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Anno IX, n 93, maggio 2015
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Politica ed Economia (a cura di Elisa Pirozzi) . Anno IX, n 93, maggio 2015

Zoom immagine Le vere ragioni
del debito
pubblico

di Giuseppe Licandro
Fenomeno shock economy
alla base della crisi italiana
in un saggio DeriveApprodi


La Commissione europea ripete da oltre un lustro il leitmotiv secondo il quale gli stati dell’“eurozona” meno virtuosi (Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo, Spagna) avrebbero vissuto a lungo «al di sopra delle proprie possibilità» e che, per risanarne i bilanci statali e rilanciarne l’economia, siano necessari drastici tagli della spesa pubblica, una forte riduzione dei salari e la compressione del welfare state e dei diritti sociali.
Nonostante sia stato introdotto nella Costituzione italiana l’obbligo del pareggio di bilancio e siano state adottate, dagli ultimi governi, politiche di “austerità”, il Belpaese nel 2014 ha fatto registrare un disavanzo di oltre 2.000 miliardi di euro e un rapporto tra Prodotto interno lordo e debito pubblico superiore al 130%.
Il dissesto, però, non dipende da una sconsiderata gestione delle finanze pubbliche, ma da ragioni più profonde: come hanno recentemente dimostrato i dati forniti dalla Banca d’Italia e dall’Istituto nazionale di statistica, il rapporto Pil/debito pubblico iniziò a crescere a partire dal 1982, raggiungendo il suo apice intorno al 1994, per poi scendere di poco fino al 2008, anno in cui riprese nuovamente a salire.
A chi volesse capire le vere cause che hanno determinato l’abnorme aumento del deficit italiano consigliamo di leggere il libro La truffa del debito pubblico (DeriveApprodi, pp. 156, € 12,00) di Paolo Ferrero, saggista e segretario nazionale del Partito della rifondazione comunista.

L’origine del debito pubblico
L’intento dell’autore è quello di contrastare il pensiero attualmente dominante in ambito economico per dimostrare in che modo il debito pubblico «non sia il frutto di un eccesso di spesa pubblica, bensì il risultato della scelta di regalare i soldi delle nostre tasse agli speculatori finanziari» e come «proprio le politiche di austerità siano la causa principale della drammatica crisi che sta vivendo il Paese».
Nel 1981 il ministro del Tesoro, Beniamino Andreatta, propose di rendere autonoma la gestione della Banca d’Italia e il suo governatore, Carlo Azeglio Ciampi, acconsentì senza che ci fosse alcun dibattito parlamentare. La conseguenza principale di questo “divorzio” fu l’aumento dei tassi d’interesse sui titoli di stato, che schizzarono alle stelle e determinarono una crescita cospicua del debito pubblico.
In precedenza i tassi d’interesse venivano fissati dal governo che li concordava con la Banca d’Italia, la quale era obbligata ad acquistare i titoli di stato rimasti invenduti dopo ogni asta. Questa misura preveniva le speculazioni finanziarie e manteneva basso il debito pubblico.
Dopo il 1981 la Banca d’Italia non fu più tenuta a comprare le rimanenze dei titoli di stato, che venivano quindi rivendute sul mercato azionario a tassi d’interesse sempre più elevati per indurre gli acquirenti a comperarle. In tal modo, però, s’incoraggiarono le speculazioni finanziarie e il debito pubblico fu incrementato a dismisura, perché lo stato iniziò «a pagare tassi di interesse molto più alti del tasso d’inflazione».

La shock economy neoliberista
A partire dai primi anni Novanta il bilancio annuale dello stato italiano fece registrare stabilmente un “avanzo primario”, poiché la spesa pubblica rimase sempre più bassa delle entrate fiscali. Nel 1992 il governo, guidato da Giuliano Amato, adottò una politica economica neoliberista, che comportò la contrazione delle spese statali e l’abolizione definitiva della “scala mobile”, il meccanismo retributivo che faceva aumentare i salari parallelamente alla crescita dell’inflazione.
Nello stesso periodo si scatenò una grossa speculazione finanziaria nei confronti della lira italiana, la quale subì una svalutazione del 20-25% che penalizzò il potere d’acquisto dei salari, incrementando i profitti delle aziende esportatrici. Venne varata, inoltre, una manovra finanziaria definita di «lacrime e sangue» che, a detta di Ferrero, fu «la più imponente correzione dei conti mai realizzata fino ad allora» (con tagli complessivi pari a circa 43.000 miliardi di lire).
Contemporaneamente iniziò il drenaggio di denaro verso il settore finanziario: infatti, gli elevati rendimenti dei Bot e dei Cct, con tassi d’interessi che veleggiavano intorno al 15%, rappresentavano «un vero paradiso per ricchi e speculatori».
I governi successivi, con l’accordo dei maggiori sindacati, proseguirono la riduzione delle retribuzioni e della spesa sociale, determinando un circolo vizioso che consisteva nel «rubare soldi al popolo producendo il debito (con gli alti tassi d’interesse) e giustificare con il debito la necessità di tagliare i diritti».
La crisi del 2007-2008 − dovuta, secondo Ferrero, alla «compressione della domanda solvibile» e alla «produzione di “bolle” finanziarie che […] prima o poi scoppiano» − ha accentuato il processo di trasformazione della società italiana in senso neoliberista.
L’Unione Europea ha aiutato gli istituti finanziari sull’orlo del fallimento, scaricando i costi del risanamento sui bilanci pubblici nazionali con la creazione del Fondo salva-stati. Nello stesso tempo si è inasprita la “politica di austerità” e si sono scatenate ondate speculative contro gli stati più deboli, «facendo salire all’inverosimile i tassi di interesse da far pagare ai paesi con il debito pubblico maggiore».
Secondo l’autore, questo tipo di politica rientra perfettamente in quella che Naomi Klein ha definito shock economy, che consiste nel suscitare la paura del fallimento di uno stato per «far accettare condizioni altrimenti inimmaginabili di precarizzazione del lavoro, riduzione dei diritti e distruzione del Welfare».

La crisi della democrazia
Il debito pubblico italiano oggi è in crescita a causa dello scellerato meccanismo in base al quale lo stato è costretto a vendere le proprie obbligazioni alle banche private pagando alti tassi d’interesse. La Banca d’Italia, infatti, non stampa più banconote da quando è entrato in vigore l’euro, perché tale compito spetta alla Bce, la quale vende poi il denaro alle banche private a tassi di interesse agevolati: queste ultime, comprando le obbligazioni emesse dai vari governi, finanziano i bilanci statali.
Gli stati dell’“eurozona” sono ormai privi della sovranità monetaria e sono obbligati a rispettare le regole economiche imposte dalla Commissione europea che, in fin dei conti, avvantaggiano solo alcune nazioni − come la Germania − a discapito delle altre.
Con l’avvento dell’euro, secondo Ferrero, è stato attuato «un vero e proprio colpo di stato monetario, in cui il potere non risiede più nelle istanze democratiche, ma in istituzioni non elette dal popolo». Si è affermata, quindi, una sorta di oligarchia transnazionale «formata da esponenti politici, grandi imprenditori e banchieri», i quali spesso si scambiano i ruoli, operando in sinergia per difendere i propri privilegi.
La democrazia sta di fatto morendo in tutto l’Occidente, perché a decidere le sorti delle nazioni non sono più i parlamenti eletti dal popolo, ma i “poteri forti” che condizionano le istituzioni, ridotte a mero palcoscenico di fittizi duelli tra leader che si distinguono solo «per la capacità di raccontare frottole imbambolando la gente».
In Italia regna oggi una situazione politica molto confusa, che disorienta gran parte degli elettori: non a caso è in rapido aumento l’astensionismo, con punte che, nelle ultime elezioni regionali, hanno superato il 50% dei votanti.
Per Ferrero ciò indica una sfiducia nell’agire collettivo che risulta funzionale agli interessi della classe dominante, la quale auspica che «ognuno resti solo, arrabbiato e depresso, chiuso in casa davanti al suo televisore».

Le insidie del Ttip
Tra le tante questioni che Ferrero affronta nel suo saggio, una delle più significative riguarda il Translatlantic trade and investment partnership, ovvero il trattato commerciale finalizzato alla «costruzione di un mercato unico per merci, investimenti e servizi tra Europa e Nord America».
Il Ttip è fortemente voluto dal governo statunitense nella speranza di abolire i dazi doganali che rendono poco competitive in Europa le merci americane e, nel contempo, di uniformare i regolamenti commerciali della Ue e degli Usa «in modo da costruire un unico grande mercato, che vale il 45% del Pil mondiale».
Questo trattato rappresenta un ulteriore attacco alla qualità della vita: qualora fosse approvato, l’agricoltura e gli allevamenti peggiorerebbero a causa dell’uso indiscriminato di pesticidi e di ormoni; avverrebbe, inoltre, la totale privatizzazione dei beni comuni e dei servizi pubblici, con un aggravio dei costi per i consumatori.
Il Ttip prevede la creazione di un organismo arbitrale internazionale «a cui demandare il potere di dirimere i contenziosi tra le imprese e gli Stati», il quale potrà erogare multe agli stati che dovessero danneggiare le multinazionali, determinando di fatto «il dominio legalizzato degli interessi della finanza e delle grandi imprese».
Attraverso il Ttip e il Fiscal compact (che impone agli stati il pareggio di bilancio), dunque, si mira a imporre ai paesi dell’“eurozona” quello che Mario Draghi, presidente della Bce, ha definito «il pilota automatico», ossia una gestione dell’economia sganciata da ogni controllo della classe politica.

La «terza via»
In alternativa al modello economico imperante oggi in Occidente, Ferrero propone di attuare il programma elaborato da Syriza, il partito di sinistra guidato da Alexis Tsipras che si è recentemente affermato nelle elezioni politiche greche.
Syriza auspica una «terza via» tra il neoliberismo oligarchico e il nazionalismo populista propugnato dai gruppi dell’estrema destra, puntando a rifondare l’Europa «su basi democratiche e di giustizia sociale» attraverso la revisione dei trattati che stanno a fondamento della Ue (in particolare quelli di Maastricht e di Lisbona).
L’autore ritiene prioritario affrancare gli stati europei dalla «morsa della speculazione finanziaria internazionale», trasformando la Bce in una Banca centrale pubblica che svolga «la funzione di prestatrice di ultima istanza per gli Stati membri», impedisca le speculazioni finanziarie e regolamenti i movimenti di capitale.
Bisognerebbe porsi, poi, l’obiettivo della piena occupazione attraverso la «riduzione generalizzata dell’orario di lavoro», favorendo la redistribuzione delle ricchezze tramite l’introduzione di una tassa sui grandi patrimoni e del salario minimo europeo.
Ci sono, infine, altre riforme improcrastinabili da realizzare: la riconversione dell’economia nella direzione della sostenibilità ambientale, incentivando il risparmio energetico, l’agricoltura biologica e il riciclaggio integrale dei rifiuti; l’incremento della partecipazione popolare alle decisioni politiche, tramite forme di democrazia diretta come il referendum; la costruzione «di un mondo multipolare basato sulle relazioni di cooperazione e non di concorrenza sfrenata, o peggio, di guerra».
Per realizzare questo ambizioso programma è necessario, secondo Ferrero, «costruire un movimento di massa europeo contro il neoliberismo» il cui embrione è costituito dal Partito della sinistra europea, il raggruppamento continentale dei partiti progressisti che si battono contro la “politica di austerità”. Tra i suoi obiettivi, tuttavia, non è prevista l’abolizione dell’euro, perché il ritorno alle valute nazionali potrebbe innescare un’inflazione molto elevata che indebolirebbe i salari.
Sarebbe opportuno, pertanto, organizzare una conferenza internazionale sul debito pubblico finalizzata «alla definizione di regole che permettano di porre fine alla speculazione»: le finanze statali potranno assestarsi solo quando le banche nazionali torneranno a comprare i titoli di stato rimasti invenduti e li ricollocheranno sui mercati interni a tassi d’interesse contenuti. Le obbligazioni statali potrebbero diventare una seconda valuta nazionale, mettendo in moto «una sorta di doppio circuito monetario in cui a fianco dei biglietti di banca circolino anche titoli di Stato».
La truffa del debito pubblico, oltre a chiarire le vere cause della crisi economica che attanaglia l’Italia, fornisce utili consigli per superare la recessione senza abbandonare l’euro, rassicurando i lettori sulle possibilità di ripresa del Belpaese che rimane ancora «un gigante economico anche se – con ogni evidenza – un nano politico».

Giuseppe Licandro

(www.bottegascriptamanent.it, anno IX, n. 93, maggio 2015)

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