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Comunicazione e Sociologia (a cura di La Redazione) . A. XIII, n.141, giugno 2019

Zoom immagine E se i nazisti
avessero vinto?

di Adriana Colagiacomo
Per Delrai edizioni
una storia potente
con cui riflettere


«Io vi insegno il superuomo./L’uomo è qualcosa che deve essere superato./Che avete fatto per superarlo?/Tutti gli esseri hanno creato qualcosa al di sopra di sé/e voi volete essere il riflusso in questa grande marea/e retrocedere alla bestia/piuttosto che superare l’uomo? […]».
Inizia con questo passo tratto dal famoso Così parlò Zarathustra Rodion (Delrai edizioni, pp. 400, € 16,50), romanzo fantascientifico e ucronico della giovane Beatrice Simonetti, che riversa in queste pagine tutto l’orrore che solo un regime totalitario come quello nazista può suscitare. L’accrescimento del sé, l’affermazione della propria superiorità, sono alla base del concetto di superuomo, che il nazionalsocialismo fece proprio per operare lo scempio dell’umanità, da qui la scelta della citazione di apertura mutuata dall’opera di Nietzsche, che si rivela un’appropriata anticipazione di quello che il lettore si troverà davanti.
È un mondo alternativo quello che l’autrice immagina, un mondo freddo, crudele, dove a dominare è la follia e l’odio di chi è riuscito a vincere un grande conflitto e a imporre il proprio dominio su un popolo immobile e inerme, che accetta, più o meno a malincuore, un assolutismo che stringe in un’implacabile morsa tutto e tutti. Un vecchio Adolf Hitler al potere, una gioventù piegata e abituata a vedere nel diverso un nemico, educata a distinguere un umano da un subumano. Nessuna speranza di redenzione, un punto di non ritorno raggiunto e forse oltrepassato. Poi, una luce. La luce che, paradossalmente, splende, ancora troppo fioca, negli occhi di Edmund, detto “Ed”, e di Alatiel, sua amica di infanzia e faro per chi vede la morte dei campi di isterilimento, in cui anche Ed viene inviato in qualità di ufficiale, come premio per essersi distinto agli occhi dei suoi superiori per coraggio e, forse, incoscienza. Quello che i suoi superiori non immaginano, però, è che ciò che guida l’agire di questo giovane tedesco non è tanto l’obbedienza cieca al regime, quanto l’intima e, probabilmente non ancora messa del tutto a fuoco, consapevolezza che nessuna vita valga più di un’altra. Una ribellione latente, interiore, difficile da riconoscere per un giovane cresciuto a pane e Mein Kampf, eccetto che per la strana e inspiegabile angoscia da cui viene pervaso quando guarda il mondo intorno a sé. E poi c’è Alatiel, vero balsamo salvifico per un animo inquieto come il suo, le cui parole rappresentano praticamente ogni cosa in un universo sterile di speranze.

La bellezza della catarsi
Non sarebbe sbagliato definire questo articolato racconto come catartico.
Catarsi, quel processo di purificazione che proviamo quando siamo di fronte a qualcosa in cui ci identifichiamo e che ci aiuta a buttar fuori, letteralmente, le nostre più profonde passioni come la rabbia o la gelosia permettendoci, in un secondo momento, di sentirci più leggeri. Più puri, appunto. Un incendio scoppiato in un teatro gremito di nazisti, oltre a suggerirci immagini e tarantiniane reminiscenze, ci fa provare un piacere momentaneo, un appagamento effimero ma reale. Ci libera, anche se brevemente, di quella rabbia e di quella frustrazione mai appagate perché nessuno mai ha osato ribellarsi a tanta folle crudeltà.
Mai come nel momento storico attuale si ha bisogno di riflettere sul concetto di umano e subumano. Questo romanzo offre lo spunto necessario per farlo.
Per riflettere, ancora una volta, sul fatto che siamo tutti uguali e che, per fortuna, non esistono più, almeno formalmente, leggi razziali a legittimare abusi e violenze nei confronti del diverso (che poi, diverso da chi?): è un dato di fatto. Ma è realmente così? Siamo realmente lontani anni luce, così come determinati avvenimenti storici talvolta ci sembrano, da questi orrori perpetrati ai danni dei più deboli o indifesi? Alla luce di ciò che, purtroppo, quotidianamente apprendiamo dai media non possiamo dirci distanti poi così tanto da distinzioni e discriminazioni. Esistono ancora umani e subumani. Esiste ancora l’idea del superuomo che trova il massimo appagamento nell’affermazione di sé e nel superamento dei propri limiti. E che questo avvenga a danno del prossimo pare non essere un problema. O, perlomeno, se un problema esiste, non è certamente suo.
Un barlume di speranza
Qualcuno ha detto come ogni romanzo, ogni racconto, sia un viaggio. Un viaggio nella storia di altri, nei luoghi di altri, da cui si torna, una volta chiuso il libro, con un pezzo in più. Arricchiti di qualcosa. Vale la pena di sentire il freddo delle strade di Dresda o di immergersi nel grigiore e nel gelo dei campi di isterilimento. Vale la pena di sentire l’angoscia dei prigionieri sovietici pulsare sotto la pelle e arrivare a stringere la gola di fronte a un fucile spianato o di sentire tutto il cieco terrore di un bimbo di nome Rodion, che dà il nome al romanzo, sotto i cui occhi è stata appena sterminata l’intera famiglia. Occhi che non saranno più gli stessi e che non guarderanno più il mondo come un tempo. Vale la pena addentrarsi in una storia ben scritta, dalla prosa scorrevole e dai dialoghi convincenti, come solo un’autrice colta, sensibile e straordinariamente capace può fare perché una volta concluso il viaggio e chiuso il libro si porta con sé quel barlume di speranza che l’autrice stessa augura a ciascuno dei suoi lettori.

Adriana Colagiacomo

(www.bottegascriptamanent.it, anno XIII, n. 141, giugno 2019)

Collaboratori di redazione:
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi
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