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Editoria varia (a cura di Manuela Mancuso) . A. IX, n. 97, settembre 2015

Zoom immagine Ricordi, emozioni,
sapori e tradizioni
di un panificio
nel Meridione che fu

di Letizia Rossi
Da Pellegrini, un testo per riflettere
sull’importanza dei valori del passato


Il cibo non è soltanto nutrimento, ma è un importante indicatore sociale che caratterizza la cultura di un popolo. Quando si parla di cucina italiana, è però doveroso distinguere anche di quale zona del paese si sta parlando. Le numerose dominazioni e la divisione in stati che hanno contraddistinto la storia della nostra nazione hanno permesso che diverse usanze si fondessero tra loro, creando degli ibridi culinari che da secoli rappresentano i tratti distintivi del mangiare bene italiano.
Ogni regione, ogni zona del Belpaese ha una propria cucina con pietanze e piatti tipici che vengono realizzati con quello che il territorio offre. In riferimento ai prodotti dell’Italia del Sud, non si può tralasciare di menzionare il pane: alimento principe delle tavole, è il frutto di lavoro e fatica, ma è anche alla base di momenti di condivisione unici.
È proprio questa peculiarità del pane e la sua sacralità che vengono raccontate da Pina Oliveti nel libro Le donne del pane. Cuti: storie di rughe, profumi e memorie (Pellegrini editore, pp. 86, € 12,00). Partendo dalla descrizione dei sapori e delle tradizioni calabresi, l’autrice ci accompagna in un viaggio nel tempo per scoprire come veniva realizzato il pane di Rogliano nel rinomato panificio di Cuti.

Siamo quel che mangiamo
La prima parte del libro è dedicata alla trattazione dell’evoluzione nel corso dei secoli della cucina calabrese, per farci comprendere in che modo le culture dei dominatori hanno influenzato i piatti tipici, modificandone l’equilibrio attraverso l’utilizzo di sapori innovativi. I Bizantini, ad esempio, hanno introdotto lavorazioni del pesce come l’essiccazione e la salatura che consentivano una migliore e più lunga conservazione; mentre sono stati gli Arabi a diffondere l’uso della melanzana e l’arte di equilibrare i sapori opposti, come il dolce con l’aspro.
Pur continuando ad assorbire le influenze culinarie dei dominatori, a partire dal XVIII secolo il territorio calabrese è però interessato da diverse calamità, quali terremoti, pestilenze e carestie. In uno scenario del genere a risentirne è soprattutto l’alimentazione, che diventa povera e basata solo sui prodotti facilmente reperibili.

Rogliano e il suo mercato
Rogliano, data la sua posizione strategica, è stata fin dai tempi dell’impero romano un importante centro di scambio commerciale. «Storicamente erano tre le date del mercato a Rogliano: tutte le domeniche di ogni mese, nella primavera e la famosa fiera della via Sottana ai primi di luglio poi spostata a settembre, per motivi igienici dovuti al caldo. Grano, olio, vino e carne da macello erano i prodotti di largo consumo ma non mancavano i prodotti più ricercati come gli insaccati stagionati, castagne e pistilli, fichi secchi, pesce salato, lana e seta, manufatti di legno e pietra e del ferro battuto». Ma nel ’900 le cose cambiano: il terremoto del 1908 e successivamente lo scoppio della Prima guerra mondiale portano gravi carestie, soprattutto per quello che riguarda la coltivazione del grano, e la popolazione è costretta a modificare la propria dieta, andando a privilegiare i prodotti come il lupino e le castagne. Il pane di castagne, oggi considerato quasi una prelibatezza, in quel periodo era l’unico alimento nutriente per le famiglie dei contadini.

Il ciclo del pane
«A Rogliano al centro della vita economica e sociale c’era la panificazione, ma in primis il ciclo del grano. L’annata agraria finisce verso l’equinozio d’autunno e inizia attorno a quello di primavera, quando con il risveglio della terra dal lungo letargo invernale, riprende con maggiore impegno il lavoro contadino». Il tempo viene quindi scandito dal ritmo dei campi e dalle diverse lavorazioni che il grano richiede: aratura, preparazione dei terreni e semina, che vengono svolte prima dell’inverno; a primavera si procede con la «sarchiatura», per eliminare le erbacce; la mietitura avviene invece in estate. È solo dopo aver preparato i sacchi da portare al mulino che i contadini possono finalmente riposarsi e concedersi una pausa festosa durante la quale ballare, cantare e mangiare in compagnia.
«La figura principale diventerà da ora in poi la donna e le sue mani. È lei a recarsi al mulino, a ritornare a casa con la farina, orgogliosa di cominciare ad “ammassai”, impastare». La panificazione assume la valenza di un vero e proprio rituale fatto di movimenti precisi, di pazienza e attesa, di preghiere e formule “magiche” per agevolare la lievitazione. Ecco quindi perché il pane non può essere considerato un alimento come tutti gli altri, ma come qualcosa di sacro.
Fare il pane è paragonabile a un’arte che si tramanda per via femminile, in un contesto in cui la figura della donna è ancora riconosciuta come potenza creatrice, ed è quindi appannaggio esclusivo delle donne generare questo cibo sacro: «Con un rito antico di generazioni, con gesti quasi sacerdotali, preparavano il pane in una cerimonia condivisa, perché il pane è condivisione, infatti il lievito madre, il levato, non si compra, ma si presta, si regala, si condivide perché la vita non è in vendita», come scrive Gina Guarasci nella Prefazione al testo.
Ma a guidarci nei ricordi d’infanzia, ai tempi in cui la vita era semplice e genuina, come il profumo del pane, sono senza dubbio le parole di Pina Oliveti che, con i suoi racconti di queste donne straordinarie, riesce a trasmetterci quella sacralità tutta femminile che secoli di cultura patriarcale non sono riusciti a spegnere.

Letizia Rossi

(www.bottegascriptamanent.it, anno IX, n. 97, settembre 2015)

Collaboratori di redazione:
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi
Progetto grafico a cura di: Fulvio Mazza ed Emanuela Catania. Realizzazione: FN2000 Soft per conto di DAMA IT