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Comunicazione e Sociologia (a cura di La Redazione) . A. XV, n. 167, agosto 2021

Zoom immagine Una, nessuna,
centomila

di Massimiliano Bellavista
Per Città del Sole
una donna nata
dalla parte sbagliata


«La protagonista principale si chiama Marisa ed è nata dalla parte sbagliata della società». Questo è ciò che dice Sergio Rizzo nella sua Prefazione al volume di Vinicio Leonetti Eroine (Città del Sole edizioni, pp. 184, € 15,00).
Un ritratto laconico si potrà dire, ma quanto mai azzeccato. Marisa è questo, una Nikita nostrana, che in una prima parte della sua vita ha conosciuto abissi d’orrore e che nella seconda cerca un riscatto. A differenza dell’eroina cinematografica francese, però, nessuno può stabilire per lei o almeno aiutarla a definire un traguardo, una direzione per raggiungere questo riscatto, questa pace definitiva. È la protagonista, Marisa, che tiene totalmente il suo destino nelle mani. In questo senso la storia sovrappone due ruoli: quello di una catena d’eventi potentemente narrati in prima persona e in presa diretta, e quello di una protagonista forte, totale dominatrice in ogni luogo e in ogni tempo della vicenda che racconta. Qui si trova la forza e a volte anche il limite di questo volume, che a tratti sembra stare troppo stretto e tenere in gabbia questo iperattivo personaggio.

Un’identità celata dentro mille altre
Questa storia è satura di contrasti. Marisa è un agente reclutato dallo Stato che in questo modo l’ha sottratta a una vita di violenze e soprusi.
Marisa però è anche una donna avvenente, all’apparenza innocua, che all’inizio della storia passa del tempo in un villaggio vacanze in apparente e assoluta normalità: «M’infilo dei leggings neri, magliettina ombelicale, tacco 12 e vado a cena». Ma passare da questo scenario a uno completamente diverso è solo questione di poche parole.
«Il sacco è dietro una roccia. Sandro Prosperi controlla: è tutto dentro. Tre Scorpion con doppio caricatore e silenziatore, mute nere, torce, smartphone taroccati, anfibi della misura giusta (a me vanno bene i 38), coltelli e baracchini». Dal tacco 12 agli anfibi taglia 38. C’è una missione da compiere, ci sono delle persone da salvare a rischio della vita.
Le scene descritte sono assai crude e violente, sembra che una telecamera le segua in presa diretta, senza filtri. Emerge a poco a poco il ritratto di una donna che odia e al contempo ama il suo lavoro e tutti e due i sentimenti trovano nel seguito della narrazione l’occasione di esprimersi a pieno. Si potrebbe dire che l’eroina di questa storia riesca così bene a dominare le sue emozioni da eccellere nella sua professione. «Bisognerebbe scappare da questo lavoro, ma non ho avuto scelta. Dietro una squallida scrivania a passare le fatture di acqua, carburante, riscaldamento, luce. Mi ci vedete? Naaa... Meglio questo. Sporco, vigliacco, bieco, ma nel nome dello Stato. Come quella maledetta medaglia che m’avevano dato. Che m’aveva messo al collo il presidente della Repubblica, mica uno qualunque. “A Maria Concetta Casiglia per il suo coraggio nella lotta alla mafia”, c’era scritto come motivazione sulla pergamena. Era la prima volta che vedevo una medaglia d’oro dal vivo».

Una storia ruvida e complessa
La forza del libro sta senza dubbio dalla semplicità quasi ruvida con cui la storia si dipana, i personaggi sono descritti, i fatti inesorabilmente accadono, il sangue scorre.
Un tema dominante è quello del tradimento. Si potrebbe quasi dire che l’unico modo che la protagonista ha per uscire dall’abisso in cui si trova è tradire più volte sé stessa e anche lo Stato, il suo datore di lavoro, che specularmente e cinicamente del resto ha più volte fatto lo stesso a lei, cedendo spesso al lato oscuro dell’eversione e di insospettabili complicità che a poco a poco si paleseranno agli occhi di Marisa.
«Dopo quel mio “ho visto tutto” erano scoppiati i casini. Arrestarono il mio ex e il suo amico. Li processarono. Con la mia testimonianza i giudici non potevano fare altro che condannarli, nel tripudio di chi ha sete di giustizia dopo una strage. (…) Poi però l’eroina Maria Concetta Casiglia, per gli amici solo Concy, diventò una bugiarda, perché due emeriti sconosciuti della ’ndrangheta che si spacciavano per pentiti dissero d’essere stati loro a sparare quella sera in via Stabile, davanti ai miei occhi. La confessione arrivò dopo quasi un decennio dall’omicidio del povero maresciallo e di sua moglie. Così si mise in moto il frullatore contro di me. La chiamano macchina del fango. Da testimone di giustizia, celebrata dal capo dello Stato, diventai una volgarissima imputata di calunnia. Condannata. Con altri processi ancora pendenti per i risarcimenti che avrei dovuto pagare a quei maiali. Lo Stato per cui adesso lavoro mi chiede pure di restituire tutti i soldi che m’aveva dato come supertestimone. […] Così da Concy, al secolo Casiglia Maria Concetta, fui trasformata in Falvo Marisa, stessa età ma con diversa data di nascita e residenza. Come dire: Concy è morta, devi ricominciare da zero».
Iniziare da zero non è semplice, e la storia è una ben triste e attuale rappresentazione di una situazione comune a tanti nostri concittadini, donne e uomini, che hanno trovato il non scontato coraggio di pronunciare realmente quello stesso “ho visto tutto” che ha cambiato radicalmente le loro vite. Assai spesso tuttavia, almeno nella maggioranza dei casi, questi eroi, queste storie sono tutte declinate al maschile, e in questo senso è interessante questa volta cogliere le specificità di una narrazione al femminile che fa emergere una forza peculiare e una tenacia così granitica da suscitare stupore nel lettore. Il libro in questo contesto è anche una sorta di allegoria: Marisa combatte apertamente (e uccide) per lo Stato, chi cambia identità più spesso non combatte con le armi, ma con le parole, e pur tuttavia lo fa con la stessa determinazione e ferocia, uccidendo tutti i giorni un poco della sua vecchia identità, della sua memoria.
Una vera redenzione?
Certo, i compromessi e le mille violenze di carattere fisico e psicologico che la protagonista ha dovuto accettare lasciano delle scorie che si accumulano nel suo animo, all’apparenza così minimale e cinico e l’autore è bravo a farceli notare. In generale emerge a più riprese dalla lettura del libro la capacità tipica del giornalista, quale è l’autore, di sintetizzare in poche pennellate di parole e frasi tutta una situazione, fornendo al lettore solo gli elementi necessari a farsi un quadro e un’opinione su quanto accade. In questa ottica si può parlare di un romanzo strutturato come un esteso e dettagliato reportage, forma assai adatta del resto a introdurre un personaggio complesso, che di certo non passa inosservato ma che a tratti non è facile da amare e sembra addirittura respingere volontariamente i tentativi del lettore di compatirla, di immedesimarsi in lei.
La storia, che ha delle svolte imprevedibili e che lasciamo al lettore il compito di scoprire di valutare, pone tuttavia un interrogativo. A fronte di questo percorso, e delle scorie accumulate nell’anima di Marisa, quale tipo di redenzione e di happy ending è mai possibile? Avendo la protagonista vissuto così tante vite, quale meta può prefiggersi, tale da costituire un vero riscatto, una vera affermazione sul male che ha costellato la sua intera vita? L’autore non risponde esplicitamente ma abilmente ci fornisce delle tracce, degli indizi. Forse Marisa ambisce davvero ad una vita normale, con i soldi necessari a viverla, un altrove lontano dal passato, dal proprio Paese e soprattutto dal proprio, antico, schizofrenico sé. Ma nessun luogo è lontano, nulla è stabile per chi ha vissuto così intensamente. «Ho fatto un altro biglietto di sola andata, forse l’ultimo». Forse.

(www.bottegascriptamanent.it, anno XV, n. 167, agosto 2021)

Collaboratori di redazione:
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi
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