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Anno VIII, 85, settembre 2014
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Storia (a cura di Fulvia Scopelliti) . Anno VIII, 85, settembre 2014

Zoom immagine Dopo 150 anni
le verità nascoste
dell’Unità d’Italia

di Paolo Veltri
Da Falco editore, la deportazione
dei briganti nelle isole del regno


In Italia, 150 anni fa, ci fu effettivamente una deportazione di massa? Il segreto di stato può coprire atti al di fuori di ogni regola civile? È questo che si chiedono Loreto Giovannone e Miriam Compagnino in una ricostruzione storica dei primi anni dell’Unità d’Italia. In particolare, i due studiosi affrontano l’introduzione della celebre legge Pica, che dettò «disposizioni dirette alla repressione del brigantaggio». Proprio nell’agosto 1863 tale legge provocò la deportazione di migliaia di persone, provenienti da alcune province del Mezzogiorno, che vennero destinate al «confino coatto», provvedimento che introduceva nel diritto pubblico italiano la pena del domicilio forzato per gli oziosi, i vagabondi, i camorristi e i sospetti manutengoli e prevedeva l’istituzione di milizie volontarie per la caccia ai briganti, stabilendo anche premi in danaro per ogni persona catturata o uccisa. La legge aveva inoltre effetto retroattivo.
Giovannone e Compagnino scrivono: «la legge Pica […] ha lo scopo di fronteggiare…» che ha lo scopo di fronteggiare un momento di forte tensione sociale riguardante soprattutto l’Italia meridionale, dove rappresenta un mezzo di lotta contro il brigantaggio e le organizzazioni malavitose. […] Questo istituto nasce dunque da esigenze straordinarie di ordine pubblico, per trasformarsi però col tempo in uno strumento ordinario, con finalità preventive».

Le condizioni che portarono all’emanazione della legge Pica
Attraverso l’analisi dei documenti storici di questi avvenimenti, che riguardano il passato del Regno d’Italia, nasce il libro scritto a quattro mani da Giovannone e Compagnino, Deportati (Falco editore, pp. 188, € 16,00), recentemente uscito nelle librerie. I due autori – che hanno già lavorato assieme nel 2013 pubblicando, sempre per l’editore Falco, Italiani, il regno e la repubblica – criticano aspramente la condotta perpetrata quasi per un decennio dalla creazione del regno.
L’emanazione della legge Pica fu una risposta agli avvenimenti accaduti nel 1861 in Campania, dove i presunti camorristi vennero arrestati e inviati, senza processo, alle isole di Ponza e Santo Stefano. Il ministro dei Lavori pubblici Ubaldino Peruzzi, lo stesso anno, chiese al Parlamento l’approvazione di un provvedimento legislativo che «permettesse il trasporto fuori dalle province napoletane di camorristi».
Anche il prefetto di Avellino, Nicola De Luca, adoperò mezzi coercitivi per combattere tali fenomeni d’illegalità. Nel 1862, dopo 13 giorni di guerra, catturò 94 criminali e li fece relegare in carcere senza processo; inoltre chiese l’arresto di tutti i parenti dei briganti e dei ladri, arrivando a teorizzare il colpo di stato come «ultimo dei rimedi per la lotta al brigantaggio».
Il punto storico delle vicende narrate consiste, però, essenzialmente nel fatto che nelle province meridionali si guardò con sospetto al governo sabaudo, perché ritenuto legato ancora ai Borboni, e queste convinzioni portarono i briganti ad organizzarsi in bande armate, più che in un esercito preparato alla guerra contro l’autorità. La risposta dello stato fu però forte, repentina e a tratti brutale, come si evince dalle pagine del saggio di Giovannone e Compagnino. Si arrivò, appunto, alla deportazione.

La deportazione negli arcipelaghi italiani dei briganti
Fautore di questa deportazione di massa fu, in primis, il Ministero degli Interni che obbligò alcuni cittadini del Mezzogiorno ai lavori forzati ed al «confino coatto». I primi trasferimenti iniziarono nel settembre del 1863: «fu un inferno dantesco con la distruzione dell’identità civile e il taglio delle radici culturali di un ingente quantità di popolazione».
Il ministro dell’Interno Ubaldino Peruzzi e il primo ministro Marco Minghetti inviarono i cittadini ritenuti colpevoli in varie isole italiane: Egadi, Tremiti, Eolie, Pontine. Minghetti fu aiutato, per la ricerca dei luoghi adatti per la deportazione, dal geografo Felice Cardon – membro in seguito della commissione ufficiale che studiò, qualche anno dopo, la possibilità di fondare una colonia penale in Assab. Il primo stato italiano mostrò, dunque, fin dall’inizio la volontà di adottare politiche coloniali e gli autori notano che «il 150° anniversario dell’Unità non è stata un’occasione per riflettere sulla vera storia italiana. Oggi sembrano assottigliarsi al minimo i legami comuni con la imposta identità storica e culturale della nazione. Inquieta e lascia oscure ipotesi il contrastare che tutti i politici che assunsero cariche da ministro Interni, sia nella monarchia che nella Repubblica, o i seguenti presidenti della Repubblica ex ministri dell’Interno, hanno di fatto coperto la deportazione di massa con sordo silenzio di Stato».

Le province su cui applicare il regime speciale
Con il regio decreto del 20 agosto 1865 furono, successivamente, elencate le province “infestate” dal brigantaggio su cui si sarebbe applicato il regime speciale. La competenza in materia fu trasferita dai tribunali civili a quelli militari. «Le province del Meridione – scrivono gli autori del saggio – da una parte fornirono ai primi governi sabaudi un ceto di funzionari di ferrea fedeltà: parlamentari, magistrati, avvocati, ingegneri, cattedratici; dall’altra deportati o schiavi a costo zero. Schiavi spediti nelle miniere, manodopera finitamente ripagata con solo vitto; schiavi per i monopoli, per l’agricoltura, per la manifattura tabacchi e saline e per i proprietari terrieri privati. Lo stato italiano post-unitario organizzò la deportazione di migliaia e migliaia di individui per motivi politici, ricavandone proventi economici».
Sicuramente la lettura di questo saggio lascia l’amaro in bocca al lettore: troppi segreti ricoprono quegli anni bui, così importanti per la costituzione geopolitica e sociale dell’Italia unitaria. Gli autori non nascondono la loro totale sfiducia nelle azioni perpetrate dai governi sabaudi e così si esprimono: «dopo oltre 150 anni, simili infamie sono continuamente ricoperte, nascoste e negate. […] Corrotti o sconfitti i militari dei Borboni, i governi unitari sabaudi si trovarono di fronte un ostacolo ben più insidioso: la popolazione civile».

Paolo Veltri

(www.bottegascriptamanent.it, anno VIII, n. 85, settembre 2014)

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