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A. XVIII, n. 199, aprile 2024
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Recensioni brevi (a cura di La Redazione)

Percepire e coinvolgersi
guardando al mondo
con l’intima analisi
di liriche penetranti

di Donatella Cannataro
Da Portaparole, un’indagine nel profondo abisso del proprio “io”,
alle radici del nostro bisogno di scandagliare l’intimo per comprenderlo


Spine (Portaparole, pp. 96, € 14,00) è una raccolta di poesie del 2012 che abbiamo scelto tra una serie di possibili letture di cui, da principianti, veicolarne un significato. O, piuttosto, un’idea. E ciò, dalla prima frase letta, sfogliando il testo, non senza una particolare partecipazione emotiva alla quale ci sentiamo spinti da una certa “familiarità”.
Se decidessimo di utilizzare delle categorie, nel caratterizzare il testo, dovremmo accompagnarci di un trittico nomenologico nel quale si intersecano, con dialettica adesione al momento vissuto, “Essenzialità”, “Categoricità”, “Assolutezza”: e ciò per l’assenza di sfumature esistenziali che non consentono, in nessun modo, l’accesso al compromesso, con se stessi e con gli altri. Ed è sostanziale anche la maniera in cui l’autrice si presenta al lettore: non una notizia biografica (su cui possa articolarsi la ricerca di un significato celato nella dimensione inconscia); solo il suo nome: Cristina De Lauretis.
Ella appare intrisa di una ancestralità orgogliosa e sofferta: leggendola si avverte una nota di appartenenza ontologica che è di ognuno. Offre, quindi, l’occasione di riconoscersi in tutta la sua esperienza umana; dal ruggito attraverso cui chiede che la si sostenga, alla dolcezza evocativa in cui si custodisce il desiderio di comunione affettiva.
Il tutto sostenuto e reso esteticamente coinvolgente da una tenacia stilistica che cattura ed educa alla consapevolezza.
La struttura del verso, da un punto di vista formale, ripropone l’efficacia concettuale dell’esperienza ermetica italiana, recuperando, per alcuni momenti di sintesi lirica, la “tragicità” ellenica.

L’amore e la sua potenza evocativa: lirismo e tragicità
Un carattere, tuttavia, emerge con altrettanto vigore e vis narrativa: quello di una scrittura inconfondibilmente femminea. In essa, non si fatica a riconoscere il tessuto lacerato ma incredibilmente prorompente e delizioso col quale solo le donne riescono a raccontare la storia dell’amore e quella sua seducente dialettica di felicità e dolore. Probabilmente anche di pathos.
Pensiamo all’amore “aberrante” della Kahlo, all’amore irragionevole della Aleramo, a quello coraggioso della Fallaci. A quello di ogni donna, entro cui amare è, irrimediabilmente, un rivolo. Talvolta, oceano di una molteplicità in cui, non sgomitando ma mellifluo, appare anche l’entusiasmo.
È l’esperienza dell’amore il racconto privilegiato di richieste taciute fieramente o rivendicate col sussiego del timore che si accompagna al volere essere amati.
Tipico ma non stereotipato della narrazione femminile dell’amore è, come la stessa De Lauretis ci lascia interpretare, il richiamo dello struggimento e del romanticismo, sottesi entrambi ad una necessità di immalinconire il vissuto dualistico del sentimento e ripiegare su quello ove sia intenso e terribile il “Vero”.
Una sorta di recupero dell’amore dato e non avuto.
La poesia, così come la letteratura, ha il potere di trasformare in grandi temi della vita ogni singola esistenza, laddove di essa si riesca a trasformare in “Forma” la “Sostanza”.
Cristina De Lauretis intreccia la sua versione femminile del grande tema al Pavese più candidamente innamorato o al cinismo utile di Grossman, rievocando di entrambi la sintesi e l’asciuttezza estetica del sentimento. Nell’autrice, la brevità ostacola la ridondanza e l’enfasi; tuttavia, emerge – non si sa fino a che punto involontariamente – un’origine universale dell’offerta di se stessi intrisa di una dolcezza che non rifiuterebbe di accogliere e proteggere.
Il Perdono, sostanzialmente.

Donatella Cannataro

(www.bottegascriptamanent.it, anno VIII, n. 85, settembre 2014)

Collaboratori di redazione:
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi
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