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Civiltà letteraria (a cura di La Redazione) . A. XV, n. 164, maggio 2021

Zoom immagine I ricordi
servono per
riportare vita

di Rosita Mazzei
Per Efesto edizioni un libro
di Angelo Avignone sul tempo
duplice vissuto in Calabria


In latino il verbo ricordare, recordari, deriva da cor-cordis, ovvero cuore. Quest’organo, infatti, era considerato la sede della memoria. Ebbene, è innegabile come la memoria e i ricordi siano spesso inscindibili dalle nostre emozioni.
Riportare alla mente ciò che fu spesso è causa di nostalgia, quasi malessere, per un mondo che ci ha attraversato e che non ritornerà mai più. Ma può rappresentare anche un momento di gioia, serenità, perché la mente è in grado di farci rivivere sensazioni che credevamo per sempre perdute.
L’importanza delle esperienze nella nostra esistenza è inconfutabile. Gli anni trascorsi non si fanno vedere solo sulla nostra pelle, ma affiorano attraverso i nostri occhi immergendoci in una realtà parallela in cui ancora corriamo alla ricerca del futuro.
La reminiscenza è riportare alla luce eventi e persone che un tempo erano presenza vivida e che ora potrebbero essere solo un pallido ricordo. Riportare alla memoria significa salvare dall’oblio elementi fondanti del nostro essere che vogliamo preservare dalle tenebre della dimenticanza. Rielaborare il passato aiuta a comprenderlo meglio e a comprenderci meglio. In tale operazione si immerge Angelo Avignone nel suo testo Le lucciole e le stelle. I ricordi tornano (Efesto edizioni, pp. 190, € 13,00). In tale romanzo, infatti, l’autore ci accompagna in un viaggio attraverso il tempo volto a rimembrare un passato fatto di povertà, emigrazione, ma anche di calore umano.

Il passato come presagio del presente
Quando si parla del passato, soprattutto del proprio, si tende erroneamente a edulcorarlo. Ciò avviene perché la giovinezza viene sempre sentita dall’umanità come l’età dell’oro e il ricordo di una prestanza che non tornerà più ci fa dimenticare l’oggettività. Questo, però, non accade nel testo proposto, come sottolinea anche Franco Dionesalvi nella Prefazione: «Nonostante la tenerezza che prevale nella rievocazione di quella vita lontana nel paese, a Lubrichi, non manca la considerazione dei mali, dei problemi che hanno caratterizzato la storia di quella comunità nel secolo scorso, dall’emigrazione alla miseria. I matrimoni per procura, i distacchi familiari».
Il piccolo paesino di origine vede le proprio radici nell’Aspromonte calabro. La borgata iniziale era definita «Roublikon, una denominazione ellenizzante di Rubricon acquisita in periodo bizantino, rinominata poi, probabilmente, Lubrina, e infine, con vocabolo di derivazione greca, Lubrichi, che per la peculiare configurazione del suolo è stato conosciuto come terra rossa, toponimo che indica, ancora oggi, una contrada del paese, “Terreno Rosso”». Veniamo in tal modo accompagnati nella storia di questo luogo per comprenderne meglio le varie vicende che l’hanno visto partecipe e protagonista. Le descrizioni fisiche dei vari edifici presenti hanno il sapore di nostalgia e riconoscenza. Il lettore non può non lasciarsi trasportare attraverso le immagini perfettamente ricreate da Avignone. Vediamo con gli occhi del suo cuore le varie strade e scalinate raccontate.
La capacità descrittiva del nostro autore ci fa immergere in un universo che sembra essere stato spazzato via dall’iperattività del mondo moderno. La frutta di stagione, i bambini che si rincorrono per le vie, gli aquiloni realizzati con carta velina e lanciati in aria con tutta la gioia propria della fanciullezza. Inevitabilmente, la piazza del paese era luogo di ritrovo per giovani e anziani, punto di incontro e socializzazione, ma anche sede del mercato nei giorni prestabiliti. Quella stessa piazza che, nel paese descritto come altrove, in futuro sarebbe rimasta tristemente vuota.

La socialità onnipresente
Il quartiere, o il rione, in dialetto calabro si tramuta in rruga. Sin da tempi immemori essa è stata l’avamposto della socialità perpetrata con il proprio vicinato. Il piccolo borgo andava avanti grazie all’olivicoltura messa in atto attraverso i secoli. L’andamento di tale raccolta da sempre ha influito sul morale delle famiglie che vivevano anche attraverso questo particolare tipo di coltura. La raccolta finale delle olive era, infatti, solo la punta dell’iceberg poiché la cura delle piante durava un intero anno. I braccianti agricoli erano perennemente immersi in tale lavoro. Ed è attraverso la lettura di questo romanzo-saggio che veniamo a conoscenza di una cultura che si fa portavoce della terra, ma anche della miseria: «La raccolta delle olive aveva una fase preliminare nella quale i proprietari dei terreni conformemente a una pratica tollerata derivante da leggi antiche dettate dalla vicinanza a chi versa nel bisogno, lasciavano che le famiglie indigenti, per sfuggire al bisogno, andassero verso gli inizi del mese di novembre a raccogliere liberamente le prime olive cadute a terra non ancora mature. Ne ricavavano una quantità d’olio molto scarsa, ma pur sempre sufficiente alla pressante necessità».
I rapporti con gli altri, dunque, ritornano spesso e in diverse modalità a seconda del ruolo occupato dai protagonisti narrati. Le olive, inoltre, non possono far altro che rappresentare al meglio la storia del popolo che da sempre ha nutrito e sostenuto. Dai tempi degli antichi greci, infatti, il Mediterraneo si è lasciato sostentare da un cibo per molti amaro, difficile da lavorare, ma che non lascia mai insoddisfatti. Esattamente come la terra calabra fa da millenni con i propri figli.

Una cultura che non esiste più
Il passato, però, non è sempre così luminoso come vogliamo sforzarci di ricordarlo. Quello che oggi biasimiamo ad altri popoli, un tempo era la nostra quotidianità. Così Avignone ci accompagna attraverso tradizioni che oggi guardiamo con uno sguardo accusatore. La donna, infatti, in queste minuscole realtà aveva come unico scopo quello di contrarre matrimonio e tutta l’adolescenza veniva votata alla preparazione di tale momento. Veniamo così a conoscenza del corredo, composto da lenzuola di cotone o lino ricamate, asciugamani e tovaglie da tavola che le stesse ragazze cucivano in maniera autonoma.
La fame, però, non sempre lasciava scampo ed è per questo che le terre meridionali sono sempre state vittime di uno spopolamento massiccio a causa della mancanza di opportunità. Nei decenni era la fame a spingere le persone ad abbandonare la Calabria, mentre ora vediamo uno spopolamento da parte dei lavoratori laureati che, impossibilitati a mettere a frutto in terra natia le proprie competenze, sono costretti a portare le proprie competenze altrove, creando un circolo vizioso da cui sembra impossibile uscirne. L’emigrazione, sottolinea l’autore, è perdita di identità, sradicamento e sacrificio. L’America vista come terra promessa da parte di braccianti, agricoltori, operai, impossibilitati ad avere un futuro dignitoso nel loro paese. Significative le parole di Avignone a riguardo: «Il desiderio di riscatto dalla miseria, dalla paura, dalla fame e la prospettiva di un immaginabile benessere erano realmente straordinari. Si voleva rendere migliore la propria condizione, si aspirava a dare ai figli e ai nipoti un futuro diverso: una sicurezza, o almeno un’altra possibilità».
Attraverso le parole dello scrittore, dunque, veniamo a conoscenza di una realtà difficile da sopportare sotto tanti punti di vista. Le politiche dei vari paesi di destinazione col tempo cambiarono e anche lo scenario socio-economico. Con la decadenza dell’America latina fu il turno dell’Australia, negli anni Cinquanta del secolo scorso, di divenire meta per gli sventurati che cercavano la propria El Dorado.

La malinconia ha sempre un sapore agrodolce
Il testo presentato è un po’ autobiografia e un po’ saggio.
Attraverso le pagine di quest’opera non veniamo solo a conoscenza della vita dello scrittore, ma di tutto un popolo, quello calabrese, con usi e costumi che nel corso del tempo, inevitabilmente, si sono andati a modificare.
Le feste padronali, il culto della Madonna durante la giornata dell’8 dicembre, il sentimento religioso, ma anche quello collettivo vengono descritti in maniera minuziosa tramite i ricordi ivi proposti in maniera fluida e intensa. Ciò è reso ancora più partecipativo grazie alle numerose foto inserite tra i vari capitoli per meglio permettere al lettore di figurarsi ciò che viene narrato. Il tutto racchiuso in un libro che non ha paura di mostrare al mondo una terra che racchiude il bene e il male nella stessa porzione di anima.

Rosita Mazzei

(www.bottegascriptamanent.it, anno XV, n. 164, maggio 2021)

Collaboratori di redazione:
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi
Progetto grafico a cura di: Fulvio Mazza ed Emanuela Catania. Realizzazione: FN2000 Soft per conto di DAMA IT