza. Così, è inevitabile immergersi interamente nella dimensione visuale assunta dal mondo contemporaneo soffermandosi con insistenza «sull’intensità della sollecitazione visuale in cui l’immagine deve essere considerata come una forma “climatologica” del quotidiano poiché partecipa alla costituzione delle sfere sociali e rappresenta una tipologia epistemologica della conoscenza».
È proprio questa la chiave di volta dell’intero volume che si prenderà in esame in questo contesto. Solo con l’insistente esplorazione della conformazione della nostra epoca si può cercare di dare una significazione soddisfacente all’epidemia visuale che non pecchi di superficialità e non trabocchi di luoghi comuni nei riguardi dell’«accumulazione, proliferazione e circolazione di immagini che culturalmente incidono sul sociale».

Le immagini come enigmi, problemi da risolvere
Per giustificare qualsiasi disamina sui temi poc’anzi indicati, occorre in prima battuta cercare di offrire una definizione soddisfacente di “immagine”. Non a caso, il volume presenta al suo interno un saggio intitolato Cos’è un’immagine scritto da William J. T. Mitchell, uno dei massimi studiosi della Visual culture e iniziatore dei Visual studies. Chiarirne la natura, oltre che chiedersi in che cosa consista e che cosa sia un’immagine è una questione che è stata a lungo dibattuta nel corso dei secoli.
Mitchell fa notare cosa avrebbe comportato offrire una risposta – in particolare non conforme al sentire comune – in un contesto come la Bisanzio dell’VIII-IX secolo dove, si legge nel testo, «la tua risposta ti avrebbe immediatamente identificato come un partigiano nella lotta tra impero e patriarca, iconoclasta radicale che tenta di purificare la chiesa dall’idolatria, o un iconofilo conservatore che cerca di preservare le pratiche liturgiche tradizionali».
Volendone riportare un altro esempio in grado di far comprendere cosa comporti interrogarsi sulla natura del termine immagine, nel saggio viene passata in rassegna l’Inghilterra del XVII secolo. Nel farlo, Mitchell afferma che «è forse solo una lieve esagerazione dire che la guerra civile inglese è stata combattuta sulla questione delle immagini e non solo sulla questione delle statue e di altri simboli materiali nel rito religioso».
Quanto riportato permette di comprendere la centralità assunta dall’immagine anche nei secoli scorsi. Dunque: i nostri modelli del pensare sono da sempre ricolmi di immagini mentali, verbali, pittoriche e percettive. Di sicuro, come si è avuto modo di far notare, le immagini continuano a esercitare un potere fortissimo anche nella nostra attualità. Di conseguenza, la questione della natura delle immagini è urgente. Inoltre, occorre considerare che la critica moderna ha rivestito di altre numerose problematiche sia il linguaggio, sia le immagini al punto da renderli enigmi, «problemi da risolvere, case-prigioni che bloccano la comprensione del mondo».
Si è spesso giunto – a volte anche in modo superficiale – alla conclusione che le immagini debbano essere intese come una sorta di linguaggio. Così, spesso non vengono più viste come una finestra da cui è possibile vedere nitidamente il mondo, ma «come una sorta di segno che presenta un ingannevole aspetto di naturalezza e trasparenza che nasconde un opaco, distorto e arbitrario meccanismo di rappresentazione, un processo di mistificazione ideologica».

La genealogia delle immagini
L’utilizzo della parola “immagine”, in particolare nei «discorsi istituzionalizzati», che abbracciano anche – e, forse, soprattutto – la critica letteraria o la filosofia, è davvero sterminato e variegato. Senza alcun dubbio, il ruolo della vista, spesso indicato come il senso più nobile che l’uomo possiede, è stato usato da pensatori e filosofi come metafora per far comprendere gli approdi delle loro riflessioni. Evitando superflue analisi dettagliate in merito, si pensi solo come esempio al celebre mito platonico della caverna in cui la visione nitida del mondo fenomenico permette una nuova consapevolezza a quel prigioniero riuscito a evadere dalla caverna in cui chiunque si trovava costretto a vedere soltanto ombre distorte e fallaci.
Sempre per restare ancorati alla filosofia del celebre autore greco, si pensi ancora al concetto stesso di idea, che, com’è noto, assume una valenza indiscussa nella filosofia platonica. In effetti, “idea” è un termine pur sempre legato inscindibilmente alla nozione di immagine. Infatti, “idea” deriva da “vedere”, che resta quasi sempre concatenato a eidolon, elemento cardine delle teorie della percezione che rimanda a quell’immagine visibile che è possibile scorgere nel costellato panorama sensibile.
A questo punto occorre chiarire anche la distinzione fondamentale che intercorre tra eidos ed eidolon, il primo da concepire «come una “realtà soprasensibile” di “forme, tipi o specie”», il secondo «come un’impressione sensata che fornisce una semplice “somiglianza” (eikon) o “sembianza” (fantasma) degli eidos».
Da qui, nel volume si discute ampiamente del fenomeno chiamato “immaginario”. Sotto questo nome ci si riferisce a una vasta gamma di cose, dagli spettacoli ai sogni, passando per le mappe, le poesie o i diagrammi. Farle rientrare tutte sotto la categoria legata al termine “immagine” non presuppone che ogni elemento presenti indistintamente aspetti in comune.
Ecco perché nel testo viene criticato, a volte anche in modo aspro, l’utilizzo di nozioni di immaginario che frequentemente vengono prese in prestito da altri ambiti e trapiantate in quello di cui ci si sta occupando nel caso specifico. Così, viene fatto notare, una soluzione efficace potrebbe essere quella di «iniziare a pensare alle immagini come una famiglia allargata che è migrata nel tempo e nello spazio e che durante il percorso ha subito profonde mutazioni». Così, pensandola come una famiglia, risulta possibile ricostruirne la genealogia.
Nel farlo, Mitchell individua un «concetto genitore», quello dell’immagine in quanto tale, i cui dibattiti istitutivi riguardano esclusivamente la teologia e la filosofia. Il modo d’agire che deve contrassegnare questa difficile ricerca è quello di spingersi nelle zone pregne di dubbi e problematiche solo dopo aver affrontato nel migliore dei modi possibili anche le questioni ritenute ovvie. Ecco perché, prima di soffermarsi su altri aspetti contenuti nel volume, occorre chiarire quali sono i membri di quell’enorme famiglia che vengono chiamati utilizzando il termine “immagine”, differenziando quelli in cui il nome è usato in senso stretto e quelli, al contrario, in cui vi è un uso esteso e improprio.

L’utilizzo delle immagini nelle scienze sociali e storiche
Nel saggio viene dimostrato che le immagini “proprie” (o “reali”) hanno molti aspetti in comune con quelle “improprie”, cioè quelle che «non sono stabili, statiche o permanenti in alcun senso metafisico», che «non vengono percepite allo stesso modo dagli spettatori più di quanto non lo siano le immagini dei sogni» e che «non sono esclusivamente visive in un modo particolare ma coinvolgono l’apprendimento multisensoriale e l’interpretazione».
Anche per questa instabilità, sono numerose le iniziative legate al mondo accademico che hanno favorito il dibattito in merito ai vantaggi e ai rischi derivanti dall’utilizzo delle immagini nella ricerca in scienze sociali e storiche. Il volume presenta al suo interno il saggio Immagini e ricerca nelle scienze sociali e storiche: dall’oggetto allo strumento, dall’improvvisazione al metodo di Gianni Haver e Michael Meyer in cui si analizza come le scienze sociali stiano attraversano un Visual turn e di come in merito la tradizione filosofica continui a manifestare un certo scetticismo. Le scienze sociali sono discipline dominate dalla scrittura. Per questo motivo, il peso dell’immagine, anche nei casi in cui risulta essere preso in considerazione, è occasionale, illustrativo e selvaggio, «nel senso che non è l’oggetto di una riflessione metodologica compiuta».
Nell’ultimo periodo, il ruolo svolto dall’immagine per conferenzieri e insegnanti è quello di inserire elementi visuali nelle presentazioni in modo da non appesantire troppo la discussione. Così facendo, l’ausilio dell’immagine permette all’esposizione di diventare «più dinamica e colorata» fino al punto di «portare una nota spiritosa in alcuni momenti chiave».
Le potenzialità di documentazione delle immagini sono enormi. Sfruttarle pienamente presuppone la relazione indispensabile con altre forme visuali, fino alla creazione di un corpus. Infatti, occorre tenere ben in mente che le immagini non possiedono un senso univoco e, per questo motivo, diventano sempre oggetto di discussione.
La fotografia è uno stimolo di cui la ricerca in scienze sociali può trarne notevole profitto. Infatti, immagini e parole si completano. Per questo motivo, coniugare «la capacità di stimolazione dei contenuti visuali con una riflessione rigorosa dell’immagine come fonte» significherebbe compiere un passo avanti notevole nelle ricerche. Eppure, a questo punto sorgono altri annosi problemi, tra cui quello legato alla pubblicazione dei risultati ottenuti. Non è raro incontrare ricercatori che nonostante abbiano utilizzato immagini nei propri lavori, rinunciano alla pubblicazione a causa dei diritti d’autore o magari anche «perché gli editori scientifici non considerano la loro presenza come pertinente».

Riflettere sullo statuto dell’immagine
È tramite lo sguardo sul mondo che «interpretiamo l’ambiente intorno a noi: con lo sguardo, cioè, negoziamo i rapporti e i significati sociali». Guardare, così come parlare e scrivere, è una pratica sociale e, proprio per questo motivo, ha bisogno di una capacità interpretativa, oltre che di «relazioni di poteri sottostanti». Per questo, nessun occhio può definirsi innocente e neutrale. Ogni sguardo si carica di una sua storia, di pratiche e di tecnologie che ne permettono la riconoscibilità e ne fanno un portatore di significato. È quanto chiarisce Manolo Farci nell’acuta riflessione contenuta nel volume che si sta esaminando.
Un campo disciplinare specifico che si sviluppa a partire dagli anni Novanta del Novecento è la Visual culture che ha come intento quello di riflettere sulla visualità «in quanto costruzione culturale». Si tratta di una interdisciplina che collega la storia dell’arte a materie quali la filosofia, la letteratura, gli studi di massa o l’antropologia. Sapere e visione dominano gli studi relativi alla cultura visionale. Si tratta di assunzioni teoriche fondamentali del secolo scorso. È bene chiarire che col termine cultura non è da intendere solo ed esclusivamente la produzione di artefatti, ma tutte le pratiche di gruppo che una comunità, una società condivide «attraverso cui il significato è costituito dai mondi visuali, uditivi e testuali delle rappresentazioni».
Nel volume sono fondamentali anche i saggi Scienza e immagine: elementi per la ricostruzione di un dialogo interrotto di Pier Luca Marzo in cui si sottolinea il passaggio epistemico dal Linguistic turn all’Iconic turn. In merito, si pone in risalto che, sebbene le immagini siano diventate ormai oggetto di studio, non risultano essere ancora in grado di permeare le strutture della conoscenza scientifica. Questo avviene perché la scienza «si tiene ben lontana da esse grazie al pensiero logico razionale, alla fede nei fatti empirici e all’osservazione sperimentale». Da qui si riflette sulla separazione tra immagine e verità che, come in parte già accennato in precedenza, ha origini molto antiche. Molto interessante è notare come nel testo si metta in risalto il fatto che anche la scienza pensa e riflette per immagini, «ma senza averne coscienza». Da qui il bisogno di un ripensamento tra conoscenza e immagine.
Altri spunti di riflessione fondamentali sono quelli che emergono dallo studio di Federico Tarquini che chiarisce come, tramite il sopraggiungere della fotografia, la condizione del soggetto si sia modificata irreversibilmente. Questo è avvenuto poiché, venendo a essere educato alla fotografia, il soggetto ha avuto un codice visuale differente rispetto a quello a cui era stato abituato in passato. Da questi presupposti si giunge all’elevazione della fotografia come strumento efficace e fondamentale atto a comprendere la conformazione esistenziale dell’uomo moderno. Nonostante l’avvento del digitale e, di conseguenza, di numerose nuove tecniche, a parere dell’autore, il problema principale resta pur sempre quello della «grammatica dello sguardo» e della conoscenza.
In merito, in riferimento al contesto metropolitano, ci si trova dinanzi a un occhio fotografico vorace e insaziabile poiché «tutto, potenzialmente, può essere trasformato in immagine fotografica». Di conseguenza, ogni colpo d’occhio che viene gettato dall’uomo metropolitano ha nella sua potenzialità una veste filmica o fotografica, cioè «un punto di vista orientato al dettaglio selezionato e non al tutto indifferenziato». Così, la vista diventa il principale strumento di conoscenza. Essere spettatore risulta essere la condizione più caratteristica dell’esperienza metropolitana. Dunque, ambiente e media sono legati inscindibilmente. Per questo, risulterà ormai semplice comprendere come i media risultino a tutti gli effetti decisivi «per il mutamento sociale, culturale, politico ed economico che l’occidente ha conosciuto negli ultimi due secoli».

L’essere che si identifica nell’esserci: la pratica del selfie
Nel De Anima Aristotele scrisse che «l’anima non pensa mai senza un’immagine». Se, come si è avuto modo di chiarire, per ogni epoca si assiste a un tipo di pensiero e una modalità del vedere, è opportuno sottolineare che le cose hanno bisogno di parole che possano spiegarle. Per questo motivo, bisogna interrogarsi e porre estrema attenzione nei riguardi dei neologismi che, inevitabilmente, rispondono ai bisogni del tempo.
Non a caso, nel volume compare un saggio di Sergio Brancato che si interroga sul selfie, termine che «comincia a palesarsi solo all’alba del nuovo secolo, entrando in maniera sempre più frequente nel linguaggio comune». Dal 2002, data a cui risalgono le prime tracce, il fenomeno ha animato sempre più la quotidianità dell’era digitale. Spesso, in particolare facendo riferimento all’ambito psicologico, ne è stata sottolineata la portata patologica «collegandone il successo e la diffusione crescenti alla condizione del narcisismo».
Di sicuro, il selfie è una delle opzioni tecnologiche che hanno contribuito a cambiare profondamente alcuni aspetti dell’interazione sociale, oltre al «linguaggio del corpo, della consapevolezza di sé e della privacy». Questa pratica sociale molto complessa, è un artificio tanto diffuso da aver ottenuto uno statuto di normalità. Nel saggio si mette ben in risalto come la pratica non debba essere inquadrata né in un genere fotografico, né a qualcosa di meramente narcisistico. Si tratta altresì di una «ridefinizione epocale della comunicazione visiva in cui l’essere si identifica con l’esserci».
In chiave individuale, con l’utilizzo della pratica del selfie, il rinnovamento del rapporto tra immagini e identità sociale diventa ben marcato. Si ha la cristallizzazione dell’attimo, «una reificazione parcellizzata dell’immagine rispecchiata – attraverso la quale osserviamo il mondo – su cui apporre il nostro volto come brand dell’esperienza vissuta».

Il sorriso fotografico, la pubblicità e i blue jeans
Oltre al selfie, il volume mostra dettagliatamente come molte pratiche odierne sono da inquadrare nel perimetro della storia culturale e diventano a pieno titolo una «subcultura che dà luogo a un’inedita estetica della soggettività».
André Gunthert nel saggio Il sorriso fotografico o le rivoluzioni del ritratto espressivo cerca di dare una risposta al sorriso che contraddistingue i ritratti fotografici del XX secolo, al contrario di quanto avvenuto nei secoli precedenti. Ormai si sarà ben compreso come l’intero volume che si sta analizzando vuole essere un’accurata indagine delle espressione delle varie emozioni. Per questo motivo, non mancano pagine in cui ci si sofferma anche sul sorriso che contraddistingue le foto odierne. La pratica appare come una «evoluzione storica», un segno indiscutibile e caratteristico dei tempi che merita senz’altro un’attenta riflessione.
In merito, la risposta più ovvia, che sovente è stata proposta, è legata alla tempestività dell’immagine che permette il sopraggiungere del sorriso nelle foto, in precedenza negato dal processo lungo e a volte estenuante che portava alla realizzazione della foto. Questa soluzione è rigettata subitaneamente da Gunthert per un semplice rifacimento cronologico. La presenza del sorriso non è dovuta all’abbattimento di un ostacolo all’espressione segnato dal tempo della posa. Altre proposte avanzate dagli specialisti riconducono la pratica all’influenza suscitata dalle star hollywoodiane o, ancora, alle significative migliorie dell’igiene dentaria.
A parere dell’autore, il sorriso – una delle innumerevoli «manifestazioni del linguaggio corporeo» – è stato spinto a un uso massiccio nelle fotografie da due innovazioni visuali sopraggiunte alla fine del XIX secolo e all’inizio del XX che hanno portato mutazioni in merito ai «valori associati all’espressività»: la fotografia amatoriale, che trascina con sé l’arrivo dell’album di famiglia, cioè una nuova rappresentazione di sé che reifica comportamenti fino a quel momento tenuti invisibili, e il cinema muto, con l’innovazione del primo piano in cui il volto diventa uno strumento narrativo di un’arte priva di suoni che deve fare leva sulle espressioni corporee.
Come affermato nel saggio Propaganda del 1928 dall’antropologo francese Gustave Le Bone «il ricorso all’emozione è il linguaggio che permette di guidare le folle». Così, chiarisce Gunthert, «la nuova convenzione del sorriso fotografico conosce quindi uno sviluppo straordinario negli anni Quaranta e Cinquanta, ma specificando il suo genere, Il sorriso in primo piano, spesso decontestualizzato, che troviamo nelle pubblicità e sulle copertine delle riviste è innanzitutto un sorriso femminile, un’incarnazione della felicità consumabile».
Oltre a varie e articolate discussioni in merito, nel volume desta molto interesse anche il saggio Frammenti fotografici per una narrazione politica di Milena Meo che si propone di mettere in risalto gli snodi caratteristici che hanno contraddistinto il passaggio dalla modernità alla contemporaneità tramite l’utilizzo delle immagini fotografiche, capaci di documentarne ampiamente gli avvenimenti principali. Così, l’immagine come metodo d’indagine, in particolare se ci si riferisce alla fotografia, è capace di «cristallizzare sensi e contenuti e di irradiarli nel mondo sociale».
Sicuramente, le immagini catturano lo spirito del tempo reso facilmente distinguibile da elementi caratteristici come i blue jeans. Claudia Attimonelli ne discute ampiamente in un contributo inserito nel volume in cui si sottolinea come sin da subito proprio i blue jeans, dal primo utilizzo ottocentesco di indumento di lavoro, siano stati assunti come cifra stilistica di ribellione, protesta e sensualità. In merito, basta riferire come sin dagli anni Trenta si siano incontrati nelle pagine delle riviste di moda, costume e società come Vogue, oltre che indosso a star del cinema o in svariate pubblicità. Indumento esplicativo del secolo scorso, dopo la Seconda Guerra Mondiale, i jeans sono stati accolti dalla società americana «come capo maschile e femminile nell’accezione di indumento per il tempo libero, prendendo a poco a poco le distanze dall’immaginario degli operai e minatori».
In conclusione, sono ancora da segnalare i saggi di Maria Angela Polesana e di Tito Vagni che si soffermano sui risultati raggiunti da numerosi studi che «testimoniano di come la distinzione di genere e sessualità si riflette nella e sia sostenuta dalla cultura materiale» e sulla «messa in scena della cucina» da intendere come chiave d’accesso fondamentale ai cambiamenti culturali rinvenibili nel contesto italiano, nonché all’evoluzione degli stili di vita.

Mario Saccomanno

[1] Nel mese di marzo di quest’anno, le case editrici Edizioni Estemporanee e Infinito edizioni hanno annunciato che il loro percorso editoriale sarà ancora più stretto rispetto a quanto già avvenuto negli anni passati in cui è facile notare una duratura e proficua collaborazione. Nello specifico, Infinito edizioni ha acquisito il marchio e le collane principali di Edizioni Estemporanee tra cui spicca iMedia la collana in cui compare anche il volume Epidemia visuale che si sta prendendo in esame in questo contesto. Di conseguenza, i libri della casa editrice Edizioni Estemporanee, oggi arricchiscono a dismisura il già fitto e variegato catalogo che contrassegna Infinito edizioni. In questa scelta non manca la continuità, facilmente riscontrabile nella persona di Luca Burei, fondatore del marchio Edizioni Estemporanee, che è rimasto alla guida della sua creazione in qualità di direttore editoriale.

(www.bottegascriptamanent.it, anno XV, n. 168, settembre 2021)

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