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Anno II, n° 8 - Aprile 2008
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Politica ed Economia (a cura di Maria Franzè) . Anno II, n° 8 - Aprile 2008

Zoom immagine Un divertente viaggio nella vita degli americani
di Alessandra Sirianni
Un interessante saggio Lindau ci porta alla scoperta di usi e costumi
della classe media statunitense. Tra ossessioni, rituali e aspirazioni


David Brooks, giornalista politico statunitense, noto come “sociologo comico”, ci guida in Happy Days. Questa è l’America (Lindau, pp. 318, € 23,00) attraverso una serie di domande: chi sono gli americani? Qual è l’immagine che essi esportano nel mondo e quanto tale immagine corrisponde alla realtà? Quali sono gli istinti e le pulsioni che dominano la vita della classe media americana, oltre la patina sorridente e buonista che ci viene trasmessa dallo stereotipo di una famiglia intenta a celebrare un barbecue in giardino? Perché gli americani sono così dediti al lavoro e così competitivi e, ancora, sono davvero superficiali e materialisti come spesso appaiono? A questi interrogativi Brooks cerca di dare una risposta, raccogliendo una serie di comportamenti e di abitudini che, di volta in volta, appariranno ovvi o paradossali, cercando di definire un quadro comune in grado di spiegare questi stessi comportamenti e trarne delle conclusioni. Il punto forte del libro è l’ironia (o meglio l’auto-ironia) di questa analisi, che cerca di assumere i toni della comicità più che quelli della critica, lasciando spazio al lettore per biasimare certi atteggiamenti nei confronti delle cose, ma anche per riconoscere in essi tratti comuni alla propria esperienza e, forse, riflettere su di essi.

 

Un viaggio attraverso lo spazio americano

Il libro si compone di tre parti. Un primo capitolo è dedicato ad un ipotetico viaggio dal centro di una generica città americana verso la periferia più estrema. In questo primo percorso vengono descritti i caratteri salienti degli “abitanti” di ciascun microcosmo, sorprendentemente ricorrenti in ciascuna area, come a individuare una serie di “zone culturali” caratterizzate da un determinato tipo di popolazione e plasmate secondo i gusti, gli usi e le credenze di questa stessa popolazione. In effetti,  ci viene spiegato, gli americani sono il popolo che più si muove al mondo, con percentuali di traslochi e cambi di residenze molto più alte che in qualunque altro paese. Questa tendenza era già insita nei primi flussi colonizzatori che, avendo a disposizione enormi spazi e ricchezze, tendevano a moltiplicarsi e a muoversi per fondare nuove sette religiose e per raccogliere proseliti. La volontà di vivere in zone culturali molto ben definite, tra persone simili che condividono interessi e obiettivi, starebbe quindi alla base del continuo moto che caratterizza questo popolo, lo stesso moto che trascina molti anziani verso comunità assolate in Florida in cui passare beatamente gli anni della pensione e che attrae e respinge in modo netto gli abitanti dei differenti “spazi” della città. «La gente si aggrega in comunità non tanto in base alla classe sociale, ma a quale condizione ideale aspirano, e ogni condizione ideale crea una zona di clima culturale».

Si parte quindi da uno dei quartieri urbani più modaioli e bohémien, quello che Brooks chiama la “zona figa” in cui vive la “gente figa”, dove quasi tutti tendono ad avere delle velleità intellettuali se non ad essere colpiti dal «morbo dei newyorchesi (si intende la malattia per cui qualunque cosa gli si dica, loro l’hanno già sentita due settimane prima)» e dove le famiglie sembrano sparire appena i figli raggiungono l’adolescenza (ci sono infatti pochi bambini e in genere molto piccoli). Appena oltre i confini della “zona figa” ci troviamo nei sobborghi naturalisti, dove vivono le persone che, mettendo su famiglia decidono di abbandonare il tessuto propriamente urbano per vivere in quartieri con del verde e degli spazi in cui giocare, ma comunque abbastanza vicini al centro per sentirsi «di città e coraggiosi»: questo è il regno dei campi gioco in legno, della gente di mezza età con sandali tedeschi ai piedi, del commercio locale e dei mercati biologici; le case e le automobili, manifestazioni lampanti del rifiuto dei simboli materiali di successo e benessere economico, ostentano una patina di incuria e anticonformismo (le facciate e i tetti non vengono imbiancati e risistemati compulsivamente e i prati assomigliano a degli anti-prati, incolti o soffocati da masse informi di vegetazione). Il viaggio prosegue nelle “zone professionali” dell’alta società, dove si inizia a percepire qualche segnale di agiatezza economica, ma dove ogni bene sembra culturalmente schierato (merendine salutiste, supermercati enormi ma moralmente corretti e auto costose ma provenienti da paesi ostili alla politica estera americana). Si passa quindi nelle zone più propriamente industriali, con strade a multiple corsie e capannoni di commercio all’ingrosso su entrambi i lati, in cui, generalmente, le persone comuni si recano solo sporadicamente, quando sono costrette a scegliere un nuovo lavandino o dei nuovi pavimenti. Sono in genere luoghi che si attraversano a tutta velocità ma che, ad un’analisi più approfondita, rivelerebbero tutta una rete di ristoranti dai nomi esotici, internet-caffè pachistani e videoteche indiane: qui vive la stragrande maggioranza della popolazione immigrata, con regole non scritte di convivenza che permettono a diversi gruppi etnici di utilizzare gli stessi spazi senza mai, realmente, condividerli. Il viaggio ci porta quindi nel cuore dei sobborghi, nella vera periferia americana, in quei quartieri di case a piani sfalsati nati in gran parte nel dopoguerra ma che, per la cura maniacale degli abitanti, riescono a nascondere perfettamente i segni del tempo e dove, di fatto, i decenni sembrano non trascorrere: qui è ancora possibile trovare «le ragazze pompon, i balli di fine anno, i country club, i barbecue sul retro e le mamme casalinghe». Infine, raggiungiamo i quartieri periferici più esterni, «la grande distesa in espansione di centri residenziali, complessi a uso uffici a forma di cubi di vetro, big-box mall e comunità di case a schiera» luoghi che non possono essere coerentemente mappati perché non esistono confini definiti e modificazioni sostanziali di alcun genere tra una zona e l’altra, se non l’improvviso ripetersi della serie di fast food, centri commerciali e cinema multisala incontrati qualche chilometro più in là. Eppure questi luoghi crescono con una velocità sbalorditiva e accolgono un numero impressionante di abitanti (negli anni Novanta sono stati assorbiti da queste aree settantatre milioni di persone). Sono luoghi che non hanno una storia, non hanno un passato e quindi non hanno convenzioni stabilite; proprio questa caratteristica attira una moltitudine di persone che, delusa dalla fatica e dalle complicazioni della vita cittadina, si trasferisce spinta dal desiderio di ottenere quello che ha sempre sognato, spesso ordine e una agognata dose di spazio domestico extra (armadi, cantine e cucine enormi). Vengono in questi luoghi per «iniziare daccapo in posti dove tutto è nuovo e fresco», ma comunque si portano dietro delle aspettative di uscite fra amici e allegri barbecue di residenti. Nessuno conosce i propri futuri vicini e non c’è nessun codice del luogo da dover assorbire, quindi non ci sono gerarchie sociali in cui inserirsi o da cui sentirsi schiacciati; tutto è pervaso da una sorridente atmosfera di comunità residenziale in cui ci si può conoscere per i propri hobbies o interessi e conversare amabilmente su quanto quel luogo sia migliore rispetto a tutti gli altri in cui si è vissuti.

 

Il motore della vita americana

Nei capitoli successivi Brooks cerca di definire e avallare con una serie di riferimenti, le due principali visioni sul concetto di “americanità”: da un lato quella per cui gli americani sarebbero un popolo di superficiali e materialisti; dall’altro la teoria secondo cui sarebbero in realtà spinti da un forte impulso spirituale e morale.

La parte finale del libro spiega i momenti fondamentali della vita media di un americano, descrivendone caratteri, contraddizioni e aberrazioni in quattro capitoli: “crescere”, “apprendere”, “shopping” e “lavorare”.

Conosceremo quindi la categoria delle “Supermamme”, professioniste affermate e plurititolate che hanno abbandonato una brillante carriera per dedicarsi pienamente ai figli e che riversano in questa attività la stessa incessante energia che prima dedicavano al proprio lavoro, facendo della perfezione e affermazione dei propri bambini una missione di vita. Sapremo così che i bambini americani sono sovra-stimolati, che il tempo che passano da soli si è drasticamente ridotto ma che è aumentato in modo esponenziale quello dedicato ad attività organizzate e indirizzate, in qualche modo, al miglioramento personale (attività sportive, corsi, preparazione ai test); è quindi plausibile che, una volta usciti dall’infanzia, questi bambini si trasformino in adolescenti ansiosi che dedicano la loro fase di teen-ager ad accumulare punti nel loro curriculum vitae con attività extrascolastiche e imprese di volontariato in vista dell’ammissione al college. Una volta entrati al college, sarà per loro impossibile rilassarsi e non percepire il tema della loro formazione come un argomento a cui dedicarsi pienamente e con ogni sacrificio. È come se passassero tra cerchi di fuoco successivi dove ogni impresa abbastanza difficile è degna di essere intrapresa (se accedere ad un determinato programma o master è così difficile ed esclusivo vuol dire, inevitabilmente, che è il migliore e che, quindi, si “deve” entrarne a far parte).

Brooks ci guida poi tra le pile di riviste specializzate in qualunque tipo di bene di consumo, simboli della smania di perfezione e miglioramento personale in tutte le possibili categorie di attività umane. Questo genere di riviste non promuove semplicemente un oggetto o un determinato hobby, ma un intero stile di vita associato a quel bene ed infiamma le aspettative e le ambizioni: perché accontentarsi di essere un semplice appassionato di pesca e non aspirare ad essere il miglior pescatore della regione o non pretendere per sé le migliori attrezzature in commercio?

Ci porta infine nel mondo del lavoro, inseguendo personaggi talmente lavoro-dipendenti da vivere come un trauma il breve lasso di tempo nel quale vengono obbligati a spegnere i cellulari durante un volo aereo: lavoratori per i quali il successo è un credo e una fede da perseguire con ogni mezzo, non legato necessariamente al genio individuale ma ad un’enorme dose di pazienza, disciplina, auto-miglioramento, ricerca. Questi stessi individui non sembrano tranquillizzarsi o adagiarsi una volta raggiunte posizioni di prestigio; al contrario la loro interpretazione del lavoro come opportunità e sfida continua, li porta a ricercare sempre maggiori responsabilità e «la competizione non si ferma mai».

 

La spinta inarrestabile dell’immaginazione

Ma qual è il motore che innesca tutta questa brulicante attività, questa predisposizione incondizionata al sacrificio ed al lavoro sulla strada della crescita professionale e personale, questa continua ricerca della perfezione?

Brooks spiega in parte questo fattore con un richiamo alla storia degli Stati Uniti, da sempre una terra promessa non solo per le moltitudini di immigranti provenienti dal “vecchio mondo”, ma anche per i primi pionieri che si spingevano sempre più a Ovest, muovendosi su una terra che sembrava potenzialmente sterminata e ricca di infinite possibilità, raggiungibili a forza di privazioni e duro lavoro. Ci spiega come una nazione senza passato abbia trovato la sua ragion d’essere nella fede per il futuro. È come se gli americani, quelli di oggi così come quelli delle prime colonizzazioni, fossero spinti da un’incredibile forza onirica, che li porta a immaginare enormi sviluppi e a lottare per essi. La conclusione del libro, scritto evidentemente da un americano, non può che essere coerente con questa visione idilliaca della competitività. Il libro, scritto evidentemente da un americano, si chiude con la riflessione dell’autore in una visione idilliaca della competitività: «All’inizio di questo libro, ho chiesto cosa stimola gli americani a lavorare così duramente e a spostarsi in modo tanto febbrile. Siamo motivati dall’Incanto del Paradiso, dalla sensazione che ci sia qualche destino glorioso appena più in là. Poi ho chiesto se siamo così superficiali come sembriamo. No, non lo siamo. Siamo un popolo fantasioso, un popolo sognatore. Gli americani medi possono non essere meditativi o cupi o pensierosi. Possiamo non essere radicati in un passato profondo e misterioso. Ma di certo abbiamo la testa in un futuro vasto e complesso, e ciò dà al pensiero americano una grandezza che non viene facilmente capita o abbandonata».

Una visione idealista, ottimista, fiduciosa e, forse, poco realista.

 

Alessandra Sirianni

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 8, aprile 2008)

 

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