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Anno VIII, n 80, aprile 2014
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Politica ed Economia (a cura di Elisa Pirozzi) . Anno VIII, n 80, aprile 2014

Zoom immagine Lobby e mafia:
il dramma
di Reggio

di Giuseppe Licandro
Da Laruffa, un saggio
per svelare i retroscena
di una città in profonda crisi


Nel febbraio 1992 la Procura di Milano avviò l’inchiestaMani pulite”, dalla quale emerse un ginepraio di loschi affari in cui risultarono coinvolti i maggiori partiti politici della Prima Repubblica. Altre procure italiane intrapresero, in quel periodo, analoghe indagini sulla corruzione, mettendo a nudo il malgoverno che imperversava nel Belpaese.

Nell’estate del 1992 a Reggio Calabria scoppiò lo “scandalo delle fioriere”, che interessò l’ex giunta comunale, guidata dal sindaco democristiano Agatino Licandro, dimessosi pochi mesi prima. Il “pentimento” di Licandro fece scoperchiare il calderone di intrallazzi e malversazioni con cui erano stati gestiti i fondi statali per la ristrutturazione urbanistica di Reggio.

Lo scandalo segnò un significativo spartiacque nella storia reggina, già sconvolta nei decenni precedenti da due guerre di mafia e dalla rivolta del 1970-71. Ebbe inizio, infatti, la “Primavera di Reggio”, una fase di rinascita della città, attuata grazie alle iniziative intraprese dalle giunte di centrosinistra guidate dal sindaco Italo Falcomatà, che amministrò saggiamente dal 1993 fino al 2001, anno della sua prematura scomparsa.

Della sconcertante parabola della città dei Bronzi si è recentemente occupato il giornalista reggino Claudio Cordova, direttore del giornale on line Il Dispaccio e autore del saggio Il sistema Reggio (Laruffa editore, pp. 288, € 14,00), che contiene una Presentazione di Antonino Monteleone.

 

Il “modello Reggio”

Dopo le elezioni comunali del 2002, l’amministrazione reggina della città passò nelle mani del sindaco Giuseppe Scopelliti, giovane leader reggino di Alleanza nazionale, la cui egemonia politica si protrasse fino al 2010 (allorché divenne governatore della Calabria).

Negli otto anni di governo, Scopelliti creò un sistema di potere personale, assurto alle cronache giornalistiche col nome di “modello Reggio”, grazie al quale riuscì ad acquisire consensi plebiscitari, tanto da essere considerato per qualche tempo “il sindaco più amato d’Italia”.

Esempi di questa politica populistica furono, oltre ai suoi storici legami con gli ultras della Reggina Calcio, le passeggiate sul corso Garibaldi di star televisive lautamente pagate dal Comune, il faraonico concerto musicale di Elton John del 2004, la costosa “Notte bianca” del 2006 e le frequenti feste popolari organizzate a spese dell’erario pubblico.

Nel breve volgere di pochi anni, tuttavia, la società reggina fu nuovamente travolta dagli scandali e, nel 2012, il suo Consiglio comunale fu commissariato per «contiguità con la ’ndrangheta», su disposizione del Consiglio dei ministri presieduto da Mario Monti.

 

La lobby che governa Reggio

Il volume prende avvio proprio dal provvedimento che il 9 ottobre 2012 pose fine alla giunta di centrodestra, retta da Demetrio Arena, a un anno e mezzo dal suo insediamento.

Cordova costruisce la sua indagine giornalistica soprattutto su fonti giudiziarie, riportando ampi stralci delle intercettazioni telefoniche, fatte eseguire dagli inquirenti, e delle deposizioni giurate rilasciate durante il processo “Meta”, che ha visto alla sbarra esponenti della criminalità organizzata, consiglieri comunali e dirigenti di alcune aziende municipalizzate (in particolare della “Leonia” e della “Multiservizi”, in seguito sciolte per infiltrazioni mafiose).

Negli anni Novanta e nel primo decennio del Duemila la città reggina ha continuato a essere teatro di misteriosi delitti e criptici “avvertimenti”, ascrivibili a una sorta di strisciante “strategia della tensione” con la quale le cosche locali hanno riaffermato prepotentemente la propria egemonia politico-culturale, tanto da indurre i cittadini onesti a organizzarsi in varie associazioni antimafia, tra cui la “Gerbera gialla” e il “Movimento Reggionontace”.

Interessante, in tal senso, è la testimonianza del colonnello dei carabinieri Valerio Giardino, comandante dei Reparti operativi speciali, che, in riferimento a indagini da lui condotte, ha dichiarato: «Una lobby politico-imprenditoriale-’ndranghetistica gestisce gli appalti e la vita sociale di Reggio Calabria».

Lasciando ai lettori il piacere di scoprire i tanti risvolti politico-istituzionali degli ultimi scandali reggini, prenderemo ora in esame alcune oscure vicende sulle quali Cordova ha provato a fare luce.

 

Attacchi alle istituzioni

Nell’autunno del 2004 Scopelliti, in carica da appena due anni, attraversava un momento di difficoltà, a causa delle lacerazioni interne alla coalizione che lo sosteneva. La sera del 6 ottobre, alcuni poliziotti rinvennero in una toilette di Palazzo San Giorgio, sede del Consiglio comunale, un ordigno esplosivo.

Scopelliti, messo prontamente sotto scorta, riuscì a ricompattare attorno a sé l’alleanza di centrodestra e iniziò l’ascesa politica che gli avrebbe consentito «di stravincere nel 2007 con proporzioni bulgare».

Non si è mai saputo chi abbia messo la bomba a Palazzo San Giorgio, ma Cordova avanza il sospetto che un ruolo rilevante sia stato rivestito dal Servizio per le informazioni e la sicurezza militare, e in particolare dal comandante, Niccolò Pollari, allora docente presso l’Università “Mediterraneaˮ di Reggio Calabria. Sarebbe stato Marco Mancini, dirigente del Sismi, a fornire alle forze dell’ordine «la “soffiata” sull’ordigno dinamitardo rinvenuto all’interno del Comune di Reggio Calabria».

Sei anni dopo, oggetto di un grave attentato fu la sede della Procura generale della Repubblica, situata in pieno centro storico: il 3 gennaio 2010 una bombola di gas esplose e ne danneggiò il portone d’ingresso.

Gli autori furono ripresi dalle telecamere della videosorveglianza: si trattava di due individui – mai identificati – che giunsero davanti al portone della Procura generale con uno scooter, che risultò poi appartenente a un affiliato alla cosca Serraino.

Il 21 gennaio il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, giunse in visita a Reggio Calabria per sostenere i magistrati locali, e proprio durante il suo breve soggiorno venne rinvenuta un’automobile carica di armi ed esplosivo a Ravagnese, il quartiere dentro il quale sorge l’aeroporto reggino “Tito Minniti”.

Le indagini stabilirono che si era trattato di una messinscena, ideata dal commercialista Giovanni Zumbo (agente dei servizi segreti e informatore della ’ndrangheta) e dal boss Giovanni Ficara, i quali volevano screditare il latitante Giuseppe Ficara, rivale di Giovanni, facendo in modo che venisse incolpato del finto attentato.

 

Il “pentito” Antonino Lo Giudice

Nei mesi seguenti, l’escalation criminale continuò, indirizzandosi soprattutto contro il procuratore generale Salvatore Di Landro, che divenne bersaglio di gravi minacce, tra cui un attentato dinamitardo.

Nell’ottobre 2010 fu arrestato Antonio Lo Giudice, capo dell’omonima cosca mafiosa, che subito si pentì, autoaccusandosi di aver organizzato le intimidazioni contro Di Landro per vendicare il fratello Luciano, arrestato per usura ed estorsione.

Lo Giudice fece anche i nomi «di alcuni magistrati che con Luciano avrebbero avuto qualche tipo di contatto», sostenendo, durante un’udienza processuale, che «la bomba alla Procura generale era un messaggio per Alberto Cisterna e Francesco Mollace», due giudici da lui definiti «toghe amiche».

Lo stesso boss, però, ritrattò le accuse nel 2013, asserendo di aver subìto pressioni da parte di alcuni membri della Direzione distrettuale antimafia, i quali, in seguito ad un conflitto scoppiato all’interno della magistratura reggina, lo avrebbero indotto a dichiarare il falso.

 

Tre morti tragiche e misteriose

Nel volume, Cordova narra anche di tre tragiche morti, tuttora avvolte nel mistero.

Il primo febbraio 2008 fu ucciso in un agguato Giovanni Filianoti, un sessantenne incensurato che lavorava come agente generale di Ina Assitalia. L’attenzione degli investigatori si concentrò sul mondo dell’edilizia: Filianoti, infatti, presiedeva il Consiglio di amministrazione della “Immobiliare Otto”, era socio dell’impresa edilizia “Gimi” e aveva progettato la «realizzazione di un palazzetto nella zona di Pentimele». Cordova fa notare che, a distanza di anni, «sui mandanti, sugli esecutori e sul movente del delitto rimane un’aura di mistero».

Il 17 dicembre 2010 Orsola Fallara – dirigente del settore “Finanze e tributi” del comune reggino, sotto inchiesta per aver elargito illegalmente grosse somme di denaro pubblico – morì presso gli Ospedali riuniti di Reggio Calabria, dopo aver ingerito dell’acido muriatico.

La magistratura archiviò il caso come suicidio, senza predisporre l’autopsia del corpo. Cordova, tuttavia, ritiene la morte della Fallara un «suicidio anomalo»: la donna, infatti, era «depositaria di troppi segreti sulla gestione delle casse del Comune» e, inoltre, era una persona dal carattere forte «che, almeno all’apparenza, mai avrebbe potuto compiere un gesto simile».

Grazie all’“allegra finanza” perpetrata negli anni in cui la Fallara dirigeva il settore “Finanze e tributi”, il Comune di Reggio Calabria ha accumulato un deficit che, secondo la Commissione straordinaria insediatasi dopo lo scioglimento del Consiglio comunale, ammonterebbe a 110 milioni di euro.

Scopelliti e tre revisori dei conti furono rinviati a giudizio, poiché «non avrebbero vigilato sul disastro che, in quegli anni, stava maturando a Palazzo San Giorgio».

La terza morte anomala è quella di Giuseppe Sorgonà, un parrucchiere venticinquenne incensurato, ucciso il 7 gennaio 2011, una ventina di giorni dopo il decesso della Fallara: molte “voci di corridoio” misero in relazione i due fatti, ma gli inquirenti non riuscirono a trovare indizi in tal senso.

Le indagini dei magistrati si sono poi orientate su alcuni affiliati delle cosche De Stefano e Tegano, implicati nello spaccio di droga, ma per il momento il caso è rimasto irrisolto.

 

La “borghesia mafiosa”

Nella parte conclusiva del volume, Cordova prende in esame la teoria struttural-funzionalista elaborata dal sociologo statunitense Talcott Parsons, secondo cui ogni “sistema” ben ordinato deve sottostare a quattro condizioni: «Adattamento all’ambiente; definizione dei propri obiettivi; integrazione delle parti componenti; conservazione della propria organizzazione».

La definizione fornita da Parsons si attaglia perfettamente a Reggio Calabria, dove la lobby dominante impone le sue regole a una cittadinanza perlopiù rassegnata e talvolta persino connivente (con alcune significative eccezioni).

In un contesto del genere, pertanto, è difficile distinguere tra “buoni” e “cattivi”, perché la categoria sociale più diffusa risulta essere «quella delle persone “grigie”» o appartenenti a quella che anche Cordova chiama «borghesia mafiosa», grazie al cui apporto «la ’ndrangheta è riuscita a penetrare nel tessuto economico, sociale e politico», compiendo il salto qualitativo che le ha permesso di diventare una delle associazioni criminali più forti e temibili del mondo.

Sebbene a Reggio esista una parte della società civile che si oppone alle cosche e alla «borghesia mafiosa», supportando con coraggio l’operato della magistratura, conveniamo con quanto ha affermato Antonino Monteleone nella Presentazione de Il sistema Reggio: «Finito di leggere questo lavoro di Claudio Cordova rimane una sensazione di stordimento e di amaro in bocca».

Non c’è, dunque, da stupirsi se tanti reggini stiano emigrando nuovamente verso il Nord, come ha evidenziato anche il film drammatico di Fabio Mollo Il Sud è niente, ambientato a Reggio Calabria, uscito nelle sale cinematografiche lo scorso dicembre. Il saggio di Cordova, dunque, in sintonia con il film, costituisce un’ottima indagine sulle ragioni che deprimono il capoluogo calabrese.

 

Giuseppe Licandro

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno VIII, n. 80, aprile 2014)

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