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A. XV, n. 160, gennaio 2021
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Politica ed Economia (a cura di La Redazione) . A. XV, n. 160, gennaio 2021

Zoom immagine Una piccola
grande utopia
messa in fiaba

di Massimiliano Bellavista
Un libro che sfida la paura
e stimola l’empatia tratto
da fatti accaduti. Per Infinito


Pat Patfoort è un’antropologa e divulgatrice molto conosciuta, relativamente nota anche in Italia per i suoi studi e l’incessante sforzo che prodiga nell’insegnamento della cultura della non violenza.
Già questo basterebbe a giustificare l’avvicinamento del lettore a questo libro, Il piccolo albero spaventato (Infinito edizioni, pp. 64, € 11,90) perché oggi parlare ai bambini del tema della paura (e della sua gestione) e di quello ancora più rilevante dell’educazione all’empatia è di per sé rilevante e degno di considerazione.
Un buon lettore è per sua natura empatico e l’empatia, nella pluriennale esperienza dell’autrice è la ricetta, la porta di ingresso nel mondo della non violenza, della non sopraffazione reciproca.
«Infine, mettersi il più possibile nei panni di un altro, l’empatia, è fondamentale nell’atteggiamento nonviolento. In questo lo sviluppo della fantasia e dell’immaginazione ci può aiutare. Metterci al posto del piccolo albero è un buon esercizio».
Già, il piccolo albero, il protagonista del racconto: lasciamo al lettore curioso e alla sua consultazione del materiale iconografico che correda riccamente il libro, la scoperta del perché e percome sia diventato il protagonista di questa fiaba. Basti dire a questo riguardo che le illustrazioni di Jannik Roosens sono veramente di grande valore, e certamente hanno contribuito a fare la fortuna di questo libro, che conta traduzioni in varie lingue, quella italiana curata da Rossella Vezzalini. Se vi sono (e certamente vi sono) degli adulti che collezionano libri illustrati per l’infanzia, questo è sicuramente uno di quei libri da mettere in biblioteca. Gli acquerelli della parte centrale del volume di ambientazione notturna sono dei piccoli capolavori.
Ciò che però più ci interessa sottolineare è che si tratta di tutto fuorché di un testo scontato o di un protagonista noioso, idealizzato o men che meno statico, come si potrebbe immaginare. Questo alberello sta lì, sulla costa quasi verticale di un’altissima montagna, crescendo in posizione ostinata e contraria a ogni logica. Solo e isolato e quel che più conta, esposto alla violenza della natura, a un mondo dinamico fatto di slavine, nevicate, frane, tempeste, reagire altrettanto dinamicamente, questa creatura accetta e si adatta ad ogni condizione, perché «quella della natura dovrebbe essere la sola e unica forma di violenza esistente. È già sufficientemente devastante e drammatica, se pensiamo ai terremoti, alle eruzioni vulcaniche, agli incendi delle foreste, ai tornado, alle inondazioni, agli tsunami, ai fulmini…». Non si tratta insomma della gratuita violenza umana che invece conviene non accettare, ma eliminare alla radice.

Lo stupore e l’empatia contro la violenza
Chi è in fin dei conti un non violento? Non è un debole o uno che accetta passivamente la violenza. Volendo sintetizzare malamente quasi cinquanta anni di vita professionale – ce ne perdonerà l’autrice – secondo Patfoort è piuttosto qualcuno che è non solo empatico, cioè capace di entrare in sintonia con l’ambiente, come fa l’albero con la natura matrigna che lo circonda, ma anche qualcuno in grado «di gioire di tutto ciò che troviamo piacevole o bello, e di dedicarci tempo».
L’albero infatti ha paura, chi non ne ha, ma non si lascia vincere dall’odio. E questo fa la differenza, perché conserva la capacità di apprezzare la bellezza di quella stessa natura che lo minaccia, e quindi la possibilità di caricarsi di quella positività necessaria alla sua sopravvivenza. «Quello che il piccolo albero ama al di sopra d’ogni altra cosa, sono le notti illuminate da una moltitudine di stelle scintillanti e dalla luna che si sposta da un lato all’altro». Lo stupore per la vita, si direbbe sia il messaggio centrale dell’autrice, aiuta a ad avere la sfrontatezza di viverla appieno.
Ora, qui il libro per certi versi diventa addirittura rivoluzionario e provocatorio. Vi ricordate il principio di Pollyanna, la protagonista dei romanzi di Eleanor H. Porter e di un fortunato adattamento cinematografico? Era una bambina che insegnava a tutti a scorgere il lato positivo delle cose. Attenzione, scorgere il lato positivo delle cose, anche di quelle più avverse e brutte, non vuol dire vedere solo il bello, portando sul naso un paio di occhiali rosa. Esattamente come essere semplici non vuol dire essere sempliciotti. Ebbene, l’alberello del volume è una Pollyanna del mondo vegetale. Pratica sistematicamente il gioco della felicità. Esso vuole insegnarci attraverso la favola che è letteralmente incastonata negli acquerelli del volume qualcosa che molte orecchie indurite non vogliono nemmeno sentire ma che è indispensabile a un bambino: ovvero la potenza del bello che c’è intorno a noi e il miglior modo per evocarlo nello spirito dei propri simili. La semplicità infatti è un messaggio potente, è come un cerchio giottesco tracciato a mano libera nella mente del lettore, e questo libro riesce nel tentativo di rendere semplici e immediatamente assimilabili concetti complessi

La morale della favola
Si tratta senza dubbio di un’opera breve ma con molte chiavi di lettura e di conseguenza molteplici risvolti morali. L’albero, senza svelare i dettagli, sarà capace grazie alla sua positività di salvare se stesso e anche il suo prossimo.
In termini manageriali, si potrebbe dire che il piccolo grande albero è resiliente, cioè capace di assorbire i colpi della sorte, metabolizzarli e addirittura trasformarli in un punto di forza, un po’ come le nostre difese immunitarie fanno coi virus. E dati i tempi che viviamo, in cui non solo la non violenza ma la capacità di gestire la paura è certamente all’ordine del giorno, abbiamo certamente bisogno anche di questi anticorpi letterari.
L’incrocio tra esperienze personali dell’autrice e del marito, eccellente alpinista, con la fantasia e i temi pedagogici è senza dubbio ben bilanciato e originale, e certamente non era semplice. Non sempre si trova una simbiosi così felice tra testo e disegni, che invece nel volume è pienamente raggiunta. Unici elementi forse perfettibili sono in qualche punto della traduzione (a volte qualche vocabolo ripetuto troppo di frequente) e soprattutto della punteggiatura con l’uso un po’ troppo frequente dei punti esclamativi che, a giudizio di chi scrive, sono nei libri per l’infanzia tendenzialmente inutili in quanto sembrano voler impropriamente enfatizzare il tono cantilenante e a volte troppo alto del modo di parlare tipico dei bambini. Ma tutto sommato, si tratta di sfumature che nulla tolgono al piacere di una breve ma intensa lettura per tutte le età.

Massimiliano Bellavista

(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 159, dicembre 2020)

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