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Anno II, n° 8 - Aprile 2008
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Civiltà letteraria (a cura di Anna Guglielmi) . Anno II, n° 8 - Aprile 2008

Conversazione con lo scrittore Giampiero Rigosi
di Sergio Sozi
Interessante esplorazione, con l'autore de L'ora dell'incontro (Einaudi),
della tematica della malattia, fra Letteratura e pensieri sul presente


Giampiero Rigosi non è uno scrittore che insegue il successo; ma questo non lo si constata a naso, men che meno parlandoci direttamente, come abbiamo fatto noi poco fa – ché quando ci si discorre tutti gli scrittori sembrano alternativi, alcuni anzi paiono migliori dei loro libri (eccetto forse Céline e Vassalli!) e tutti ci danno un afflato umano che molti critici non possono eludere nel proprio giudizio complessivo sull’uomo-scrittore. Cadere in simili ingenuità però non è da noi, grazie ad un disincanto sorgente dalla nostra stima unicamente indirizzata ai classici della Letteratura italiana e greco-latina.

Già: fare un’intervista a uno scrittore, per noi, significa sempre avere a che fare con un minore, tale già solo per il fatto di essere vivo oggi e per giunta non ultrasessantenne; oltre a ciò, intervistare significa essenzialmente cercare di congiungere il forse incongiungibile: l’uomo e l’opera, cosí vedendo i meriti dell’uno e dell’altra, soppesandoli, integrandoli in un’opinione per niente condizionata da sollecitazioni emotive o sentimentali. Freddamente, lo ammettiamo. Ma proseguiamo sui perché non sia stato – per la nostra personale esperienza – possibile accertare la non intenzionale commerciabilità del signor Rigosi. Dopo questi perché vedremo per quale ragione si ritenga che questo autore non ricerchi la fama contemporanea, da vivente. Per aspera ad astra. O meglio: Ab aspera ad astra.

Comunque, ribadiamo, lo scopo di un’intervista resta l’improbabile missione di avvicinare l’uomo, quell’uomo, alla propria opera, in questo caso letteraria (ma si può anche intervistare un contadino sul suo modo di raccogliere il grano, certo, ovvio. Il motivo di un'intervista resta sempre lo stesso).

Ecco: leggendo questo L’ora dell’incontro (Einaudi, 2007, pp. 446), l’impressione che ne riceviamo – in itinere e a poco a poco fino al nostro primo giudizio finale – ha addirittura rasentato il contrario della verità escavabile da una persona che fosse veramente autonoma e giustamente appartata dalla vita altrui, pertanto, al contrario, conducendoci a vedere delle coordinate cosí tanto affini ai telefilm da corsia d’ospedale, le cosiddette fiction mediche, da farci indignare per la verniciatura ‘‘stile einaudi per ultraquarantenni’’ che le ricopriva furbescamente.

Un impasto ben calibrato – abbiamo pensato – di Buzzati e Tondelli, Parise e Moravia, spalmato su un sottogusto fondamentalmente, appunto, televisivo, da sceneggiato italo-e-americano dei nostri giorni. Roba di moda per una congerie di gente superficiale e di ''pseudo'': pseudolettori, pseudoprofondi, pseudoalternativi, pseudoequilibrati, soprattutto pseudoletterati. Infatti, la divisione del lungo romanzo in tre tronconi-parti, ognuno ben riconducibile agli altri ed includente degli episodi montati alla ‘‘porte scorrevoli’’ maniera, ma sempre senza andare a fondo sul senso moral-filosofico dell’opera, ci ha dato terribilmente ai nervi. Il motivo di fondo, dato dalla decisione di una fisicamente sana protagonista quarantenne (Clara, divorziata bolognese convivente con figlioletto di quattro anni) di fingersi malata terminale di cancro per avvicinare e si presume concupire un noto oncologo clinico dalla condotta deontologica alquanto discutibile, ci ha fatto pensare che dopotutto questa fosse l’ennesima imitazione italiana delle verità-in-pillole direttamente prese dagli Usa, ma addirittura portata su libro con prestigiosa firma editoriale. Il repertorio lessicale senza troppa fantasia o ricercatezza e il periodare di ovvia fluidità, ci hanno confermato nell’opinione: roba consueta. Poi, ripeterò, una firma, lo struzzo, che garantì per Italo Calvino ed Elio Vittorini, e oggi anche per geni come Bruno Schulz, e che sempre ha ricercato i piú strani e veri frutti dell’ingegno letterario italiano, quella firma decaduta, sappiamo, ci ha confermato nel sospetto di sopraffina operazione intellettualoide. Ci si sono drizzate le antenne: eh no! Qui si allunga il brodo con l’aggiungere il dado, alla maniera sceneggiatoria: quando bisogna riempire con episodi annacquati mostrando particolari idioti come una macchina che parte per tre minuti o un saluto che dura sei minuti; poi l’eccesso di sesso e di gestualità, di risposte fisiche ai malesseri psichici o ad altre sollecitazioni emotive, descritti come se noi lettori non conoscessimo certi atti quotidiani (fare l’amore o la spesa, cucinare, andare al bagno, lavorare, e relative piccole patologie d’ogni giorno). Eeeh, non convince, si è concluso.

Questo ci siamo detti. Quanto appena esposto e molto altro di meno importante. Poi ci siamo fermati, dando pace per un attimo al nostro disgusto. Cosí abbiamo valutato la cosa di Rigosi confrontandola alla normale follia italiana di oggi, alla quotidiana nostra bruttezza o alla scialba meccanicità degli atti, ovverosia all’estraneità di ogni Italiano a se stesso, perso fra un’olivetta di un ristorante ed un microcosmo affettivo inesistente, o almeno sfaldato ed insicuro, traditorio. Cosí abbiamo capito, ed abbiamo detto con parole scolpite: ‘‘Rigosi è un italiano di oggi. Bisogna rassegnarsi’’. Ecco: il suo operare è quanto di meno ipocrita e commerciale possa fare un Italiano ultraquarantenne che scriva libri di narrativa. Lunga, oibò, che sennò non lo pubblicano. Se la sua coscienza è tutta compresa fra l’asfittica americanizzazione del Paese ed un'ispirazione presa da altri autori nostri connazionali (quelli citati prima) veramente se stessi, non è colpa sua. La realtà idiota dell'hic et nunc, dello Zeitgeist, non permette alle intelligenze di fluire fuori dal letto del fiume pazzo.

Dunque, Giampiero Rigosi, quarantaseienne nel Duemilaotto, bolognese e narratore, sceneggiatore, cittadino italiano, di professione cantastorie  nell'attuale vulgata (ossia diversamente da come i suoi colleghi agivano quando, omericamente, erano ciechi guerci e ottusi), dipinge la realtà che intende rappresentare estremamente bene. Senza voler compiacere qualsivoglia amico, lettore o editore per fini di lucro o di allori. È la (nebbiosa) realtà ad essere perversa: la realtà che vede colui che crede di vederla, che osserva l'osservatore,cosí interpretandolo e sostituendolo. In fondo, l’epoca in cui si vive, scrive ed opera sempre al posto degli uomini che la vivono. È lei la protagonista, la scrittrice di tutti noi, Rigosi compreso. E Sozi, certo, certo. Lo si sa a monte.

 

Intervista all’autore de L’ora dell’incontro (Einaudi, 2007)

 

Le saremmo grati se chiarisse le idee riguardo a una evidente peculiarità della sua scrittura: perché soffermarsi cosí tanto sui particolari raccapriccianti della malattia, quelli riguardanti i cambiamenti d’aspetto dei malati, i loro mutamenti d’odore corporeo, le loro carni visibilmente decadenti? Ovvero: che senso ha, ai fini del significato profondo del suo romanzo, questo insistere (con un tono, secondo noi, di impietoso distacco), sulle miserie fisiche delle malattie umane, sui particolari scabrosi di fleboclisi e terapie, nonché, in genere, sulle manifestazioni corporali dei disordini psichici e dei sentimenti?

 

«Chi ha assistito a un parto o a un’agonia sa bene quali secrezioni accompagnino questi due momenti. Sperma, placenta, sangue, saliva, urina, lacrime, sudore: di questo siamo fatti, di questo è fatta la vita. Che alcuni fluidi siano più nobili di altri, e quindi più adatti ad apparire in un romanzo, è un’idea romantica che non mi appartiene e che anzi respingo con forza. Un uomo è forse meno ‘‘umano’’ quando urina di quando piange? Quando defeca di quando sanguina? Quando si nasconde tremando piuttosto di quando affronta con coraggio il pericolo? Quando si masturba di quando prega?».

 

Le diverse scene erotiche di cui è costellato L’ora dell’incontro sono, coerentemente con il resto del narrato, piuttosto esplicite, realistiche, perfino sboccacciate diremmo, tanto da portarci a pensare che esse costituiscano un tutt’uno (volutamente osceno) con il suo morboso gusto descrittivo per la penitenza corporea della malattia. Dunque l’insistere su queste superflue descrizioni di atti sessuali, a nostro avviso, non trova giustificazioni plausibili nel senso profondo del romanzo, che sembrerebbe invece essere un messaggio di speranza, tutta terrena, nell’amore piú alto e impalpabile. In poche parole, consideriamo kitsch ed usuale l’accostamento sesso-amore. Kitsch per via dell’insistere nelle descrizioni degli atti sessuali con linguaggio volgare e crudo; ed usuale perché tutti sanno l’effetto che fanno queste scenette su certo pubblico. Anzi su molto pubblico.

 

«Lo stile che ho utilizzato – le parole stesse che ho scelto – per raccontare le scene erotiche, cambia di volta in volta. Il sesso che pratica Paolo non è lo stesso di Stefano e Giuliana, e nemmeno quello di Laura e Palmieri. Quando parla di scene erotiche ‘‘sboccacciate’’ probabilmente si riferisce a quelle in cui sono protagonisti Stefano e Giuliana. Per esempio il capitolo 24 della seconda parte coglie Laura e Palmieri in uno dei loro momenti di intimità: io trovo quella scena molto delicata e, in tutta sincerità, tutt’altro che ‘‘sboccacciata’’. Posso assicurarLe che io non ho nessun gusto morboso per la malattia, e ancor meno penso alla malattia come a una ‘‘penitenza corporea’’: semmai, in certi casi, come a uno dei tanti linguaggi con cui il nostro corpo cerca di mettersi in contatto con la nostra mente. L’oscenità o la morbosità, spesso, stanno nello sguardo. Se avessi voluto scrivere un romanzo in cui il sesso era al servizio del kitsch e quindi, ruffianamente, delle vendite, avrei pensato e scritto tutt’altra storia».

 

La spruzzata di vaga spiritualità post- o meta-cattolica di cui l’opera è intrisa, cosa nasconde, insieme all’altrettanto costante odor d’ateismo: una speranza o una condanna? Una sospensione di giudizio? Non ci è chiara la sua posizione nei confronti della religione Cattolica e del suo esatto opposto (non saprei: l’agnosticismo o l’ateismo?). Insomma, i rapporti fra questi contrari non riusciamo a captarli.

 

«Quello che io faccio – o cerco di fare – è raccontare storie, e quindi l’agire di personaggi fittizi, che pure hanno una stretta parentela con la realtà che mi è dato d’osservare. Questi personaggi hanno – così come gli uomini e le donne che conosco – diversi rapporti affettivi e lavorativi, diversi modi di stare soli o in compagnia di altri, e diverse relazioni con i grandi problemi dell’esistenza umana: il senso della vita, il tradimento, il dolore, la morte, il credere o meno in una divinità superiore... Così, quando racconto una storia, cerco di penetrare l’interiorità dei personaggi che creo, per intuire come si comporterebbero in certe situazioni (le situazioni in cui li pone la storia che sto inventando). Ne L’ora dell’incontro alcuni personaggi credono in Dio, altri no, altri ancora evitano di porsi il problema. Naturalmente anch’io, proprio come i miei personaggi, ho un’idea in merito ma penso che l’opinione di Giampiero Rigosi come cittadino importi poco, e se a romanzo terminato non la si coglie tanto meglio: significa che sono riuscito a raccontare personaggi credenti, atei e agnostici con lo stesso rispetto e la stessa immedesimazione, che è proprio uno degli obiettivi che, come narratore, mi pongo».

 

Il racconto approfondito degli episodi concernenti i personaggi di contorno (Paolo, per esempio, il fratello di Clara, una delle due protagoniste) a volte sembra inutile, quindi aggiunto solo per dare un respiro romanzesco a quello che poteva essere (o era?) tutt’al piú un racconto lungo. Lo stesso dicesi di molte altre descrizioni, troppo lunghe rispetto alla funzione che rivestono nell’economia filosofica del romanzo: perché parlare diffusamente dei broccoletti o del pesce che brucia in padella, del tipo di pane o del colore delle bevande che consumano Laura, Clara, Stefano, Patrizia? Perché descriverne i vestiti e i bacetti di commiato? Un romanzo mistico-psicologico come questo non dovrebbe averne necessità. Almeno non di parti tanto estese.

 

«Quando osservo una persona sono interessato agli oggetti che usa, che ama, di cui si contorna, così come dal modo in cui compie i gesti quotidiani (gli stessi gesti, a livello di significato e di finalità, che compiono gli altri, eppure così diversi, se osservati con la dovuta attenzione) e che delineano, nella loro peculiarità, il carattere di un uomo o di una donna e, quindi, anche di un personaggio. Impiego anni per mettere a fuoco i miei personaggi, per conoscere il rapporto che ognuno di loro ha col cibo e con la solitudine, il modo di reagire al dolore, alla gioia o alla rabbia, per capire come fanno l’amore o come si ritraggono quando si sentono feriti. Dio è nei dettagli, diceva Nabokov. Può darsi che a volte ecceda nella descrizione di questi dettagli, però ritengo che la scelta di un autore di essere, nella sua prosa, più o meno sintetico, stilizzato o perfino astratto (così come le relative gradazioni contrarie) faccia parte della sua scelta stilistica. Scelta che, ovviamente, può piacere o non piacere. Però non penso che esista uno stile più o meno consono ad un romanzo mistico-psicologico (ammesso che il mio romanzo lo sia). E, in tutta onestà, se fossi giunto alla conclusione che per scrivere romanzi mistico-psicologici si è sempre utilizzata, nella storia della letteratura, una scrittura scarna e stilizzata, e intendessi scrivere a mia volta un romanzo mistico-psicologico, credo proprio che, per farlo, tenterei di utilizzare uno stile innovativo: quindi che, per esempio, mi cimenterei con una scrittura analitica e iperdescrittiva».

 

Il suo rapporto di confidenza ed indagine, di penetrazione della realtà intima dell’anima umana, sembra disarmonico, intermittente e spesso frettoloso, a giudicare da quanta attenzione mette a far sí che ogni personaggio non si inoltri mai eccessivamente nel campo che lei vorrebbe trattare – che mi sembra sia piuttosto altisonante: l’amore umano e l’Amore Divino in relazione con la morte.

 

«È lecito ritenere che un romanzo nel quale i personaggi hanno a che fare con l’amore, con la malattia, con la vita e con il dolore, sia un romanzo che affronta temi altisonanti. Mi verrebbe da dire che, oggi, c’è molto bisogno di trattare temi altisonanti, ma questa naturalmente è solo la mia opinione. Alla Sua domanda posso solo rispondere che senz’altro, nella storia che ho scritto, si incontrano tanti e diversi modi di amare: l’amore dei genitori per i figli, dei figli per i genitori, dei coniugi, degli amanti e perfino l’amore verso Dio, così come posso dire che i personaggi di questo romanzo hanno a che fare con la vita, le passioni, il disorientamento, la solitudine, il dolore, la malattia, la morte. Certo non era mia intenzione trattare questi temi in modo ‘‘disarmonico, intermittente e frettoloso’’. Da come è posta la domanda, però, mi pare che questa impressione derivi più che altro dal modo in cui io sposto lo sguardo (o lo ritraggo) da un personaggio nel momento in cui si trova di fronte a un interrogativo per lui cruciale. Però qui si entra di nuovo nel campo della poetica di un autore. E in questo senso la sua domanda – come del resto altre – suona un po’ provocatoria. Non vorrei fare paragoni inopportuni, ma sarebbe un po’ come dire che Manet o Degas ponevano i soggetti al margine dei loro dipinti perché non sapevano come dipingere una parte del corpo o un’espressione del viso».

 

La struttura complessiva, il taglio realistico, la presentazione netta delle scene del romanzo, costituiscono, ai nostri occhi, un insieme studiatamente preparato per una futura trasposizione cinematografica: tanto che anche L’ora dell’incontro, come ogni film, appare già come un lavoro d’equipe – almeno a giudicare dai tanti ringraziamenti finali. Le piacerebbe vedere questo libro rielaborato in una sceneggiatura?

 

«Non ho mai pensato a una trasposizione cinematografica di questo romanzo che mi pare molto difficile da realizzare, sia per i temi che tratta sia per lo spazio che dedica all’interiorità dei personaggi. Se poi in Italia o all’estero c’è qualcuno che pensa sia possibile cimentarsi con un’impresa del genere, tanto meglio: credo che sia lecito tentare di tutto. Riguardo ai ringraziamenti finali Le devo confessare che io, quando scrivo un romanzo (e su questo romanzo ho lavorato per dieci anni) non faccio leggere nulla a nessuno, se non pochi e brevissimi brani, e molto raramente parlo ad altri di ciò a cui sto lavorando. Parecchie delle persone che ringrazio non hanno letto il romanzo che una volta terminato o addirittura pubblicato, e probabilmente alcune di loro non l’hanno neppure letto, eppure mi hanno aiutato, a volte anche solo rassicurandomi sulla traduzione di una frase o standomi vicino in un momento di crisi personale, e ho pensato fosse giusto ringraziarle. Mi sembra un po’ prevenuto chi, vedendo una persona che ne ringrazia un’altra, pensa che tra i due intercorra un rapporto losco (e cioè, nel caso il primo sia uno scrittore, che il ringraziato sia un 'collaboratore' o peggio ancora un ghost writer)».

 

Un’opinione sull’Italia moderno-contemporanea: a noi sembra che lei la veda innamorata della propria giovinezza, estetica e comportamentale, fino a rasentare la follia, fino a trovare un contrappasso nell’augurarsi, sotto sotto, la malattia mortale, e cosí trovare, in questa ultima, paradossalmente, il solo valido motivo di permanenza in vita. Concordiamo e ci sembra uno degli aspetti migliori del libro, ma mi sembra sia stato mutuato – mutatis mutandis – da un nome fra tutti: quello di Gabriele D’Annunzio. Vitalismo eroico, certo trasposto fuor di agone e privato di furor patriottico.

 

«La prima parte della riflessione – che però secondo me non riguarda solo l’Italia contemporanea ma in generale tutto l’Occidente – potrei confermarla, non invece la seconda: nel mio romanzo non viene in alcun modo affermato che ‘‘nella malattia mortale si trovi il solo valido motivo di permanenza in vita’’. Non trovo inoltre alcuna parentela con D’Annunzio: uno scrittore che – un po’ mi vergogno ad ammetterlo – ho frequentato pochissimo».

 

Lo specchio, il guardarsi ossessivamente su codesta superficie, è indubbiamente una delle fissazioni piú diffuse fra i personaggi, assieme all’ossessione per la propria salute. Che valenza dà a questa duplice, inscindibile, esagerata comunque, attenzione alla carne e all’immagine?

 

«Trovo che faccia parte delle ossessioni di cui dicevamo sopra: le ossessioni che affliggono donne e uomini del cosiddetto Occidente».

 

Ci sta a definire questo suo lavoro anche un po’ un ritratto degli Italiani ultraquarantenni, divisi fra amoralità quotidiana, irrazionali spinte verso l’alto (una ricerca veritativa, seppur disperata), e vaghe rimembranze di (non sempre salutari) tradizioni familiari?

 

«Sì, anche se realizzare questo ritratto non è la finalità principale del romanzo».

 

Il sesso qui appare come una via di mezzo fra il giochetto superficial-sciocco-perverso mascherato da liberatorio (soprattutto per Paolo e Stefano, ma verso la fine anche per Clara) e... cos’altro? C’è qualcosa di ulteriore, ma non si riesce a coglierlo.

 

«In parte ho già risposto precedentemente. Il sesso, che è solo uno dei tanti atti che compiono le donne e gli uomini, è uno dei modi in cui, in maniera più o meno spontanea (e nella nostra società, costantemente influenzata dalla fiction, dai video pubblicitari, dalla pornografia spicciola, mi sembra molto poco spontanea), donne e uomini esprimono se stessi. Per chiarire dirò che anche nel farci influenzare dall’uno o dall’altro modello di comportamento riveliamo noi stessi, e scoprire cosa c’è nel profondo dei miei personaggi, senza rivelarlo ‘‘dall’alto’’, è uno dei miei obiettivi di scrittore».

 

Palmieri, l’oncologo attorno a cui ruota la messinscena anzi il melodramma, ha dei contorni volutamente indistinti. Lo definiremmo, soprattutto a giudicare da come viene illustrato nelle ultime battute del copione, un disperato ateo-missionario d’amore estremo, ma ciò non basta. Perché tanta reticenza riguardo a lui?

 

«Il romanzo – che secondo me non ha nulla di melodrammatico – è, tra le altre cose, un viaggio attraverso la nascita e la progressione di un comportamento anomalo fino al limite dell’ossessione. Al termine di questo percorso Clara – la protagonista dell’ossessione narrata – arriva a scoprire che non riesce a spiegare a suo fratello, e neppure a se stessa, cosa la spinge ad agire in quel modo. Dopo aver mostrato che è impossibile spiegare il senso e cogliere tutti i significati che si celano dietro un’ossessione, era inutile insistere sull’altra possibile ossessione che attraversa il romanzo: quella del dottor Palmieri. Il comportamento di Palmieri forse risponde a tutte le ipotesi che vengono fatte su di lui nella prima pagina del romanzo, così come, probabilmente, nessuna di quelle ipotesi lo esaurisce».

 

Antonia è una creatura perfetta, tenera addirittura piú di Clara. Ma, diversamente da questa, allegorica, o no?

 

«Tutti i personaggi che compaiono nel romanzo sono, in certa parte, allegorici. Del resto, simboli, metafore e allegorie possono essere colti in ogni avvenimento in cui ci imbattiamo, così come, al contrario, la nostra vita ci può apparire come qualcosa di caotico e di insensato».

 

Qual è la molla, o meglio l’evento psico-emotivo, che riporta Clara ad una condizione di accettazione della realtà?

 

«Nella drammaturgia, di solito, l’autore riconduce una scelta, – soprattutto la scelta decisiva di un protagonista – a un solo evento fondamentale, che determina una svolta, un cambiamento di percorso. Trovo che nella realtà, invece, le nostre decisioni maturino in un tempo assai più lungo e in modo meno netto, motivate da una serie di slittamenti progressivi, dovuti magari – a proposito di quel che dicevamo sopra – a una serie di messaggi che ci è parso di cogliere negli eventi. Clara comincia a essere consapevole di ciò che le sta accadendo, di dove l’ha condotta la fuga dalla propria esistenza, ben prima di ritrarsi dalla finzione a cui ha dedicato tante energie e di decidere di riappropriarsi della sua vita e dedicarsi a ciò che le è caro. Poi, certo, la sera dell’appuntamento con Palmieri, accadono diverse cose che la colpiscono, per esempio l’investimento del porcospino e la visione dell’aragosta nella vasca, visione che innseca in lei una serie di ricordi e di riflessioni che riprenderà più tardi, una volta tornata a casa, quando sta finalmente ricominciando a nutrirsi».

 

Molta attenzione viene dedicata anche alla descrizione degli interni (mobilia, suppellettili, appartamenti), vero?

 

«Sì, e ho già esposto il motivo di questa scelta: gli oggetti di cui ci contorniamo, in un modo o nell’altro, parlano di noi, rivelano un aspetto del nostro carattere. Credo che l’attenzione ai dettagli, così come alle relazioni che si creano tra i personaggi, siano utili – se non indispensabili – per coglierne l’interiorità».

 

Fra maschi e femmine, quali sono gli Italiani messi peggio (facendo un bilancio umano complessivo: psiche, moralità, gioia di vivere, tranquillità emotiva, lavorativa e familiare, ecc.), nella sua implicita analisi?

 

«Se avessi una teoria in proposito la esporrei in un saggio di sociologia».

 

Tutti gli uomini moderni, in fondo, devono fingere di morire per apprezzare quel che hanno in terra, o è una catarsi solo italiana, data dal nostro temperamento passionale e melodrammatico?

 

«Ancora il melodramma... Forse è vero: il melodramma fa parte della cultura italiana, del nostro modo di essere. Però penso che la latente e inconsapevole necrofilia che si coglie in alcuni personaggi del romanzo appartenga, come ho già detto, a tutto l’Occidente. In ogni caso, se devo esprimere un parere al di fuori della narrazione, penso che cedere a questa necrofilia non sia affatto positivo. Però è anche vero che spesso si può giungere a una maggiore consapevolezza di se stessi attraverso una crisi. E la crisi, in una donna o in un uomo, si manifesta a volte in forme complesse».

 

Letteratura stricto sensu: quale periodo e quale ‘‘scuola narrativa’’ italiana le interessano maggiormente, tralasciando la sua con Simona Vinci, Eraldo Baldini, Carlo Lucarelli e altri?

 

«Ho letto e amato molto Cesare Pavese e Goffredo Parise, e anche alcuni romanzi di Sergio Saviane. Poi Pasolini, Morante, Moravia e, in tempi più recenti, Tondelli, che putroppo è morto troppo presto. Tra i narratori miei contemporanei, esclusi quelli che ha citato Lei, stimo Sandro Veronesi, Giulio Mozzi, Edoardo Albinati, Deborah Gambetta, Rosella Postorino ed Elena Varvello».

 

E gli stranieri?

 

«Tra i viventi: Philip Roth, Paul Auster, Milan Kundera, Ian Mc Ewan, Don De Lillo, Michael Cunningam, José Saramago, Alice Munro, Cormac McCarthy. Se andiamo nel passato, l’elenco rischia di allungarsi troppo. Però tra gli autori e le opere fondamentali potrei citare Lo straniero di Albert Camus, Moby Dick di Hermann Melville, Anna Karenina di Lev Tolstoj, Don Chisciotte di Cervantes, Delitto e castigo di Fedor Dostojevski, e poi Čecov, Kafka, Beckett, Hemingway, Musil, Sabato, Borges, Mann, Duras, Highsmith, Manchette, Jonesco».

 

L’ora dell’incontro è un romanzo borghese (stavolta abbiamo sparato una banalità calzata e vestita, ma la lasciamo come curiosa nostra caduta di stile).

 

«Non so che dire... Personalmente non amo molto le definzioni ma probabilmente si potrebbe definire L’ora dell’incontro un romanzo borghese».

 

Un complimento ora ci sta bene, perché se lo merita: il romanzo, oltre che costruito in tre blocchi con vera maestria, possiede un finale bellissimo, resuscitante anche per un lettore parzialmente deluso come me. Questa zaffata d’aria nuova porterà storie meno cupe, in futuro, alla sua penna?

 

«Devo dire che i pareri dei lettori comuni e dei critici che si sono occupati del romanzo sono stati per la maggior parte positivi (alcuni molto positivi). Pensi che, quando c’è stata qualche perplessità, è stata proprio sul finale... Comunque, visto che ho pensato molto al finale (ho perfino tentato di scrivere altri possibili scioglimenti), mi fa piacere che Le sia piaciuto. Non faccio però promesse per il futuro. Anzi, posso farLe questa promessa: scriverò solo storie che sento davvero. Del resto, se avessi fatto considerazioni di marketing, dopo il successo di Notturno bus, rilanciato dal film che ne è stato tratto, invece de L’ora dell’incontro, avrei scritto un altro noir, genere che ora va molto di moda e con il quale credo di cavarmela discretamente».

 

Citazioncina conclusiva: «Ispirandosi a personaggi come Arthur Rimbaud e Glenn Gould, stava cercando un’immagine da proporre al mondo, forse perfino a se stesso.» A parlare, anzi a riflettere, è la coprotagonista Clara (pag. 419), riferendosi al fratello Paolo. Solo a lui...

 

«Non capisco: suggerisce che tra me e Paolo ci siano delle affinità? Non tante, in fondo, anche se Rimbaud e Gould, certo, sono due artisti che mi hanno affascinato».

 

Sergio Sozi

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 8, aprile 2008)

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