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A. XII, n 125, febbraio 2018
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Problemi del lavoro (a cura di La Redazione) . A. XII, n 125, febbraio 2018

Zoom immagine La confessione
di un corruttore

di Maria Chiara Paone
Da Pellegrini Editore, il libro di Alberto Di Nardi
prefato dal giornalista e saggista Pantaleone Sergi


In letteratura esiste una figura particolare e abbastanza utilizzata dagli scrittori, quella dell’antieroe, personaggio che, sebbene sia il protagonista della vicenda principale, non possiede una rosa di caratteristiche totalmente positive anzi, al contrario, ha la sua buona dose di debolezze.
Questo non è da considerarsi un difetto ma come un’occasione, tramite la propria umanità, di creare un legame con il lettore che in certi casi, nell’opinione di chi scrive, può risultare più forte di quello che si può instaurare con un eroe tradizionale; basti pensare, per esempio, allo Zeno Cosini della famosa Coscienza o a Don Chisciotte della Mancia.
Tuttavia ne Il corruttore (Pellegrini Editore, pp. 130, € 12,00), libro che fa parte della “scuderia” di Bottega editoriale, non si tratta di combattere dei fantomatici mulini a vento o di sconfiggere il vizio del fumo, ma di questioni realistiche e ben più problematiche.
L’autore è di fatto Alberto Di Nardi, giovane imprenditore casertano ed ex amministratore delegato della Dhi – società che si è occupata, tra le sue funzioni, dell’opera di raccolta dei rifiuti nel comune di Maddaloni e non solo, arrestato nel 2016 perché accusato, appunto, di corruzione e ora divenuto collaboratore di giustizia.

Una storia, purtroppo, vera
La storia è, come si può immaginare, estremamente personale: un enfant prodige che, laureatosi a pieni voti in Economia, si ritrova a lavorare per aziende importanti, tra cui l’Eni, per poi scegliere di accettare la proposta del padre e di mettere a servizio la propria esperienza nell’azienda di famiglia, finendo però, dopo un primo successo, in una spirale discendente che lo porterà alla custodia cautelare prima e agli arresti domiciliari poi.
L’autore, nel raccontarsi, decide di utilizzare una linea temporale il più possibile chiara e che tenda a spiegare le situazioni che lo hanno portato a simili azioni e lo fa tramite le sensazioni che lo hanno guidato in ogni specifico momento.
Si inizia dall’illusione, che lo coglie da studente e da lavoratore, di poter emergere nel vero mondo, a discapito della «mappa delle raccomandazioni» e del pregiudizio, ancora molto forte, per cui essere del Sud vuol dire essere nulla; un dubbio che gli fu subito confermato da uno dei suoi precedenti capi che messo alle strette gli chiese: «Ma tu sul serio credevi di venire da uno sperduto paesino del Sud a fare carriera qui?».
A quell’emozione così negativa si contrappone uno spirito uguale e contrario, dettato dall’ambizione di poter essere a capo di una newco sulla raccolta dei rifiuti, svolgendo finalmente un servizio che prima era gestito dalla camorra; di avere le capacità necessarie per poter risollevare il sud Italia dall’interno, anche grazie al sostegno di collaboratori e amici, come il direttore generale del Consorzio unico di bacino. Un personaggio, quello del direttore, che passerà dall’essere importante sostegno per l’attività e i rapporti con la pubblica amministrazione a divenire la causa principale dei mali del protagonista, come autore della denuncia.
Si arriva così, per Di Nardi, alla delusione: sia per aver riposto la propria fiducia nelle mani di personalità che di peccati ne avevano commessi almeno quanto lui, che nei confronti di se stesso e degli errori compiuti.
Come egli dichiara «La mia distruzione era stata pianificata da qualcun altro molto più potente che aveva iniziato ad avere paura di ciò che stavamo compiendo dal punto di vista imprenditoriale e sociale. […] La mia delusione consiste proprio nel fatto di essermi lasciato intimorire dai molti personaggi che mi prospettavano “catastrofiche reazioni” per me e per la mia azienda se non avessi dato mazzette a politici, sindaci e amministratori pubblici».

Giustificazione o motivazione?
Si potrebbe pensare che quest’opera di scrittura non sia altro che un tentativo estremo per arrivare ad un’assoluzione, ma non è questo il caso. Infatti l’autore si prende in toto le sue colpe ma non intende essere l’unico colpevole e capro espiatorio, in una realtà in cui, a volte, lo Stato stesso non crea la possibilità di essere onesti e di fare, di conseguenza, la cosa giusta: «Noi saremmo stati ben lieti di acquisire un appalto tramite regolare gara, tuttavia la legge voleva altro e quindi vivevamo di proroghe senza alcuna certezza di continuità».
La lettura porta quindi in una zona grigia della legalità in cui un giovane padre, un giovane imprenditore, si può ritrovare con le spalle al muro e ponendoci di fronte a un quesito etico: «Allora adesso, se permettete, una domanda la faccio io! Se foste voi l’imprenditore o il manager dei fornitori, non fareste di tutto per salvare la vostra azienda e i dipendenti, anche se questo potrebbe voler dire scendere a ogni compromesso?».

Un’opera atipica
È necessario inoltre soffermarsi sul tipo di libro che abbiamo dinnanzi; come sottolinea Pantaleone Sergi, che ha curato la Prefazione, si tratta di «un libro strano», difficile da collocare in una sola e semplice categoria.
Di Nardi decide di unire due generi molto diversi tra loro, la saggistica e la narrativa; gli argomenti trattati, con l’uso di una terminologia adeguata e anche di una bibliografia puntuale di articoli riportati all’interno del testo, sarebbero da considerarsi materia di un saggio specifico, persino utilizzabile all’interno di un corso universitario; ma lo stile è senza dubbio tipico del romanzo autobiografico, essendo presenti un’autoanalisi approfondita e l’eviscerazione di un forte sentimentalismo, attraverso l’amore per la sua famiglia e, nonostante tutto, il suo paese.
Sull’attendibilità o meno dei fatti così raccontati, che si potrebbe rimproverare all’autore proprio a causa di questa scrittura di cuore, prenderemo in prestito sempre le parole utilizzate da Sergi, in cui si riflette sul bisogno di una catarsi, anche letteraria, con la quale Di Nardi «sente la necessità di far conoscere la propria verità che non è detto debba essere considerata assoluta. Ma, d’altra parte, c’è qualcuno in grado di scrivere una verità assoluta, che sia anche un giornalista o un magistrato? […] la verità è sempre una visione di parte degli eventi, letti con le proprie lenti, scritti secondo la propria visuale, filtrati dalla propria cultura e pure dalle proprie emozioni».
Con questa affermazione vi lasciamo riflettere e vi invitiamo a verificare personalmente la questione… come, direte voi?
Acquistando il libro, ovviamente!

Maria Chiara Paone

(bottegascriptamanent, anno XII, n. 125, febbraio 2018)

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