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A. XVIII, n. 199, aprile 2024
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Dibattiti ed eventi (a cura di Selene Miriam Corapi)

Stalin + Bianca: storia
di un viaggio metaforico
e fisico dall’adolescenza
verso l’età adulta

di Anna Del Monaco
Da Tunuè, un romanzo di formazione in cui due giovanissimi rifiutano
la quotidianità di un paese in rovina per dare una svolta alla propria vita


In occasione della tredicesima edizione della Fiera “Più libri più liberi”, nel dicembre scorso, abbiamo assistito alla presentazione del libro di uno scrittore ventenne, da cui si concepirà l’adattamento cinematografico curato dal regista Daniele Ciprì, presente in sala insieme all’editor Vanni Santoni. Si tratta di Stalin + Bianca, di Iacopo Barison (Tunué, pp. 176, € 9,90). È un romanzo metaletterario (o metacinematografico, che dir si voglia), in cui nella vita dei due giovani protagonisti, Stalin e Bianca, è catapultata quella ripresa dall’occhio della videocamera del ragazzo… oltre alla presenza nel testo di riferimenti cinematografici. Romanzo di formazione e viaggio on the road dei due giovani protagonisti, spinti a lasciare la loro quotidianità (il mondo ordinario) per un incidente scatenante. Stalin, diciottenne, ha gravi problemi nella gestione della rabbia, che lo porterà a malmenare il suo patrigno e, di conseguenza, a scappare di casa insieme a Bianca, una ragazza cieca, per la quale nutre un amore platonico.

Cos’è la felicità?
«Cos’è che ti rende felice?»: espressione chiave che anima il romanzo. Ciò che rende felice Stalin – soprannominato così perché ha i capelli corti e i baffi enormi – è vincere la Palma d’oro al Festival di Cannes, oppure il Gran premio della giuria… Ma questa è un’illusione, perché è una cosa presunta e non ancora accaduta. Stalin ama accendere la videocamera, per riprendere la vita così com’è, e sarà un concorso per lungometraggi indipendenti a mettere in moto l’azione del romanzo. Stalin pensa che la competizione sarà il solito buco nell’acqua, la solita iniziativa orientata ai giovani, il cui entusiasmo sfocerà nell’arrendevolezza, e i vincitori, al pari degli sconfitti, saranno destinati all’oblio. Servirebbe un approccio diverso. Le opere d’arte, un tempo, si imponevano coi loro mezzi. La pubblicità e l’appeal dell’opera erano aspetti facoltativi. Ora, invece, il campo da gioco è immenso. C’è confusione. Dev’esserci un’esigenza, un’impellenza narrativa, da cercare dentro se stessi. E dev’esserci una coerenza drammaturgica, una tensione scalpitante che animi gli eventi. Bisognerebbe immortalare l’attimo.

L’idea
Stalin e Bianca, con una fontana alle loro spalle. Bianca sorride. Stalin imposta la videocamera in modo che scatti quattro fotografie a distanza ravvicinata. Quattro frames che scandagliano il tempo. Stalin cerca un passante. Il passante è un uomo di mezz’età che arriva dalla stazione; appoggia per terra la ventiquattrore e prende la videocamera di Stalin. Quando i due ragazzi si sono sistemati, l’uomo preme un pulsante e scatta le fotografie. Stalin lo ringrazia e lui se ne va camminando veloce in direzione di un autobus. Controllando le fotografie, Stalin si accorge che alle loro spalle, spostato sulla destra e ai limiti del campo, c’è un senzatetto che si china oltre il bordo della fontana. Le quattro fotografie hanno coperto un arco temporale di circa un secondo: mostrano Stalin e Bianca che sorridono e il senzatetto che si abbassa per toccare la base ghiacciata. Stalin si volta per vedere se è ancora lì, ma è scomparso.
Questa è l’idea: andare e tornare senza obiettivi secondari e soprattutto senza soldi. I due protagonisti viaggiano all’avventura e intanto Stalin girerà un lungometraggio per partecipare al concorso.
La drammaturgia sarà la seguente: senza soldi, senza un piano, due ragazzi che attraversano la nazione per entrare e uscire da un museo d’arte contemporanea. Sembra abbastanza drammaturgico. Lo scopo è l’esigenza di raccontare una storia senza sceneggiatura: sarà la realtà a scrivere la sceneggiatura. I problemi fanno parte del dramma che vivranno Stalin e Bianca: percorrere un migliaio di chilometri, al freddo, dormendo in giro, senza risorse, esclusa la capacità di resistere, con una cifra irrisoria per mangiare. Il punto d’arrivo sarà la visita alla mostra “Corpi e Satelliti”, per poi tornare indietro e finire le riprese. Stalin legherà il materiale, poi lo consegnerà e aspetterà notizie. Se accetteranno il lungometraggio, parteciperà al concorso.
Il lungometraggio prenderà forma da solo, assecondando il flusso della realtà, come una formula che rimanda al concetto di cui è simbolo. Il materiale deve accumularsi su se stesso, quindi disfarsi ed esplodere nell’opera di Stalin. Ripercorrono azioni transitorie, raccordi in cui Stalin e Bianca si sono abbracciati, il ricordo in slowmotion del loro primo bacio. Stalin passa dei giorni a comporre attimi e a scomporli e a ridurli a un concetto. Il cinema trasmette idee, emozioni, sofferenza. Fratturando lo spazio e il tempo, Stalin prende la videocamera e inquadra il mondo. L’intero pianeta racchiuso in un solo campo totale. Un satellite personale, una finestra sull’assoluto. La videocamera registra immagini sovrapposte della nebbia che avvolge tutto.

«Io sono un occhio. Un occhio meccanico e sono in costante movimento!» (Dziga Vertov)
Questo suo accendere la videocamera, per riprendere la vita così com’è, partecipando a un festival metropolitano e vincerlo, dimostra a tutti che Dziga Vertov ha trovato in lui un degno erede. Replicare L’uomo con la macchina da presa e aggiornarlo alla nostra epoca. Far parlare la realtà, l’unico appiglio che abbiamo, e trasformarla in una composizione di suoni e colori, persone e infrastrutture e schemi che si ripetono. Può essere lo sguardo di Bianca che guarda Stalin senza vederlo o tutte le manifestazioni di vita: litigi, crisi di astinenza, due ragazzini che si baciano nella penombra, protetti dalle mura di un vicolo. Si nascondono, hanno paura di essere giudicati. Un ragazzino dice all’altro di fare piano, di stare attento e non farsi vedere. Anziani rifugiati in casa, senzatetto ubriachi, foglie morte nelle aree verdi. Ancora Bianca e il pomeriggio tiepido di un altro inverno: al parco, ad ascoltare musica insieme, dividendo con Stalin una coppia di auricolari. Sulle note di What a wonderful world, i confini dell’inquadratura si sgretolano e tutto ciò che era fuori campo, in un attimo che sembra eterno, diventa visibile e condannabile. La videocamera è come una coperta di Linus. Inquadra i passeggeri che salgono e scendono dai vagoni. Qualcuno sembra stizzirsi, altri, invece, non sanno come comportarsi, quindi sorridono imbarazzati. Le fermate si susseguono e i vagoni si avvicinano al capolinea, preparandosi a ripetere il tragitto in senso inverso, mentre sopra le loro teste, in superficie, il denaro circola di mano in mano e dà un valore alle transazioni, prediligendo i campi lunghi, perché riportano la figura umana alle sue dimensioni reali, e qualunque pretesa di grandezza o superiorità fisica passa in secondo piano, annichilita dal paesaggio. Lo sfondo resta lo sfondo, quantificabile secondo diverse unità di misura e la figura di carne e ossa e sangue diventa poco più di un puntino e ogni sua azione sembra inutile e pretenziosa: come puoi misurarti con l’infinito? La domanda sorge spontanea. Un campo lunghissimo, esteso oltre le possibilità tecniche, renderebbe Stalin e Bianca due corpuscoli che dividono lo stesso ambiente cittadino e la distanza fra i loro corpi diminuirebbe man mano che i passi di Stalin aumentano. Qualcosa di intelligente, che li segua ovunque e invii segnali di allarme quando sono lontani e, il mondo intero racchiuso in un solo, meraviglioso campo totale.
L’avventura ha inizio quando Stalin e Bianca prenderanno un treno nella convinzione che lui girerà dei film e lei scriverà poesie intimiste, alla ricerca dell’ispirazione, vivendo dentro le loro opere. E poi c’è il mito dell’arcobaleno (si trova sulla copertina e controcopertina del testo), “incontrato” per la prima volta da Stalin, in un disegno a matita di una ragazza, un arcobaleno in bianco e nero disegnato a matita. E da lì si parte con un discorso sulla possibile estinzione degli arcobaleni. Come per la “piccolezza” di noi esseri umani, illusi, questo fenomeno è stato studiato da uno scienziato danese, che ne ha individuato la causa in un problema di rifrazione. Data la massiccia presenza di gas nell’aria, le piogge sono diventate sempre più acide, quindi l’indice di rifrazione dell’acqua piovana è aumentato notevolmente, azzerando le possibilità che i raggi solari si disperdano nelle singole gocce, per poi riflettersi e fuoriuscire producendo un arcobaleno. Questo scienziato, però, sostiene che il processo sia reversibile. Gli arcobaleni potrebbero tornare da un momento all’altro, o forse no. Come il viaggio di Stalin e Bianca, non potranno mai tornare nel mondo ordinario.

Anna Del Monaco

(www.bottegascriptamanent.it, anno IX, n. 93, maggio 2015)

Collaboratori di redazione:
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi
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