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Anno VIII, 85, settembre 2014
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Letteratura contemporanea (a cura di Francesca Rinaldi) . Anno VIII, 85, settembre 2014

Zoom immagine Eccentriche,
iperboliche
vendette

di Loredana D'Alfonso
Per l’editrice La Vita Felice,
un noir sulla nemesi estrema
delle donne abusate


L’attenta lettura dell’ultima fatica letteraria di Manuela Minelli certamente ne sconfessa il titolo. Infatti, è facile essere amici delle “sue” creature, che non sono solo donne ma piante, cagne, lucertole, che scattano e uccidono. Ma che hanno anche i loro buoni motivi per farlo.

Quando chiudiamo il libro ci sembra che siano rimaste lì, nella nostra stanza a farci compagnia. Innocue, ammiccanti e complici.

E noi le comprendiamo, vogliamo prenderle per mano tutte e tenerle con noi come sorelle.

Le protagoniste delle storie racchiuse in Femmine che mai vorreste per amiche (La Vita Felice, pp. 108, € 12,50) hanno nomi morbidi e tristemente rivelatori delle loro esistenze.

Gaetana, detta Tannina, ricorda i tannini contenuti nel vino, la sua passione, al punto che nel racconto tutti i personaggi, compresi i cani della protagonista, hanno nomi di vini. Il sogno di Tannina finirà tragicamente, a causa di alcuni mafiosi che vogliono farle svendere l’azienda, sua unica ragione di vita.

Gala ha il nome morbido e caldo del latte, ma si rifiuta di mangiare ciò che è più grande del palmo della sua mano e smette gradualmente di alimentarsi, fino a morire.

Gioia vuole solo essere felice ma ha un marito che in cambio della sua devozione la violenta e la massacra ogni sera di botte.

Amanda, lo dice proprio il suo nome che doveva essere amata, non abusata tutti i lunedì dal padre, il marchese Bellopede.

 

La vendetta

Queste storie affrontano temi molto forti e drammatici, riuscendo a stemperarli nell’amara ironia, strappandoci talvolta persino una risata (come in Rugantino e le alghe).

Il filo che lega tutti i racconti è la vendetta. La protesta violenta, l’uccisione, l’aggressività efferata contro qualcosa che ha tolto l’energia, la dignità, la salute, la voglia di vita stessa, contro chi ha causato un dolore troppo forte per essere sopportato.

La vendetta non è solo della donna contro l’uomo violento, ma anche della moglie tradita dal marito con la sua migliore amica; della ragazzina anoressica che si vendica attraverso il cibo della famiglia assente; della vecchina svagata che ha perso il senno e la cui eterna amnesia è una vendetta contro la memoria e la vita.

Quello del violentatore è purtroppo un tema assai attuale. Il marito, il compagno, lo zio, il padre, proprio quelle figure familiari, rassicuranti, da cui normalmente sarebbe assurdo guardarsi. Sono questi i protagonisti di Alla cacciatora, La bambina di pietra, Jawad che dà a piene mani.

Come non essere complici di Gioia? Alzi la mano chi condannerebbe questa donna per essersi vendicata del marito che ogni sera, tornato a casa, le infligge scientificamente torture fisiche e morali. Lo uccide atrocemente con una canna di fucile in bocca? Lo fa a pezzetti e lo cucina alla cacciatora? Certo è surreale, grottesco, ma – diciamo la verità – liberatorio.

Amanda Bellopede diventa una bambina di pietra di granito rosa per difendersi, estraniandosi dal proprio corpo, mentre una volta a settimana viene violentata dal “rispettabilissimo” padre, un nobiluomo. Quindi, come indignarsi quando trova la forza di mutilarlo e di ucciderlo?

E Jawad all’inizio si dimostra quasi un principe arabo, come il nome che porta: è generoso, riempie la compagna di regali e attenzioni. Poi, simile a una serpe pigra che esce da sotto un sasso, rivela una gelosia immotivata, sempre più ossessiva. Da qui i divieti e l’isolamento («Non puoi uscire con le amiche»), poi la limitazione dello spazio personale anche al lavoro, unica oasi di indipendenza, dove va a spiarla e controllarla.

«Non puoi. Non te lo consento. Non sei».

Fino alle botte, immancabile marchio a fuoco di un assurdo diritto di proprietà esercitato su quello che non è più un essere umano, dal suo punto di vista, ma solo una bestia da macello.

L’uomo che isola, emargina, guarda con sospetto gli amici. Uccide quando non può possedere. Picchia quando non sa abbracciare.

 

La giustizia

C’è da dire che nel nostro paese solo da una manciata di anni la violenza sessuale è, secondo il diritto penale, delitto contro la persona e non contro la morale. Infatti, nella percezione collettiva la violenza sessuale è una condotta infamante e vile con conseguenze deleterie fisiche e psicologiche sulla vittima. Eppure, il riconoscimento sociale di un atto di tale gravità è stato il frutto di un tortuoso iter culturale e poi giuridico ostacolato da pregiudizi. Si è dovuto attendere il 1996 con la legge n. 66 per la riforma dell’intero assetto normativo in materia.

L’innovazione più significativa di certo attiene la nuova qualificazione dei reati in esame che da delitti contro la moralità pubblica e il buon costume diventano delitti, come si diceva, contro la persona.

Molto è stato fatto, almeno sulla carta. L’abbandono delle due espressioni “violenza carnale” e “atti di libidine violenta” assimilate nell’unica formula di “violenza sessuale”, da un lato, è la naturale conseguenza dell’affermazione che essa è un reato contro la persona e, dall’altro, consente di evitare che in sede giudiziaria gli operatori debbano approfondire i fatti, evitando così alla vittima terribili mortificazioni in tribunale.

È stata questa una rivoluzione culturale di estrema rilevanza ma è, appunto, un cambiamento operato da pochissimo tempo nel diritto e nella mentalità corrente.

Manuela Minelli si fa portatrice sensibile di questo tema di quanto mai scottante attualità e va oltre la punizione eventualmente comminata dalla legge, cercando giustizia, in un fai-da-te esplosivo tutto al femminile.

Sotto questo aspetto l’autrice riporta alla memoria le gialliste nordiche, soprattutto Anne Holt. Anche lei, infatti, spesso scrive di donne violate che si vendicano uccidendo o mutilando i persecutori, ma le esecuzioni che descrive sono fredde, allucinate, lungamente organizzate. Diversamente dalla nostra autrice, in cui troviamo più passione e ironia.

Ecco, per esempio, un passo tratto da Sete di giustizia di Anne Holt: «Qual è la percentuale di violenze carnali non denunciate quando i violentatori sono “norvegesi”? Gli stupri consumati nei party privati, nelle feste organizzate dalle ditte, oppure perpetuate dai coniugi legittimi… o da qualsiasi parte. È li che trovi i casi non denunciati. Tutte le ragazze sanno benissimo che i responsabili non verranno mai condannati».

La sete di giustizia delle autrici è la stessa. Manuela Minelli però non è mai pesante, ci fa sorridere e soffrire, ci spinge a “tifare” per le nostre eroine, ci fa commuovere per tanta fragilità, dignità, goffezza e tanta forza tutte unite insieme.

 

L’alleanza

Alcuni racconti hanno particolari decisamente comici. Qui basta fare pochi cenni per darne un’idea: il morto che parla in dialetto romanesco dal fondo del lago di Castel Gandolfo; o le irresistibili donne mantidi che uccidono il malcapitato di turno, quasi colorati personaggi da fumetto. Oppure Terry Tarantola, dark lady misteriosa che ammazza soffocando con le secrezioni di un ragno; Yupanquita, la pianta gelosa che spedisce all’altro mondo la rivale in carne ed ossa con il veleno delle proprie foglie – guarda caso – a forma di cuore. E ancora, Lucertola, dall’abito di seta verde ramarro e le spalline di chiffon, che mangia il malcapitato nel corso di una liaison mentre le si trasformano gli occhi e i denti in quelli di un rettile.

Negli altri racconti, più complessi e profondi, emerge sempre la speranza e il desiderio di una alleanza, la necessità di amore. C’è sempre un sentimento di partenza, sotteso, che è stato soffocato, violato, calpestato, ma che chiede di esistere.

Gaetana, detta Tannina, certo non avrebbe voluto dare fuoco ai suoi persecutori, ma vivere la sua vita felice. «Ed ero una bella bambina, sa? Con gli occhi come acini d’uva, diceva quella santa donna di mia madre».

Gala avrebbe voluto non qualcuno che la vedesse, ma che la guardasse davvero dimagrire all’inverosimile e che la aiutasse, invece di volare via troppo leggera per camminare su questa terra. «E balla, balla fino a sfinirsi, balla con la tartaruga in bella mostra, con quel pancino introverso… guarda un ragazzo dagli occhi blu e lui ricambia il suo sguardo e sorride. Gala è felice».

L’aspirante suicida nell’istituto “dei matti” pensava che l’amore lo cercano tutti. «Poi c’è Daniele, quello che dice a chiunque entra qui di essersi innamorato e le tenta tutte per scappare, lo hanno già riacchiappato sette volte, ma lo capisco, non ha tutti i torti, chi non vorrebbe scappare da qui? E chi di noi non cerca amore?».

La signora Marisa perde il senno, ma per il troppo dolore. «E allora la signora Marisa capì. Capì cosa andava cercando da anni, da quando era morto suo marito, buonanima, e lei passava le notti a spostare gli oggetti di casa sua, per poi lamentarsene la mattina dopo».

E la suora, dopo tante violenze subite prima della forzata scelta dei voti, dopo l’unico amplesso sano e consenziente della sua vita aveva avuto un dono. «Elisa incrocia lo sguardo annacquato di quell’affarino che sembra più un polletto spennato che un figlio e prova un’immensa, infinita, devastante tenerezza. È tutto suo quel bambino, è l’unica cosa meravigliosa che ha e certo non permetterà a nessuno di portargliela via».

Questi desideri emergono continuamente, come quei fiori e quelle piantine dalla voglia di vita incrollabile che, ostinatamente, continuano a bucare il cemento, contro ogni probabilità di successo. Allearsi, fare degli opposti compatibilità, fare pace con la memoria, con il cibo, con la parte maschile.

E qui ci piace inserire un pezzo molto noto di Erri De Luca per due motivi: perché è scritto da un uomo e perché è altamente pacificatore e assomiglia a tutti quei raggi di luce e di speranza che passano, nonostante tutto, attraverso le righe di Manuela Minelli.

«Mi venne a trovare di nascosto, ero ammalato. Entrò nel buio delle coperte e mi coprì tutto il corpo col suo. Stavo sotto di lei a tremare di felicità e di freddo. Le nostre parti combinavano una coincidenza… Se esiste una tecnica di resurrezione lei la stava applicando. Assorbiva il mio freddo e la mia febbre, materie grezze che impastate nel suo corpo tornavano a me sotto peso di amore. Il suo teneva sotto il mio e il mio reggeva il suo, come fa una terra con la neve. Se esiste un’alleanza tra femmina e maschio, io l’ho provata allora».

 

Loredana D’Alfonso

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno VIII, n. 85, settembre 2014)

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