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A X, nn 101/102, gen/feb 2016
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Comunicazione e Sociologia (a cura di Vilma Formigoni) . A X, nn 101/102, gen/feb 2016

Ormai cliché
cristallizzato

di Cesare Pitto e Claudio Dionesalvi
I vari volti dei rom
tra ieri ed oggi.
Un ebook Teomedia


Il pregiudizio diffuso nei confronti di una controversa minoranza quale quella dei rom – tradotto nell’ennesimo stigma della criminalità e mafiosità – caratterizza lo scenario sociale degli ultimi tre decenni. Questo luogo comune, infatti, si palesa ciclicamente nei numerosi misfatti commessi, che contribuiscono ad etichettare lo zingaro come il «deviante per antonomasia».
Partire da episodi di vita passata, ma non poi così tanto lontani dai nostri giorni, attraverso un lavoro volto alla ricerca sociologica, con l’obiettivo di dare fondamento a pregiudizi ereditati dal passato e ben radicati nella modernità. È questo il lavoro svolto da Francesco Caravetta nell’ebook I caminanti. Quando gli zingari rubavano le galline (Teomedia, € 4,99).
Due notevoli apparati accompagnano il testo: la Prefazione di Cesare Pitto – docente di Antropologia culturale –, che ci invita a seguire la traccia dell’autore nello scorrere gli atti giudiziari del panorama sociale meridionale; e l’Introduzione del giornalista Claudio Dionesalvi, che si propone di investigare come, su migliaia di famiglie rom oneste, venga scaricata la colpa di crimini organizzati «che sono bastati a condannare in eterno un’intera popolazione dagli occhi orientali e dalla pelle scura».
Qui di seguito riportiamo le rispettive porzioni testuali.

Bottega editoriale


Prefazione
Il manifestarsi di un problema, quello degli zingari, che ciclicamente ritroviamo nelle cronache giudiziarie delle nostre città, prospettato spesso come fosse una calamità nazionale, anche se la maggior parte dei fatti denunciati loro ascritti non superano quasi mai il dato elementare di una piccola o piccolissima criminalità, che si compie per lo più attraverso il raggiro ed è interpretabile nei termini di una scelta necessaria per la sopravvivenza.
Di fatto, l’insistenza nel descrivere gli eventi delittuosi riferiti agli zingari conferma quanto sia consolidata la percezione comune del fenomeno delinquenziale di questa categoria di gruppi umani e di come, per ciò stesso, sia fatto obbligato metterla ai margini e individuarla come parafulmine per ogni fatto deviante per antonomasia.
Questa interpretazione trova sollecitazioni già nel risvolto di copertina: “Io ho denunziato il fatto perché non si dicesse che li avevo rubati io con gli altri zingari”. Scaricare la responsabilità sugli zingari, cioè, diventa la soluzione che tacita le coscienze. In molti casi controversi, infatti, si rileva il costante reiterare un luogo comune che investe in modo ingeneroso tutta la popolazione zingara.
Questa controversa minoranza occupa sovente le colonne di cronaca dei quotidiani locali e nazionali e molte volte i fatti vengono espressi con giudizi palesi, che esulano dal semplice diritto di informazione.
Forse è proprio per questo che è interessante seguire la traccia individuata dall’autore nel suo scorrere gli atti dei reati che hanno caratterizzato le aule di giustizia del tribunale di Cosenza in diversi momenti della sua storia, dedicando una certa attenzione a questo fenomeno non estraneo al corpo sociale, ma fino a qualche anno fa limitato a quello che effettivamente rappresentava nel panorama sociale, che sembrano, e forse sono, alquanto lontani.
Quando gli zingari rubavano galline” è il felice titolo di questa enumerazione di fatti veri, ma carichi di un significato di lotta marginale per la sopravvivenza, che si possono ricondurre ad alcune tipologie dell’eterna lotta della quotidianità per l’esercito degli esclusi.
Le presenze sono la capacità attribuita agli zingari di indovinare il futuro, la magia con il relativo scioglimento di malefici, come il malocchio, il ritrovamento di un tesoro, o l’acquisizione di una fortuna (piccola), la liberazione da un congiunto fastidioso e, poi, appunto tutta una serie di furti, per lo più di bestiame, con particolare predilezione per gli animali da soma. Questa congerie di piccoli fatti e misfatti necessitava della credulità dei malcapitati frequentatori e dell’abilità degli operatori, che, però, finivano sovente nelle maglie della giustizia che ne conteneva gli effetti dannosi.
La descrizione dei fatti, che poco indulge al colore degli eventi in sé, forse fatta esclusione per i casi di predizione esibiti dalle zingare, che dal popolo sprovveduto “sono ritenute esperte nelle arti magiche”, si muove agilmente attraverso le relazioni giudiziarie indagando uno spaccato di società che mostra chiari spunti di credulità verso un destino migliore, o facili scorciatoie per una raggiunta sicurezza.
I titoli, per mezzo dei quali vengono riuniti i fatti delittuosi, sono tutti riconducibili all’ambito familiare, mentre prende un diverso aspetto il settore che racchiude la tipologia dei “furti”, soprattutto di animali, che colpiscono maggiormente l’immaginario collettivo, impoverendo il patrimonio vivente della comunità. Così, dalla sparizione del pollame al furto di asini e pecore, il depredato si confronta con l’evento, sempre al limite di azioni che possono rivelarsi cruente e la mediazione delle forze dell’ordine, talvolta, è necessaria per evitare l’irreparabile (sic).
Molti di questi fatti si presentano agli occhi dei malcapitati con lo spettacolo sconfortante della stalla vuota e del pollaio depredato, cosicché il malcapitato proprietario si sente, oltre che depauperato, tradito nella fiducia che lui riservava al suo ambiente. Questo fattore rappresenta il risvolto ideologico, che si è riservato alla società contadina (o paesana), secondo il quale “si potevano lasciare le porte di casa aperte, tanto non succedeva nulla”. Probabilmente questo fatto non è mai stato vero, solo che non vi era nulla che valesse la pena di sottrarre alla cupidigia dei vicini.
La presenza degli zingari nelle contrade – inizialmente accettati per la loro maestria nel riparare gli oggetti delle fattorie (in particolare per l’abilità nell’aggiustare le caldaie di rame) in cambio dell’antica usanza di prendere ciò che loro era utile – veniva percepita piuttosto come una condizione di pericolo: un gruppo di razziatori che si appropriavano dei beni altrui.
Di fatto, l’atteggiamento della falsa questua, che mascherava il disprezzo per i gaggi, il prevedere il futuro e la successiva appropriazione indebita dei beni materiali – con specifico riferimento, per lo più, agli animali da soma, che configura le prime forme di abigeato – viene per lo più fatta su commissione di una illegalità che approfitta delle estreme condizioni di subalternità. Il ricorso a questo esercizio criminale si immette in un tessuto sociale nel quale era ancora possibile tenere sotto controllo la devianza marginale, che, pur alimentando un’aura di illegalità verso gli zingari, riusciva a rendere ammissibile il loro comportamento per la dabbenaggine dei loro depredati.
Il sistema di raccolta dei fatti narrati è scandito dalle situazioni che più genericamente sono state incontrate dall’autore nella raccolta degli atti e sono state ordinate in un crescente armonico, che percorre tutto lo scenario sociale, con titoli che sembrano rappresentare le voci di un catalogo per argomenti: le indovine, le false identità, le risse, affari di famiglia e i furti.
Nello scorrere i diversi eventi si scopre che dall’inganno al furto con destrezza si procede verso atti di violenza veri e propri, fino all’uso delle armi da fuoco non a scopo intimidatorio, ma utilizzate per uccidere.
Al nostro storico, impegnato nell’analisi dei documenti, poi, non può sfuggire la novità! Ed infatti, a conclusione dell’atto Per un po’ di erba, annota: “È la prima volta che si spara sul serio per uccidere”.
La condizione marginale, la convivenza con una realtà estremamente misera e la percezione di essere poco amati dal circondario non potevano che alimentare unaescalation reale, o presunta, di una spirale di ostilità e di colpevolezza verso questo popolo, con il quale si condividevano le sorti di una vita quotidiana fatta di ricorrenti incertezze. Il tempo avrebbe fatto il resto, rendendo insanabile la conflittualità della convivenza con glialtri, rendendo queste figure, che mantenevano ancora un loro carattere picaresco e una condizione di piccola devianza, tutto sommato tollerabile, definitivamente fuori controllo, per cui diventavano facilmente preda della malavita organizzata e, a loro volta, potevano tentare di salire la scala sociale del benessere, attraverso la pratica di una illegalità ben più feroce e temeraria.
Operare la scelta di pubblicare un volume, partendo da impersonali atti d’archivio, costituisce certamente un’operazione ricca di curiosità e di spaccati di un mondo scomparso forse troppo velocemente, ma anche un interessante tentativo di riportare alla luce fatti e misfatti che, pur nella loro rozzezza, disegnano un mondo più semplice, dove i termini di un’azione fra la gente, seppur illegale, era ancora in qualche modo sopportata e controllabile.

Cesare Pitto

Introduzione
Oggi sono gli spam, l’algoritmo di facebook, i call center e le televendite a pilotarci. Fino al secolo scorso era l’immagine delle donne rom a presidiare la porticina che nel cervello spesso si apre e ci rende vulnerabili dinanzi alla persuasione occulta. Ma al contrario degli zingari, vittime di pregiudizi antichi e incarnazioni di quella robusta dose di male che preferiamo immaginare estraneo alle nostre esistenze, dell’invadenza dei persuasori digitali fingiamo di non essere consapevoli.
Preferiamo lasciarci dirottare verso scelte e consumi indotti, così compiamo azioni in apparenza vacue, ma in realtà molto remunerative per le multinazionali. Gesti che conferiscono una cittadinanza illusoria nel supermercato globale che ci ospita. Eppure gli zingari, nonostante di fatto siano stati sostituiti da ben altre entità ipnotiche nel ruolo di persuasori fraudolenti, anche per effetto delle robuste campagne politico-mediatiche a loro danno continuano a rappresentare una catartica ossessione per la società occidentale. Al ruolo di presunti ingannatori incalliti si sono aggiunte xenofobe leggende urbane che li dipingono come sequestratori di bambini nei centri commerciali e ladri di lenzuola appese ai balconi. Se in giro ci fosse ancora una qualche peste bubbonica da diffondere, di sicuro si attribuirebbe a loro persino questa malefica facoltà, retaggio di un medioevo da cui fatichiamo a uscire.
Sono state pure le recenti trasformazioni interne ai meccanismi di funzionamento della ’ndrangheta, perlomeno quelle avvenute negli ultimi tre decenni, ad appioppare ai rom l’ennesimo stigma, quello della mafiosità. Le scelte criminogene di pochissimi zingari sedentarizzati, prima arruolati dalle ‘ndrine come manovalanza e poi battezzati dalle medesime per meriti conquistati sui campi di battaglia delle faide, sono bastate a scaricare su migliaia di famiglie rom oneste il fardello dell’ennesima presunta colpa, quella di essere tutti dei criminali organizzati.
Il problema dunque non è il male, ma la percezione che ne abbiamo. Un sistema fondato sull’ansia e la paura, il sistema in cui viviamo, non poteva non innescare inediti pregiudizi che sommandosi a quelli del passato remoto e recente, confinano i senza-patria in un inferno simbolico. Gran parte di questa tragedia la scrive l’ignoranza diffusa, che in barba ai social media e alle loro potenzialità, dilaga irrefrenabile. Poche settimane fa è piombata nelle cronache la vicenda di una signora italiana che per curare un figlio autistico lo ha portato dall’esorcista. Costui, nel tentativo di liberarlo dal demonio, lo schiaffeggiava in maniera continuata e violenta. Un ragazzino autistico schiaffeggiato a scopo curativo, nel 2015! Resasi conto dell’inadeguatezza di tale “approccio terapeutico”, la donna non ha consultato subito uno specialista. Ha deciso di condurre il proprio figliolo da un altro esorcista. Ed è stato quest’ultimo, per fortuna, a consigliarle di rivolgersi a un neuropsichiatra.
Somigliano a questa vicenda le storie narrate da Francesco Caravetta nel presente volume, ambientate in un passato prossimo immanente in tutta la sua ombrosità. Protagonisti, ma soprattutto vittime benché non lo siano a prima vista, sono i rom, anzi le donne rom. Si tratta di storie vere, ripescate dagli atti giudiziari ufficiali. In virtù della pazienza e della professionalità che solo un ricercatore certosino come Caravetta poteva impiegare, i racconti testimoniano le origini culturali del pregiudizio moderno nei confronti di queste persone, responsabili di piccoli reati che sono bastati a condannare in eterno un’intera popolazione dagli occhi orientali e dalla pelle scura. Sono storie che confermano quanto fosse complesso il rapporto tra raggirati e raggiratori. Sia oggi che all’epoca dei fatti ricostruiti in questo libro, molti rom si arrangiavano, sopravvivevano come potevano. Ci si rivolgeva a loro per la risoluzione di una gamma vastissima di problemi. Si attribuiva alla zingara virtù taumaturgiche. E siccome, a prescindere dalle origini etniche, allora come adesso chiunque venga investito di cotanta potenza non avrebbe motivo di non sfruttare tali presunti prodigiosi poteri a proprio vantaggio, in quelle vicende prendeva forma una relazione di reciproca subordinazione da cui era difficile sfuggire. Da quel perverso gioco di ruolo non potevano sottrarsi né le vittime né i carnefici. Da sottolineare che in quasi tutti gli episodi riportati nelle sentenze, è sempre la vittima a offrirsi spontaneamente alle donne rom. Emergono dei tratti ricorrenti in ogni storia, veri e propri modelli narrativi, a voler segnalare la struttura di un canovaccio che ogni volta si riconferma. C’è sempre un involucro magico che catalizza le disgrazie e trasfigurandosi diventa corpo del reato, prova tangibile del fatto che un “crimine” è avvenuto sul serio, pur apparendo inverosimile. Gli uomini sono pressoché assenti, agiscono sempre figure femminili. Non si verificano quasi mai gravi fatti di sangue. I fessacchiotti che si intrappolano nei tranelli delle raggiratrici, manifestano vuoti della personalità ben più gravi della semplice ignoranza. Spontaneo diviene per il lettore eretico immedesimarsi, fare il tifo per le truffatrici, restare incredulo di fronte alla barcollante veridicità dei report giudiziari, a volere ribadire, caso mai ce ne fosse ancora bisogno, che sotto sotto qualsiasi essere umano che ami la vita e la libertà, dentro di sé coltiva il sogno laico di vivere almeno per una volta nei panni di un rom.

Claudio Dionesalvi

(bottegascriptamanent, anno X, n. 102, febbraio 2016)

Redazione:
Ilenia Marrapodi
Collaboratori di redazione:
Elisa Barchetta, Roberta Brando, Francesca Erica Bruzzese, Maria Laura Capobianco, Cinzia Ceriani, Paola Cicardi, Guglielmo Colombero, Gabriella De Santis, Teresa Elia, Federica Fabrizi, Annamaria Lacroce, Giuseppe Licandro, Costanza Lindi, Irene Nicastro, Maria Chiara Paone, Giulia Tedesco, Andrea Vulpitta
Curatori di rubrica:
Selene Miriam Corapi, Mariacristiana Guglielmelli, Aurora Logullo, Rosina Madotta, Manuela Mancuso, Elisa Pirozzi, Francesca Rinaldi, Letizia Rossi
Progetto grafico a cura di: Fulvio Mazza ed Emanuela Catania. Realizzazione: FN2000 Soft per conto di DAMA IT