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A. XVIII, n. 199, aprile 2024
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Dibattiti ed eventi (a cura di Selene Miriam Corapi)

Una libreria magica
e un personaggio unico;
la bellezza dell’arte
per incentivare la lettura

di Marco Fortuna
Un racconto breve che con immediatezza e semplicità aiuta a riscoprire
Il fascino nascosto delle parole, che possono aiutare a cambiare il mondo


George era un uomo bizzarro, sull’ottantina, con dei capelli bianchi raccolti in una piccola coda bassa sulla nuca. Vestiva sempre abiti eccentrici che mettevano in risalto i suoi occhi grandi e azzurri; limpidi e profondi. Aveva messo su quella libreria con le sue sole forze, spinto da quella passione per la letteratura e l’arte che ancora oggi continuava ad animargli l’anima e il cuore.
Ogni giorno si aggirava nella sua libreria come se fosse un segugio in perlustrazione; c’erano libri accatastati ovunque, sugli scaffali a muro su fino al soffitto, sugli sgabelli, sui tavoli, raggruppati per fasce di prezzo dentro cassette di plastica. Ma quella non era solo una bottega dove si vendevano libri, quella era anche la casa del vecchio. Sviluppato su tre piani l’edificio serviva anche come ostello per artisti e scrittori squattrinati in cerca d’alloggio e di un posto dove leggere, scrivere e condividere con altri i propri pensieri.
In cambio dell’ospitalità George chiedeva ai suoi ospiti di scrivere una biografia, una poesia, oppure chiedeva loro di fare dei piccoli lavoretti domestici, come cucinare, spolverare e riassettare il disordine nelle varie stanze o, ancora, di lavorare come commessi nella libreria. Così, nel corso degli anni, molti viandanti passarono lì la notte, dormendo nelle camere da letto per gli ospiti o su dei vecchi divani o dentro i loro sacchi a pelo. Qualcuno si fermava per una notte soltanto, altri rimanevano per delle settimane in quel luogo dove sembrava che il tempo si fosse fermato e dove ogni cosa, persino la più banale, sembrava acquisire un significato diverso e mai sperimentato.
George non usciva quasi mai, spesso mandava sua figlia a fare le commissioni mentre lui restava a guardare il mondo dalla finestra, in silenzio, incuriosito da qualsiasi cosa, come un gatto che spazia lo sguardo e scruta.
Poi tornava a occuparsi dei libri e degli ospiti. Questi ultimi venivano trattati a seconda della simpatia che George provava per loro: con alcuni era molto affettuoso e gentile, con altri era autoritario, li rimproverava per tutto. Molti di quelli che soggiornavano da George erano attratti da quel posto, avevano l’impressione di essere traghettati in un altro mondo, imbarcati su una nave comandata da uno strambo capitano. Non sapevano quale fosse precisamente l’esperienza che li aspettava, ma erano giovani e proprio per questo la cosa non aveva, poi, molta importanza.
George diceva: «Ho creato la libreria come fossi uno scrittore che scrive un romanzo e ogni stanza ne rappresenta un capitolo. Mi piace aprire la porta alla gente come se aprissi loro un mio libro, un libro che conduce in un mondo magico, dentro la loro immaginazione».
La mattina, al primo ragazzo che trovava sveglio, George chiedeva una mano per preparare la colazione. La cucina era un bugigattolo rettangolare con un piccolo fornello, un piccolo lavello, pochi pensili e poco cibo, pentole e bicchieri sporchi ovunque. Gli altri ospiti, sentendo il profumo di frittelle e caffè, si alzavano per raggiungere i commensali e consumare insieme la colazione. A questo George teneva molto, mangiare sempre tutti insieme e condividere così la vita all’interno della casa.
Finito di mangiare, ognuno iniziava la propria giornata: alcuni, su richiesta di George, aprivano la libreria al pubblico e rimanevano per servire i clienti, altri uscivano per fatti propri e per poi fare ritorno verso l’ora di pranzo o la sera per dormire e altri ancora, invece, si mettevano a scartabellare tra i tanti libri di George che avevano a portata di mano trascorrendo così molte ore del giorno, a leggere e curiosare.
George girava per la libreria, da un piano all’altro, instancabile. Ogni tanto si fermava davanti a scaffali sui quali c’erano libri impilati, poi iniziava a spostarli, sparpagliandoli con gesti di stizza. I libri scivolavano gli uni sugli altri quasi come corpi svenuti; alla fine, se si accorgeva di essere osservato, quasi come a giustificare se stesso e quella strana ricerca, fingeva d’aver ritrovato un libro che cercava da chissà quanto tempo, si fermava a rimirarne la copertina per qualche istante, faceva poi un piccolo sbuffo e iniziava a rimettere a posto i libri in disordine, tutti in fila per bene, aggiustandoli infine con dei colpetti del dorso della mano. Prima di ripartire per la sua ronda scuoteva leggermente la testa in segno di disapprovazione dicendo:
«Troppi libri, troppi libri!».
George era certamente un eccentrico, anzi era un taccagno eccentrico, quel tipo di persona che ti può stupire e divertire sempre e comunque oppure rendere la tua convivenza con lui un inferno. Una di quelle persone che credono che mettere dei fiori di plastica in bella mostra, dentro una bottiglia di whisky vuota, possa servire da decoro all’ambiente.
Dalla sua apertura nel 1951 già più di quarantamila viaggiatori e scrittori avevano dormito nella bottega di George, a pochi passi dal fiume che attraversava la città, erano approdati proprio lì; a chi domandava a quel vecchio perché lo facesse, lui rispondeva con una frase del poeta William Yeats, divenuta il motto di quel rifugio letterario: «Sii gentile con gli sconosciuti perché potrebbero essere angeli travestiti» e la stessa frase la si poteva ritrovare scritta su una parete della sua libreria, sopra l’architrave di una porta.
George pensava di poter essere utile in qualche modo a quei giovani, a volte diceva: «Le parole, le parole, i giovani devono trovare le parole per cambiare il mondo»; George li amava, amava davvero alcuni di loro, la loro gioventù, il loro canto d’immortalità al quale lui si univa. Accogliendoli nel suo mondo, voleva condividere con loro piccoli istanti preziosi e ricordi infiniti. Talvolta diceva: «Volete ascoltare la mia poesia preferita, scritta da me? Oh mio Dio, è talmente tanto tempo che non la recito che credo a malapena di ricordarla!». Poi con lo sguardo fisso contro qualche parete, recitava fiero i suoi versi, con voce calma e malinconica.
Sempre con piacere e con un velo di commozione, raccontava le avventure della sua giovinezza e era difficile credere che tutte quelle peripezie fossero successe davvero a lui, che al contrario sembrava una lumaca rinchiusa nel suo guscio. George sembrava fuori luogo ovunque, tranne che in quella libreria; immaginarselo giovane, poi, era una gran fantasia; diceva che il suo più grande rimpianto era quello di non aver mai finito il giro del mondo. Raccontava che una volta si era unito a dei rivoluzionari del Sud America che volevano fare un colpo di stato in Honduras poi miseramente fallito; della successiva fuga a cavallo fino in Nicaragua, attraverso la giungla, recitando poesie per farsi coraggio mentre le scimmie gridavano in un modo così terribile da sembrargli addirittura tigri o leoni.
La notte poi cercava di dormire sulla spiaggia, il più lontano possibile dalla giungla e dai quei versi spaventosi; non avendo acqua sufficiente per tutto il viaggio, beveva rugiada dalle foglie degli alberi, oppure quando trovava un cocco, lo tagliava e ne beveva il latte. «Gli indios a un certo punto mi inseguirono e fu dura davvero!» diceva. Altre volte raccontava di essersi imbarcato in una nave diretta alle Hawaii.
«Ma ora… – concludeva – ora non viaggio più, la gente viene a farmi visita qui» e cadendo in una riflessione più profonda, dopo qualche istante di silenzio aggiungeva: «Il mondo intero è stato la mia scuola». Poi si girava verso la finestra e guardava le macchine passare o la gente chiacchierare sul marciapiede.
Alcuni ragazzi che si presentavano alla sua porta erano addirittura i figli di persone che a loro volta avevano soggiornato da George; erano lì perché i loro genitori volevano che facessero la stessa esperienza di condivisione che avevano fatto loro anni prima. George e la sua libreria rimanevano impressi in modo indelebile nel ricordo di tutti quelli che erano stati ospiti lì. Quella libreria era una specie di labirinto, dove c’erano libri comuni ma anche libri di valore, prime edizioni o copie autografate da autori che con il tempo sarebbero diventati importanti.
Tutto coesisteva insieme alla polvere, alle vecchie scarpe abbandonate sotto qualche mobile, ai tavolini pieni di monete sparse, penne biro, bottiglie di birra vuote, vecchie cartoline, lettere scritte a mano arrivate per corrispondenza tanto tempo fa. In quel labirinto, ognuno doveva trovare il proprio filo d’Arianna per orientarsi e per uscirne incolume.
Tutti gli ospiti di George dovevano rendersi utili e George ovviamente decideva come: lui sceglieva chi far lavorare di più e chi invece poco o niente. Gli scrittori di solito avevano solo l’obbligo di rifarsi il letto, mentre gli altri dovevano improvvisare e rimediare alle richieste più disparate di George. Una volta vidi una ragazza prendere della colla e spalmarla, con un cucchiaio, su un lembo di moquette che si era arricciato; per finire, con un ferro da stiro, ne lisciava gli angoli, poi ci saltellava addirittura sopra, sperando così che la colla facesse presa. Da George al piano terra dormivano i più giovani, mentre al primo piano dormivano le persone più grandi. Diverse volte era capitato che George, pranzando con gli ospiti, diceva: «Qui non ci sono regole, siamo una sorta di anarchici, ci basta poco, viviamo con poco e amiamo l’arte».
George da diversi anni ospitava una persona speciale; quando arrivò per chiedere un riparo era un disperato e un alcolizzato, era a pezzi e non cercava nemmeno più un lavoro. Nella sua famiglia d’origine lo consideravano la pecora nera. George lo aveva accolto, lo aveva incoraggiato a cambiare e da George stesso, quell’uomo aveva riscoperto il piacere della lettura, aveva iniziato a interrogare la sua coscienza molto a fondo; aveva anche iniziato a scrivere poesie e a tradurre autori stranieri, sconfiggendo l’alcool da solo. Quell’uomo si chiamava Michael.
«George è un romantico, – diceva Michael – ha una spiccata vena poetica, ma gli passa subito». Poi si faceva una risata pensando a George e ai suoi sbalzi d’umore.
La cosa più curiosa è che nessuno poteva dire di conoscere bene George e la sua personalità complessa. George aveva comunque un gran cuore, anche con i ladri, infatti quelle volte che scoprì qualcuno dei suoi ospiti a rubare i libri, non denunciò mai nessuno, diceva che non voleva mandare quei ragazzi in prigione a imparare a rubare davvero.
Certe volte George usciva di casa la notte, andava in qualche ristorante per raccattare gli scarti alimentari e cucinarli magari il giorno successivo per i suoi ospiti; si comportava come uno squattrinato, un disperato che viveva nell’indigenza. Di solito, succedeva poi, che qualche suo ospite o qualche cliente della libreria sfogliando un libro preso a caso da qualche scaffale trovasse al suo interno quarantamila euro nascosti e dimenticati lì da George da chissà quanto tempo.
«Ah sì! Ecco dove erano finiti!» diceva George prendendo i soldi e congedandosi rapidamente.
Avere a che fare con George non era facile e non vi erano raccomandazioni valide da seguire; in generale si sarebbe potuto dire questo: se eri gentile con lui allora lui ti trattava con freddezza; se eri aggressivo allora George con te usava modi gentili; se non riusciva a inquadrare subito il tuo carattere, allora iniziava a farti delle domande.
Alternava atti di vera generosità con atti di crudeltà. Una volta, durante un alterco, minacciò un tale con una padella citando quelle parole dello scrittore William Burroughs che, tante volte aveva fatto sue: «Nessuno è padrone della vita, ma chiunque sia in grado di sollevare una padella è padrone della morte».
Un’altra volta a un tipo aristocratico e raffinato George disse che aveva un lavoro per lui, poi con aria disinvolta si slacciò le scarpe, si tolse un calzino e lo diede al tipo dicendo: «Prendi questo, il gatto ha fatto la cacca sulle scale e devi ripulire, ma ricorda di lavare il calzino e di ridarmelo perché è il mio preferito».
Il tipo sorpreso allora chiese al vecchio: «George non capisco, perché sei arrabbiato con me?».
E George rispose: «È una prova di carattere mio caro, è una prova di carattere».
George si comportava abitualmente come se lui fosse l’autore di un libro e i suoi ospiti i personaggi.
«Rifai il letto; rimetti a posto quei libri su quello scaffale; c’è qualcosa che non va…; questi libri sono quelli in vendita a venticinque euro, non devi lasciarli qui, spostali nell’altra cesta; attento, devi spostarli ma non mischiarli; qui sta andando tutto a rotoli; verrò a ispezionare la tua stanza tra poco, mi raccomando rimetti tutto in ordine!». Poi, prima di uscire, sulla soglia della porta della camera, concludeva dicendo loro: «Comunque non dovrei dirvi queste cose» lasciando intendere che dovevano sentirsi umiliati per essere stati ripresi per delle cose elementari.
Davvero George faceva impazzire quei poveri ragazzi.
George girava in continuazione nella libreria, era come un animale che segnava il suo territorio e riconosceva solo il proprio perimetro d’azione, il mondo fuori non gli interessava più di tanto. Poi improvvisamente spariva, si ritirava nella sua stanza per starsene un po’ in pace e leggere, in compagnia del suo gatto e del suo cane.
Michael si sfogava di frequente con George dicendo: «Sono sbalordito da tutti questi giovani che non credono nelle parole, che non curano il loro linguaggio; non conoscono ad esempio il significato della parola maestoso». Poi, sgranava gli occhi facendo un’espressione sorpresa, cercando conferma in uno sguardo del vecchio. «Un vulcano che sta per esploderti sotto i piedi; il meteorite che attraversa l’atmosfera o l’onda gigantesca che sta per abbattersi su di te, ecco cos’è maestoso».
Michael era innamorato delle parole, erano state loro in qualche modo a salvarlo. Guardando i libri intorno a lui e girandosi verso la finestra per guardare dei ragazzi seduti a parlare fuori, Michael continuava la sua riflessione: «Le parole ci regalano delle visioni a volte dirompenti per l’anima; le parole devastano ogni cosa e poi la ricompongono. Le parole sono staccionate contro il silenzio; le parole hanno mani e piedi, escono fuori dal foglio di carta e camminano sulla nostra pelle».
I ragazzi in quella libreria vivevano tutti un’esperienza unica, il rapporto con George, con Michael si rivelava ogni giorno unico e irripetibile. Avrebbero ricordato per sempre il divertimento con gli altri coinquilini, le recite improvvisate sul marciapiede di fronte alla libreria per attrarre i passanti, i bagni nel fiume a mezzanotte, i canti e le discussioni animate sui temi più disparati; qualcuno aveva persino potuto vedere George mentre, guardandosi allo specchio, si bruciava delle piccole ciocche di capelli anziché andare dal barbiere come tutti i comuni mortali.
«Visto? – diceva George – Il barbiere ci avrebbe messo almeno venti minuti per tagliarmi i capelli; io ci ho messo solo venti secondi».
Vita stramba, forse, per alcuni, vita semplice per altri, cibo per l’anima; la vita dei tanti pellegrini fermatisi da George, per donare e ricevere qualcosa; George ha ascoltato bene le parole di ognuno di loro, anche quando sembrava distratto, le ha ascoltate udendone il suono sulle pareti dell’anima.
«Le parole… – diceva a qualcuno dei suoi ospiti – le parole possono cambiare il mondo».

Marco Fortuna

(www.bottegascriptamanent.it, anno IX, n. 99, novembre 2015)

Collaboratori di redazione:
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi
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