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A. XIV, n. 158, novembre 2020
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Home Page (a cura di La Redazione) . A. XIV, n. 158, novembre 2020

Zoom immagine La figura di Costantino il Grande
in un romanzo molto fedele

di Guglielmo Colombero
La Prefazione a firma di Guglielmo Colombero
analizza le figure descritte da Gerardo Passannante


Guglielmo Colombero è una penna nota per i lettori delle nostre riviste, sia come autore che come critico letterario, mediante le sue Analisi di autori contemporanei. Siamo quindi orgogliosi di presentare la Prefazione del nuovo libro di un autore della nostra “Scuderia letteraria”, Gerardo Passannante che sarà pubblicata nel prossimo libro di Colombero, Nuovi percorsi della Letteratura contemporanea. Analisi, convegni, prefazioni e recensioni sugli scrittori coevi di prossima pubblicazione.

In Costantino. L’infante di Naissus (Il Seme Bianco, 2020, pp. 240, € 19,90), anch’esso appartenente alla “Scuderia letteraria” di Bottega editoriale, Gerardo Passannante focalizza la narrazione sulla figura più enigmatica e affascinante dell’epoca storica conosciuta come Tardo Impero: Costantino il Grande, presentato come un venticinquenne dall’aspetto “imperioso e guardingo”, il che rispecchia fedelmente l’indole del futuro imperatore. Militare di carriera, carismatico, coraggioso e instancabile, adorato dai suoi legionari, ma anche politico cinico e astuto, che nell’arco di un decennio riuscirà a sbarazzarsi di tutti i suoi antagonisti nella lotta per il potere: Massimiano e suo figlio Massenzio, Flavio Severo, Massimino Daza e infine l’ex alleato Licinio. Passannante segue dunque Costantino passo dopo passo nel primo segmento del suo itinerario verso la conquista del potere assoluto, situato temporalmente fra giugno del 306, quando Costantino fugge nottetempo da Nicomedia insieme alla compagna Minervina e al figlioletto Crispo per sottrarsi dalle grinfie del despota Galerio, e il fatidico 25 luglio dello stesso anno, quando viene proclamato imperatore per acclamazione dai soldati, di fronte alla pira su cui arde la salma di suo padre Costanzo.
Passannante compone questo affascinante affresco romanzato con l’accuratezza già riscontrata nelle sue precedenti opere narrative. L’amalgama stilistico è quello consueto: una ricercatezza formale che, senza mai cristallizzarsi nell’accademismo, vivacizza la materia narrata con lampi di corrosiva ironia, con riferimenti filosofici e culturali di pungente attualità e, in ossequio al crudo e sanguinoso contesto del IV secolo, con virulente impennate barocche costruite come veri e propri tableaux vivants. Sul filo di una ridda di conturbanti ricordi, Costantino rivive il trauma della separazione dei genitori, avvenuta quando lui era ancora un bambino e sua madre Elena aveva dovuto farsi da parte per consentire a suo padre Costanzo un matrimonio politico con la figliastra del tetrarca Massimiano.
Fine cesellatore di ritratti femminili, Passannante descrive la rabbia e lo sconforto di Elena di fronte al prevalere della “ragion di stato” nell’animo di Costanzo con intensa partecipazione emotiva: «il suo amore immenso s’era tramutato in un’ira immensa; e dai piagnistei pietrificati fioriva solo un malanimo di rappresaglia e anatema, appena lenito dalla preoccupazione per la sorte di Costantino». E al dolore di Elena fa da contrappeso il sostanziale opportunismo di Costanzo: «solo ora Costanzo, che non se l’era mai ammesso, realizzava che se il suo petto non fremeva neanche al pensiero che Elena potesse sfuggirgli, ciò significava che della passione di un giorno resisteva solo l’estremo sussulto del suo esaurimento, sotto forma di un dominio autorizzato». Analoga acutezza introspettiva affiora da un’altra coppia sacrificata alle esigenze dinastiche della tetrarchia: il tribuno Aurelio e Valeria, figlia di Diocleziano, costretta a sposare il rozzo e brutale successore Galerio. Valeria soccombe a una sorta di tetra e quasi letargica rassegnazione: «deposte le fantasticherie di gioventù, all’età di trentacinque anni, senza figli, con un marito tiranno e una larva di madre, Valeria era ormai una donna che non si aspettava più nulla dal futuro; e viva solo di un idillio abortito». Dal canto suo, Aurelio si rifugia in un disincantato materialismo, dove fermenta uno strisciante conflitto fra i sedimenti epicurei lasciati nel suo animo dalla cultura pagana e il rigore morale della perduta fede cristiana: «per sopravvivere aveva imparato a districarsi tra indifferenza e cinismo; a galleggiare tra i miasmi della memoria; a tramutare in determinazione l’irresolutezza; a corroborare in propositi il languore. Aveva insomma acquisito l’urgenza di orientarsi interamente verso la terra: verso quei valori, cioè, che aveva creduto di poter ignorare con lo slancio verso l’alto».
Anche il viaggio di Costantino verso la Britannia, dove riuscirà a ricongiungersi al padre malato giusto in tempo per chiudergli gli occhi, acquista una forte valenza simbolica: il futuro imperatore intraprende un percorso che non vale unicamente come conoscenza dei territori e delle genti che in futuro dovrà governare, ma si rivela anche una vera e propria peregrinazione interiore. Costantino non si limita a osservare la realtà che lo circonda, ma tenta anche di interpretarla, e, grazie al suo formidabile intuito politico, non solo saprà individuare nel cristianesimo un innovativo e rigenerante fattore di coesione per l’impero in declino, ritardandone di un secolo la disgregazione, ma anche, con l’Editto di Mediolanum, sancire un principio cardine di tutti i moderni ordinamenti costituzionali dell’Occidente: la laicità dello Stato e la parificazione di tutti i culti religiosi di fronte alla legge.
Passannante quindi procede su questo duplice binario: da un lato si sofferma sui dettagli ambientali, e fornisce al lettore una panoramica esaustiva della varietà multietnica dell’Impero romano, come nel memorabile scorcio descrittivo di una taverna gremita di «avventori d’ogni tipo e classe sociale, che mescolavano le loro pronunce, alterandole a suppliche e bestemmie, tra un vociare impastato di sapori e di fumo. E in un amalgama di lingue e fisionomie, etnie e figure, ognuno gridava come poteva l’euforia dei confini, davanti alla notte che presto li avrebbe inghiottiti per trasportarli l’indomani oltre il mare, in un abbandono al sonno liberatore dopo una tempesta sessuale». Dall’altro, addentrandosi nelle riflessioni del giovane Costantino come in una specie di seduta psicoanalitica ante litteram, l’autore sottolinea la sua attenzione verso il cristianesimo: «ad Alessandria Costantino era entrato in contatto con i profughi cristiani, di cui aveva imparato a scrutare gli ideali e i principi; e aveva intuito che la loro spinosa questione non poteva essere risolta senza indagarne l’interna spiritualità; e che occorreva un’inedita scienza politica al controllo di una setta che, per la sua virulenza ideologica, si distingueva dalle tante che pullulavano nell’impero». E, su un versante più corporeo e tangibile, lo sguardo indagatore di Costantino si sofferma sui cibi e sulle usanze che incontra strada facendo, il che gli permetterà di meglio comprendere le esigenze e le aspettative dei suoi futuri sudditi, anche quelli appartenenti ai ceti più bassi: nel «lungo itinerario per la Britannia, verso cui pur correva affannato, Costantino imparava insomma fin dalla cucina a prepararsi al ruolo di reggente, assimilando da quei prodotti così diffusi nell’impero, e su cui palpitava il ventre popolano, molto meglio di quanto non avesse fatto con le delicatezze assaporate nelle capitali».
Il più temibile nemico di Costantino, il tetrarca Galerio, persecutore accanito dei cristiani, e quindi descritto dalla storiografia da loro influenzata come un mostro di crudeltà e dissolutezza, rappresenta il lato oscuro della tetrarchia, il volto bestialmente rapace di un potere tirannico e corrotto che si alimenta attraverso un disumano fiscalismo. Le rapide, efficaci pennellate con cui Passannante ne tratteggia la losca figura ricordano, con un sottofondo di umorismo macabro, certi vilains del cinema peplum (come l’impagabile Nerone impersonato da Peter Ustinov in Quo vadis): egli «nutriva un odio tanto sviscerato e irrazionale verso i cristiani, che l’ammantava sotto la maschera della sicurezza pubblica, per colpire la setta detestata. A quella frenesia non erano estranei la sua natura idolatra e gli intrugli nauseabondi della megera che l’aveva partorito; ma vi contribuiva anche il fatto che lui stesso nutriva avversione contro ogni forma di virtù, in cui coglieva biasimo ai suoi vizi; non sopportava la probità, per non doversi torcere la coscienza; non stimava l’integrità, sapendosi basso e vile; non ammirava la grandezza, che ne offuscava la pretesa di eccellenza; non onorava la giustizia, calpestandola continuamente per esimersi dalla vergogna».
Assai significativo, a questo proposito, il ritratto del padre Costanzo fornito da Costantino durante la cerimonia funebre, una serie di encomi che rappresentano il defunto tetrarca come l’esatto opposto dell’odioso Galerio: «l’equità di cui ha saputo adornare i suoi atti, il rifiuto a ogni sopruso, e la liberalità ad accogliere, ascoltare, e risolvere le suppliche che gli sono pervenute. Raramente, e posso dirlo con buona certezza di non essere smentito, raramente un sovrano ha coniugato un così alto senso del governo con una così pietosa attenzione ai bisogni del popolo».
Concludendo, Costantino. L’infante di Naissus è l’impeccabile squarcio di una vicenda storico-romanzesca che, attingendo dal pensiero critico del tempo (incarnato soprattutto nella disputa filosofica che contrappone Lattanzio, il “Cicerone cristiano”, a Porfirio, il polemista neoplatonico aspramente schierato contro i contenuti evangelici: l’analisi che ne offre Passannante è di enorme interesse culturale, anche se riservata a una ristretta nicchia di appassionati), getta un fascio di luce sui presupposti (in gran parte ancora poco chiariti dalla storiografia post-illuminista, Gibbon su tutti tanto per intenderci) di quel mutamento epocale che fu l’emersione del cristianesimo e il suo trionfo finale sulla plurisecolare civiltà pagana dell’Impero romano. Questo “ritratto di Costantino da giovane” (tanto per parafrasare il Joyce di Dedalus, a cui l’autore non ha nulla da invidiare sotto il profilo dell’indagine psicologica) intriga e coinvolge grazie alla disinvoltura sia stilistica che lessicale con cui Passannante evita elegantemente gli scogli del calligrafismo autoreferente e, scandagliando le pulsioni più segrete dei suoi personaggi, ci regala pagine di intenso impatto emozionale, che fanno rivivere al lettore un’epoca lontanissima dal punto di vista cronologico ma terribilmente vicina al momento storico che sta vivendo l’Occidente, sospeso tra fermenti di rinnovamento e rigurgiti reazionari che vorrebbero riportare indietro le lancette della Storia.

Guglielmo Colombero

(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 158, novembre 2020)

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