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Comunicazione e Sociologia (a cura di La Redazione) . A. XV, n. 163, aprile 2021

Zoom immagine Sessualità
e marketing

di Guglielmo Colombero
Studi sul cinema
e l’erotismo. Editi
da Rubbettino


In quale misura, e attraverso quali canali comunicativi la promozione pubblicitaria delle opere cinematografiche prodotte in Italia nel cruciale periodo storico che va dal 1948 al 1978 (racchiuso fra due eventi fondamentali come il varo della Costituzione repubblicana e il delitto Moro) ha in un certo modo visualizzato la metamorfosi di un’intera società, che dopo la faticosa liberazione dalle residue incrostazioni lasciate dal Ventennio fascista si è svincolata dalla soffocante tutela censoria imposta dall’oscurantismo sessuofobico di matrice clericale e democristiana? Le risposte a tale quesito le offre Francesco Di Chiara, autore di Sessualità e marketing cinematografico italiano. Industria, culture visuali, spazio urbano (1948-1978) (Rubbettino, pp. 188, € 14,00). Di Chiara è professore associato presso l’Università degli Studi eCampus di Novedrate (CO). È membro dell’editorial board della rivista «Cinéma & Cie. International Film Studies Journal» e fa parte della redazione di «L’avventura. International Journal of Italian Film and Media Landscapes». Ha curato con Alberto Boschi il volume Michelangelo Antonioni. Prospettive, culture, politiche, spazi (Il Castoro, 2015) ed è l’autore di I tre volti della paura. Il cinema horror italiano 1957-1965 (Unifepress, 2009), di Generi e industria cinematografica in Italia. Il caso Titanus (1949- 1964) (Lindau, 2013) e di Peplum. Il cinema italiano alle prese col mondo antico (Donzelli, 2016). Nel saggio in questione, Di Chiara ci propone una ricostruzione articolata e complessa dell’intreccio fra le sofisticate strategie del marketing cinematografico e la lenta ma inarrestabile evoluzione dei costumi sessuali degli italiani. Un panorama eterogeneo e multiforme, esaminato dall’autore con la lente d’ingrandimento di uno studio scrupoloso e appassionato.

La multidimensionalità di un cartellone cinematografico
Il primo capitolo dal saggio riguarda la dimensione industriale del marketing cinematografico italiano. L’autore così sintetizza il contesto temporale in cui matura il “boom” dell’industria filmica nazionale, destinata a conquistare nel Secondo dopoguerra un prestigio internazionale mai più eguagliato in seguito: «Sono anni in cui la cinematografia italiana è coinvolta in un progressivo allargamento delle sfere del mostrabile e del dicibile, sia nel contesto delle pratiche autoriali – si pensi al fenomeno neorealista e poi alla produzione di Fellini, Antonioni, Visconti, Pasolini o Bolognini, o ancora a quella di cineasti della nuova generazione come Bertolucci, Brass o Samperi – che nell’ambito di generi come il peplum, il sexy, lo horror, la commedia all’italiana degli anni Sessanta e quella erotica del decennio successivo». L’età aurea del cinema italiano rispecchia l’inevitabile traiettoria del cambiamento che investe il costume del paese: «dalle prime elezioni repubblicane del 1948 all’apertura delle prime sale a luci rosse nel 1978, l’Italia si è trovata dall’essere una nazione sottoposta a un forte controllo di matrice clericale, al diventare uno dei maggiori consumatori ed esportatori di pornografia». Emblematico il caso de La dolce vita di Fellini: una massiccia campagna pubblicitaria che arriva a fagocitare il 5 per cento del costo complessivo, volta a «enfatizzare la contiguità tra le riprese della pellicola e l’universo glamour che essa intende raccontare». Manifesti e flani su quotidiani e settimanali sono i due canali preferenziali del cd. lanciamento nazionale di opere cinematografiche delineati da Di Chiara: anche se sembra paradossale, una funzione complementare alla promozione dei film viene esercitata dalla magistratura quando sequestra e poi dissequestra le pellicole, offrendo una forma inconsapevole di publicity del tutto gratuita. «Le campagne promozionali», sottolinea l’autore, «sono concepite per formulare delle proposte che si spingono oltre i contenuti e la dimensione estetica del film, per investire la sfera valoriale e quella relativa alla promozione di particolari stili di vita, e contribuiscono così al processo di negoziazione dei limiti del visibile e delle identità in atto nel periodo postbellico».

Emancipazione sessuale e strategie di marketing nel mirino dei censori
Nel secondo capitolo Di Chiara indaga a fondo sul legame fra marketing cinematografico e sessualità: approfondisce così la «dimensione implicitamente seduttiva» del marketing, che «visto nel suo rapporto con l’evoluzione dei costumi sessuali in Italia dal dopoguerra alla fine degli anni Settanta, è quindi costituito dalla mutevole relazione reciproca di tre elementi – l’industria, i prodotti, il pubblico – che attraversano una profonda fase di ridefinizione dovuta a fattori interni, ma anche e soprattutto esterni all’ambito cinematografico e che includono la crescita economica, i mutamenti di ordine sociale, lo sviluppo urbano, l’evoluzione delle culture del consumo, i nuovi equilibri di carattere politico». L’espressione prepotentemente visiva dei materiali promozionali si rivela dunque come un indicatore della progressiva “sessualizzazione” del cinema italiano: più si dilata la sfera del “visibile” nel film pubblicizzato, più il manifesto diviene prima esplicito, poi audace, infine trasgressivo. Dalle calze a mezza coscia di Silvana Mangano in Riso amaro al reggicalze della domestica Laura Antonelli spiato dal basso da Alessandro Momo in Malizia ne è passata parecchia di acqua sotto i ponti… Attraverso una meticolosa scansione cronologica, Di Chiara analizza il primo decennio postbellico (1945-1957): l’occhiuto Segretariato generale per la moralità è la sentinella che vigila sulla soglia del rappresentabile. L’autore propone come modello illuminante quella del capolavoro di De Santis Riso amaro, tuttora conficcato nella memoria collettiva del pubblico sia cinematografico che televisivo per l’immagine della statuaria Silvana Mangano, autentico “oscuro oggetto del desiderio” nel ruolo della mondina dalle calze nere che le fasciano le gambe nude immerse nella risaia. Destinata a ispirare la cartellonistica del periodo fino ad assurgere a una dimensione mitica è la «foto di scena, che ritrae Silvana Mangano ripresa lievemente dal basso, con le spalline della canottiera abbassate sulle braccia piegate all’indietro per far risaltare il seno: un’immagine ai confini tra la dimensione realista, suggerita dal contesto della risaia visibile sullo sfondo, e l’iconografia delle pin-up». Il Segretariato si mostra più intransigente verso l’affisso di Peccato che sia una canaglia di Blasetti, vietando l’immagine di «Sophia Loren in un contesto balneare, ipoteticamente nuda e coperta solo da una staccionata di legno all’altezza dei seni e delle anche». La censura preventiva dei manifesti subisce un duro colpo nel 1956, quando la Corte Costituzionale, in nome della libertà d’espressione, abolisce l’obbligo di sottoporre preventivamente alle questure il materiale a stampa destinato all’affissione. Ma, istigata dai settori più retrivi della morale cattolica, resta pur sempre l’arma del sequestro da parte della magistratura: la legge Migliori del 1960 la rende più rapida e affilata, attribuendone il potere alla polizia giudiziaria anche senza autorizzazione del magistrato. Ne fanno le spese il manifesto di Miss Spogliarello, benché la nudità di Brigitte Bardot nell’atto di sfilarsi un reggiseno sia solo suggerita, e quello di Zarak Khan, dove Anita Ekberg è fasciata da un aderente costume esotico da danzatrice del ventre. Subisce una perentoria condanna anche l’affisso di La bella di Lodi che mostra Stefania Sandrelli «di spalle, nuda dalla cintola in su, mentre viene ammirata dal suo amante seduto sul letto». Stesso destino per l’affisso di Nel segno di Roma, sentenziato come contrario alla «comune decenza» dato che Anita Ekberg vi compare «con gran parte del seno scoperto» e in «atteggiamento di abbandono»: la sessuofobia dei giudici è parossistica fino a sfiorare il ridicolo. In seguito alla riforma delle commissioni di censura attuata nel 1962, «è la magistratura a divenire referente unico di una continua negoziazione operata con produttori e distributori in merito alle soglie del visibile, sia al cinema che per le strade dove viene esposta la pubblicità cinematografica». La scansione cronologica di Di Chiara si sofferma sul decennio della Rivoluzione sessuale (1967-1978): i sequestri a danno dei manifesti si diluiscono mentre si assiste a una «velocissima espansione dei prodotti di genere erotico che fanno riferimento all’universo cinematografico, in particolare nel settore della carta stampata». La fenomenologia dell’emancipazione sessuale si configura in molteplici espressioni: via libera al nudo integrale femminile, ipersessualizzazione del mercato, disintegrazione dei tabù visivi. L’autore dedica una particolare attenzione all’aspetto della corporeità femminile nel marketing: oggetto privilegiato dello «sguardo maschile desiderante», non esente da eleganti ossessioni feticistiche (décolleté, bikini, lingerie) scaturite dagli involucri di alta moda che lo fasciano. Non a caso Di Chiara cita un esempio eclatante di “oggettivizzazione” dell’anatomia femminile (in questo caso le natiche) quando il manifesto di Paolo il caldo di Vicario (elaborato dallo Studio Testa), con una fantasia degna di Arcimboldo, crea un ibrido grottesco formato dal profilo stilizzato del protagonista Giancarlo Giannini con un sedere femminile innestato sulla nuca. Altrettanto originale l’affisso per L’assoluto naturale di Bolognini, dove «alla rappresentazione fortemente stilizzata del corpo nudo di Sylva Koscina si sovrappone un motivo astratto, rosso, simile alla frenata di uno pneumatico e che rimanda all’incidente del finale». Squisitamente modernista risulta poi il manifesto-capolavoro realizzato dal pittore e grafico di fama internazionale Sandro Symeoni per I racconti di Canterbury di Pasolini: una folla variopinta di personaggi con al centro tre danzatrici nude. L’autore perlustra anche l’effetto “teatralizzante” dei manifesti: «Ponendo la figura dell’attrice in un contesto completamente despazializzato, senza altri elementi figurativi al di fuori del suo corpo nudo, il manifesto di Emanuelle nera rispecchia invece i meccanismi di costruzione visiva del personaggio».

L’onda lunga della pubblicità ipersessualizzata invade gli spazi urbani
Negli ultimi tre capitoli, Di Chiara analizza altri aspetti interessanti: le connessioni fra manifesti e spazio urbano e fra sessualità e marketing business to business nel «Giornale dello Spettacolo», e la rappresentazione della cartellonistica nei film italiani.
La dimensione spaziale “ipersessualizzata” punta ovviamente sulla “spettacolarizzazione del corpo femminile”: a questo proposito l’autore fa riferimento a due esempi di modifica dello spazio urbano di Roma attraverso la collocazione strategica degli affissi. Il primo riguarda cinque manifesti di grande formato, tre dei quali contengono espliciti richiami sessuali: il corpo nudo di una donna alla deriva nel cosmo per Solaris (réclame truffaldina, dato che nel capolavoro di Andrej Tarkowski non esistono scene di nudo); il volto di Renato Pozzetto che incombe su due natiche femminili stilizzate per la commedia umoristica Per amare Ofelia di Flavio Mogherini e le amazzoni discinte per Le guerriere dal seno nudo di Terence Young, primo esempio di peplum softcore. «Raccolti in questo agglomerato», osserva Di Chiara, «i manifesti assumono una dimensione palintestuale, fondata sul contrasto sia formale che contenutistico». Infatti, se le due amazzoni che si baciano sullo sfondo fungono da «stimolo del piacere voyeuristico maschile», l’astrazione delle silhouette che affiancano il volto di Pozzetto appare come un esperimento di graphic designer postmoderno. Il secondo esempio concerne l’affisso di Peccato veniale di Salvatore Samperi, dove Alessandro Momo «brandisce come un trofeo un paio di mutandine», contiguo a quelli di Niente di grave, suo marito è incinto di Jacques Demy con Mastroianni in stato interessante che spinge una carrozzina (clamoroso scambio di identità sessuale!) e di Quelli che contano di Andrea Bianchi, dove la nudità di Barbara Bouchet è coperta solo da sciarpa e slip. L’autore dedica un cenno anche all’offensiva femminista contro la reificazione del corpo della donna nel cinema: evaporato il potere inquisitorio della censura, alla fine degli anni ’70 sono le attiviste dei movimenti di liberazione femminile a sostituire i magistrati maschi nell’oscurare i manifesti ritenuti irrispettosi verso la donna con appositi sticker con la scritta «questo offende e sfrutta la donna».
Nell’analizzare i contenuti del «Giornale dello Spettacolo», rivista settimanale dell’Agis nata nel 1957 per supportare gli esercenti, l’autore lo definisce «luogo privilegiato sia per sondare i meccanismi di funzionamento delle attività promozionali non indirizzate al grande pubblico, sia per esaminare il ruolo svolto, all’interno di queste ultime, da immagini o discorsi riconducibili al tema della sessualità». Significativa, in questo ambito, la promozione del “Porno Chic” di Gerard Damiano The Story of Joanna: l’immagine della protagonista Terri Hall «ritratta in una veste che scivola in maniera suggestiva lasciando intravedere una spalla e parte del seno, è accompagnata da un trafiletto che mette in risalto la sua formazione di ballerina classica». Ancora più audace appare l’inserzione a tutta pagina per Il sesso degli angeli di Ugo Liberatore, in cui si intravede il corpo nudo di un maschio disteso con accanto una donna che gli appoggia la testa sul petto. Puntualizza l’autore che «il dibattito sulla sessualità nelle pubblicità serve, in ultima analisi, a proteggere la categoria nel mentre viene assecondata la domanda di erotismo che le viene rivolta dal mercato».
Infine, Di Chiara affronta il tema della presenza metatestuale dei manifesti all’interno delle inquadrature filmiche: in Ladri di biciclette e in Siamo donne d’impronta neorealista, in Il moralista e in Le tentazioni del dottor Antonio (episodio di Boccaccio 70) nell’ambito della commedia all’italiana, in Il comune senso del pudore in epoca ormai post-censura. Filoni che «hanno avuto un forte impatto sull’immaginario spettatoriale e possono pertanto offrire esempi significativi di come le forme simboliche abbiano intercettato e rinegoziato discorsi, attitudini e sensibilità culturali differenti relative alla rappresentazione della sessualità nei materiali pubblicitari». L’immagine sensuale e inguainata di Rita Hayworth in Gilda che compare sul poster che l’attacchino sta incollando in Ladri di biciclette segna infatti il «passaggio dal divismo del volto al divismo del corpo», mentre dalla figura della gigantessa Anita Ekberg in Le tentazioni del dottor Antonio, emerge il simulacro voluttuoso di una bellezza robusta e carnale. «L’inno all’eros espresso dal corpo femminile ritratto sul cartellone», osserva Di Chiara, «si trasforma così in una carica vitale che unisce identità differenti nel suo atavico universalismo – evocato dai richiami all’infanzia e alla maternità – e contribuisce a dare un senso e ad animare anche gli spazi vuoti della metropoli». E conclude: «In linea con quello che sarà, alla fine del decennio, l’esito della rivoluzione sessuale, l’episodio identifica in un’esibizione del corpo femminile il principale veicolo della liberazione dell’eros, e nella diffusione dei manifesti cinematografici nello spazio delle città uno dei suoi canali di comunicazione privilegiati».

Guglielmo Colombero

(www.bottegascriptamanent.it, anno XV, n. 163, aprile 2021)

Collaboratori di redazione:
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi
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