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Anno VIII, n 82, giugno 2014
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Problemi e riflessioni (a cura di Mariacristiana Guglielmelli) . Anno VIII, n 82, giugno 2014

Zoom immagine Crimini e minori a rischio
tra pregiudizi e legalità

di Federica Lento
Inclusione sociale e misure alternative alla pena.
Alcune proposte in un saggio da Armando editore


«Malamente è un avverbio con cui si indica un modo sbagliato o non giusto, non opportuno o sconveniente di agire o di fare qualcosa; un comportamento cattivo o comunque deplorevole; una condizione infelice. La parola, composta da un avverbio: mala, inteso come male e un sostantivo: mente, è sempre stata associata all’idea di una persona poco raccomandabile cui non era opportuno affiancarsi». Vincenza Palmieri introduce in questo modo il libro scritto a sei mani, insieme a Eleonora Grimaldi e Francesco Miraglia. Gli autori analizzano in maniera approfondita la situazione in cui vivono i minori accusati di crimini, spiegando i motivi (spesso determinati da situazioni famigliari difficili) che portano a commettere tali azioni e rendendo nota la legislazione italiana in materia. In alternativa al carcere minorile, viene proposta inoltre la soluzione concreta del mediatore penale, allo scopo di concedere ai giovani una seconda possibilità.

I Malamente. Le nuove marginalità: ragazzi messi alla prova (Armando editore, pp. 172, € 15,00) si oppone all’idea comune cui fa riferimento il titolo del libro e si muove invece in direzione esattamente contraria, ovvero quella di rendere “dei futuri individui rispettabili” quei giovani che hanno commesso crimini, superando un’etichetta di superficialità.

 

Educazione alla legalità

Nella casa famiglia “Capitano Ultimo” di Roma, ci si occupa di giovani “malamente”, di quei minori che vivono in condizioni di difficoltà famigliare e hanno commesso degli errori, andando contro la legalità, [che] e si trovano in questa struttura per affrontare il dolore, la rabbia, e per lottare contro la droga. Nella Prefazione al saggio, Capitano Ultimo, all’anagrafe Sergio De Caprio, carabiniere vicecomandante del Noe di Roma, noto soprattutto per avere arrestato Totò Riina nel 1993 quando era a capo del Crimor, scrive: «Mi sono chiamato Ultimo quando ho capito che tutti volevano essere primi, volevano fare bella figura, volevano vincere, volevano farsi belli con i capi, volevano fare carriera con la K, e siccome a me non me ne frega proprio niente, dico a me ma anche a tanti altri carabinieri, il nostro onore e la nostra gloria maggiore è lavorare per la gente povera e basta, e nel momento in cui lo facciamo perché vogliamo qualcosa in cambio siamo porci traditori. Mio padre comandava la stazione dei Carabinieri in un piccolissimo paese della Toscana… la domenica ci portava me, mia sorella e mia mamma, in un podere vicino in campagna, dove passavamo il tempo con una famiglia che aveva una figlia sordo-muta, e io non capivo che in quel momento quella era la legalità, e non capivo perché lui ci portava lì, e poi l’ho capito, ci portava lì perché era quella l’umanità per cui valeva la pena combattere, la bandiera, LA PATRIA».

La casa famiglia vuole dunque, secondo i principi di Capitano Ultimo, dare sostegno ai genitori dei minori ospiti, impegnarsi a reinserire i giovani in società attraverso la ricerca di un lavoro, insegnando a ciascuno di essi un mestiere che dia loro autostima, e aiutarli a disintossicarsi dagli psicofarmaci e dalle droghe di cui spesso fanno uso. «Facciamo ciò sostituendo al farmaco la nostra medicina, costruendo un futuro, un progetto, un sogno insieme al cosiddetto “malato” e dopo averlo disegnato, lo realizziamo nel fare, nelle azioni, nell’esempio».

 

Un fragoroso silenzio

Questo il titolo del primo capitolo del saggio. Ascoltare il rumoroso silenzio di questi giovani significa permettere loro di urlare e incanalare nella direzione sana il dolore. Programmi di integrazione scolastica, progetti di inclusione sociale, attività di tutela dei minori sono le proposte che spesso rimangono, anch’esse, inascoltate dalle istituzioni. L’unica risposta è invece l’inserimento dei ragazzi nelle comunità psichiatriche e la somministrazione di psicofarmaci. «Non mi stancherò mai di sottolineare gli effetti devastanti di questi medicinali nella mente di un ragazzo! E della sua famiglia. Le terapie “invasive” possono lasciare traccia nello stato emotivo del “paziente”, minando anche la sua autostima, la capacità di investire sul proprio futuro e di mettere a valore le proprie singole doti! L’uso di psicofarmaci, per quanto previsto e normato, deve essere evitato, se non ci si trova di fronte a gravi degenerative forme patologiche, che non coincidono con i semplici stati di malessere temporaneo che possono interessare spesso i ragazzi più sensibili!», scrive Vincenza Palmieri. Il concetto dicattivo” legato ai giovani con disagi sociali e famigliari è erroneamente associato alla follia; per questo le case famiglia e le comunità di giovani che hanno commesso degli errori sono affollate da ragazzi a cui si somministrano psicofarmaci per sedare il loro essere “malamente”.

 

Carcere minorile vs mediatore penale

Un’altra “soluzione” attualmente utilizzata per punire i minori rei di crimini è quella delle carceri minorili.

«Il carcere non aiuta il reo al recupero sociale, al reinserimento, ma rappresenta una inutile sofferenza complessivamente dannosa per la persona», scrive Eleonora Grimaldi, che propone invece la soluzione della “mediazione penale”. «Un processo, quasi sempre formale, attraverso il quale una terza persona neutrale cerca, tramite l’organizzazione di scambi tra le parti, di consentire alle stesse di affrontare i propri punti di vista e di cercare con il suo aiuto una soluzione al conflitto che li oppone». La mediazione mira a ristabilire il dialogo, utilizzando un linguaggio diverso da quello delle aule giudiziarie. Infatti, mentre il processo penale, perseguendo la certezza della pena, allontana vittima e reo, la comunicazione, la comprensione e la mediazione tendono a promuovere le emozioni di entrambe le parti, mettendole così in comunicazione. In questo modo la vittima si confronta con il reo rendendolo cosciente del dolore causato e stimolando le riflessioni sulle motivazioni di quanto commesso. Il mediatore penale può creare uno spazio “sicuro” dove le parti possano liberamente confrontarsi senza che nessuno imponga loro una decisione o le giudichi.

A conclusione del libro, si ricorda che nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo le Nazioni unite hanno proclamato che l’infanzia ha diritto a un aiuto e a un’assistenza particolari in uno spirito di pace, di dignità, di tolleranza, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà. E le soluzioni proposte nel testo camminano di pari passo con questi principi.

 

Federica Lento

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno VIII, n. 82, giugno 2014)

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