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Anno II, n° 8 - Aprile 2008
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Comunicazione e Sociologia (a cura di Pierpaolo Buzza) . Anno II, n° 8 - Aprile 2008

È sempre più complicato
lavorare e vivere al Sud:
i travagli di un ingegnere
costretto ad andare via

di Andrea Vulpitta
Tra fantasia e autobiografia, un volume
Geva Emozioni narra la triste vicenda


L’emigrazione dalla Calabria, così come da tutto il Mezzogiorno d’Italia è, ahinoi, fenomeno antico, conosciuto e studiato fin dalle prime ondate agli inizi del Novecento: negli anni ha cambiato faccia e strumenti, ma rimane uno dei fattori più tristi di questa regione. Perché fuggire dalla Calabria, un testo scritto a quattro mani da Nicola Giovanni Grillo e da Alessandra Tucci (edizioni Geva Emozioni, pp. 222, € 13,00), racconta la storia di un emigrato moderno, che non sceglie di andare via, ma fugge dalla Calabria dopo aver tentato in mille modi di rimanerci. Gli autori, con chiara impostazione autobiografica (Nicola Giovanni Grillo è un poliedrico ingegnere calabrese, fuggito a Roma, che si occupa di problematiche ambientali), affidano alla figura di Domenico, giovane calabrese originario di un inesistente paese di nome Fugato il racconto della sua esperienza di vita, attraverso un viaggio in treno dalla Calabria verso Roma, in compagnia di un turista che (per pura coincidenza si chiama anche lui Domenico), nei suoi pochi giorni di vacanza ha potuto cogliere poco della Calabria con le sue magagne nascoste.

 

Dagli uliveti alla Svizzera per guadagnare qualcosa

L’emigrato racconta di tutti i suoi dispiaceri, dal primo viaggio per fare qualche soldo in Svizzera da adolescente allo strano atteggiamento dei suoi paesani che scelgono di erigere un monumento per i caduti della Prima guerra mondiale, ma respingono i figli emigrati, quasi a dimenticare come le loro rimesse, insieme a qualche pensione di invalidità raccattata a destra e sinistra grazie a qualche politico compiacente, rappresentino un’indispensabile fonte di sostentamento dell’intera comunità. Racconta Domenico, tra il rancore e la nostalgia della sua giovinezza, di quando ancora bambino aspettava il caporale per andare a raccogliere le olive e guadagnare qualcosa, e chiede al suo interlocutore, questa volta con rabbia, se a lui pare normale che nelle case, in tutte sia chiaro non solo nella sua, si facessero due pesi e due misure nei confronti dei figli: al primogenito erano concessi tutti i privilegi, quali poter continuare gli studi, avere il letto più comodo, e anche il miglior appezzamento di terreno in eredità. Sembra il racconto di un secolo fa quando testimonia, non senza una punta di imbarazzo, come anche oggi si rivolga al padre ultranovantenne dandogli del Voi e della distanza abissale con la mamma che non ha capito ancora il lavoro del figlio e lo chiama solo per dettargli gli indirizzi delle famiglie del paese colpite da un lutto.

 

L’unico strumento dell’economia calabrese: costruire

Racconta Domenico dello sviluppo del suo paese, immaginando che una mattina i politici locali si siano svegliati e abbiano visto nel fondo del caffè la luce dello sviluppo per la comunità di Fugato: le case. Bisognava costruire le case per i figli, per la dote delle figlie, per far ripartire l’asfittica economia della comunità. E così mentre le case crescevano e i muratori locali erano anche ingegneri e architetti si iniziavano case, spesso non finite, brutte, architettonicamente inguardabili, senza nessun riferimento a canoni estetici; emblematico è il ricordo di quando, fresco di laurea, protestò nei confronti del segretario comunale per non avergli dato incarico di progettare la sua casa e il segretario gli rispose che mai avrebbe potuto dare tale compito ad un giovane professionista che non avendo avuto la possibilità di guadagnare con l’amministrazione comunale, difficilmente avrebbe progettato gratuitamente una nuova abitazione.

La politica, specie quella locale, rappresenta uno dei maggiori blocchi alla diversità di pensiero e di opera nel suo paese. Gli stessi candidati, lo stesso sindaco per anni e anni, con le stesse politiche poco democratiche e all’insegna del non disturbare il manovratore, sono fenomeni in cui l’autore si imbatte ben presto e scopre come l’irregolarità e le gestione privatistica della casa comunale rappresenti un cancro per il suo paese. Descrive il sentimento di frustrazione quando guadagnate le prime cinquecentomila lire, convinto di aver diviso il compenso con un collega più anziano, scopre che in realtà la cifra non fosse altro che il dieci per cento dell’intera parcella e si interroga: io sono libero professionista, ma libero da che? Non certo dal compromesso, dall’inganno dalla richiesta di firmare il falso. Le ha tentate davvero tutte l’ingegnere ad agire da persona normale e onesta, si è speso in tutto e per tutto per il suo paese, ha creduto di poter lavorare su progetti vagliati dalle autorità statali per accedere ai finanziamenti, ma si è arreso davanti all’incapacità di comprensione di una classe dirigente che comprende solo il comandamento del Dio denaro e disconosce la forza dello sviluppo in un modo di agire limpido e volto all’interesse di un’intera comunità.

 

La Calabria e i calabresi: uno strano rapporto di amore e odio

Si è arreso l’ingegnere, dopo aver finanche costretto la moglie a trasferirsi in Calabria, quando, pur non cedendo alle intimidazioni delle autorità, ha subito l’attentato al padre, colpito con un colpo d’arma da fuoco in campagna dove tutta una vita aveva lavorato con onestà e sacrificio permettendo anche ad un giovane figlio di conseguire la laurea in Ingegneria. La triste considerazione e l’amaro in bocca che lascia la lettura di questo testo è racchiuso nella consapevolezza del doppio rapporto di amore e odio, tanto vivo in moltissimi calabresi, che non riescono mai a staccarsi definitivamente dalle proprie radici, ma che allo stesso tempo non trovano alternativa a fuggire da una terra che appare matrigna.

 

Andrea Vulpitta

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 8, aprile 2008)

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