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A. XIV, n.150, marzo 2020
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Home Page (a cura di La Redazione) . A. XIV, n.150, marzo 2020

Zoom immagine Bellezza, arte e vera amicizia:
queste le armi della ribellione

di Alessandro Milito
Distopia e fantapolitica sono unite sapientemente in un romanzo
ad opera di Martina Lusi, in cui ogni personalità lotta per risaltare


Il termine “distopia” deriva dal greco antico, composto dal prefisso dys, “cattivo” e da topos, “luogo”. La rappresentazione distopica si nutre delle paure ed incertezze già avvertite nel mondo presente; ci propone una società estrema, difficile da accettare ma possibile da immaginare. La distopia funziona se gli elementi sociali e politici che estremizza si basano su premesse credibili e su problemi realmente avvertiti nella nostra stessa società.
I grandi romanzi distopici e fantapolitici del Novecento hanno interpretato perfettamente questa regola. Il pacifista Aldos Huxley riproduceva nel suo capolavoro, Il mondo nuovo, l’inquietudine della società europea sospesa tra le due guerre mondiali; il George Orwell di 1984 ha bene in mente la società stalinista e l’annientamento dell’individuo di fronte all’onniscienza del Partito Unico; la crudele e totalizzante censura di Fahrenheit 451 nasce dall’opposizione di Ray Bradbury al maccartismo degli anni Cinquanta.

Una distopia originale
Città 117, zona 7, casa 46338 (Planet Book, pp. 166, € 12,00) di Martina Lusi, promettente esponente della “Scuderia letteraria” di Bottega editoriale, si iscrive in pieno a questo filone letterario. Il romanzo ci conduce sotto il rigido ed oppressivo dominio dello «Stato del Benestare», regime totalitario in grado di garantire pace e prosperità ai suoi cittadini modello ma ad un prezzo altissimo: l’annientamento dell’individuo e l’omologazione di massa. Una società rigidamente gerarchica, con poche istituzioni ma tutte al servizio del potere centrale dello Stato, nessuna espressione di corpi intermedi ed associazioni tra cittadini. Un solo rapporto è consentito: quello tra il cittadino e lo «Stato del Benestare».
Anche la famiglia è un’istituzione meramente apparente, il cui unico scopo è fornire almeno tre figli, e quindi tre nuovi cittadini per lo Stato: nessuna forma di affetto è prevista o incoraggiata. Nessuna debolezza è consentita in una società che punta alla perfezione, ad un benessere egoistico e pericoloso. Ciò significa che sì non sono ammessi disoccupazione o inquinamento ma che quindi non sono tollerati cittadini malati o dotati di personalità eccentriche: coloro che sono affetti da malattie incurabili sono costretti a commettere «il Sacrificio».
L’autrice dimostra una spiccata fantasia nel delineare con efficacia una società crudelmente perfetta. Tuttavia, il romanzo si ritaglia con originalità un posto tra le distopie proprio quando delinea la genesi dello «Stato del Benestare» e della sua società grigia e crudele. Questa terribile realtà fantapolitica nasce come degenerazione di una rivolta nobile e necessaria: da una rivoluzione femminista. Sono le donne le artefici dello «Stato del Benestare», le rappresentanti della classe dominante. La dittatura ha alla base l’atto rivoluzionario di una donna che, con un post su Facebook diventato virale, smuove milioni di coscienze femminili ed innesca una serie di eventi che porterà ad un cambiamento sociale radicale. Città 117, zona 7, casa 46338 raccoglie nella drammatica cronaca nazionale, sempre più scossa da drammatici ed endemici femminicidi, nonché da una maggiore attenzione al tema dell’emancipazione femminile, gli spunti per rappresentare una distopia originale e stimolante. E così, come spesso succede a rivoluzioni nate sulla spinta di ideali sinceri e animati da un senso di giustizia autentico, il regime di terrore si sostituisce all’uguaglianza tra i sessi. La prevaricazione delle donne sugli uomini, tacitamente accettata da questi, diventa la regola e solo la prima di tante violazioni dei diritti inalienabili dei singoli.

Un mondo senza colori e passioni
Altro punto di forza del romanzo consiste nel rapporto intimo e complice che viene a crearsi tra i fratelli Maniero, figli della famiglia ideale di uno Stato che pretende cittadini impeccabili, scevri da qualsiasi inutile distrazione passionale ed affettiva. Il ribelle Giacomo, accompagnato dal riflessivo e sensibile Davide, costruiscono a mano a mano una loro personale resistenza ad un mondo che gli sta sempre più stretto; un mondo in cui è vietato qualsiasi colore, in favore dei più razionali e netti bianco e nero. Una società in cui qualsiasi forma d’arte è bandita e il disegno e la musica sono puniti con la censura e la tortura.
Il rifiuto di caratterizzare e personalizzare alcunché è tale da rendere intere città e quartieri dei veri e propri “non luoghi”, nominati solo attraverso numeri freddi e precisi. La stessa casa Maniero, luogo che dovrebbe essere il fulcro della vita familiare e rifugio sicuro dei protagonisti, è individuata da una serie di cifre: 46338.
In questo contesto opprimente, Martina Lusi riesce a richiamare l’importanza della bellezza nella vita dell’individuo che rifiuta di confondersi nel concetto di semplice cittadino. Sarà proprio l’arte ad avere un ruolo determinante nella ribellione dei protagonisti, la necessità di creare qualcosa di bello ancor prima che utile; la consapevolezza che senza musica, senza letteratura e disegno non siamo uomini e donne realmente vivi ma meri fantasmi. Nel rimarcare questo messaggio il romanzo riesce più che bene, lasciandosi perdonare qualche ingenuità comunque limitata.

Alessandro Milito

(www.bottegascriptamanent.it, anno XIV, n. 150, marzo 2020)

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