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Anno VIII, n 78, febbraio 2014
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Politica ed Economia (a cura di Elisa Pirozzi) . Anno VIII, n 78, febbraio 2014

Zoom immagine La questione
delle arance
made in Italy

di Alessandra Pappaterra
Da Rubbettino, un saggio
sui “fatti di Rosarno”
riletti in chiave internazionale


Fabio Mostaccio, ricercatore di Sociologia economica presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Messina, è autore di un saggio, preceduto dalla Prefazione di Tonino Perna, nel quale passa in rassegna le cause economiche e politiche che, nel gennaio del 2010, hanno portato una piccola cittadina come Rosarno a diventare fulcro di una rivolta che ha interessato le testate nazionali per un arco temporale non indifferente.

Ne La guerra delle arance (Rubbettino, pp. 130, € 10,00), Mostaccio cerca di sciogliere qualsiasi dubbio sulla presunta reazione razzista e xenofobica manifestata, durante i cosiddetti “fatti di Rosarno”, da parte dei cittadini nei confronti degli immigrati africani, che da anni svolgono il mestiere di raccoglitori stagionali, girovagando in quasi tutte le regioni del Sud della penisola in base alle richieste.

 

Il “falso” ruolo della criminalità organizzata

Un altro falso mito che il saggio cerca di sfatare consiste nell’aver considerato le ’ndrine locali della Locride come mandanti e responsabili delle “trattenute” salariali che depauperavano il già magro guadagno giornaliero dei braccianti. È riconosciuto, infatti, che la ’ndrangheta radicata nella piana di Gioia Tauro da tempo si sia evoluta a tal punto da etichettarsi come “borghesia mafiosa”, intenta a controllare altri traffici molto più cospicui ed internazionali.

 

Il periodo d’oro del made in Italy

Passando in rassegna la storia dello sviluppo della produzione di agrumeti nelle varie zone della Calabria, dagli inizi del Novecento fino ai giorni odierni, Mostaccio traccia graficamente i punti strategici di sviluppo dai quali le arance made in Italy venivano esportate anche oltreoceano fino agli anni Sessanta del secolo scorso. Da una produzione globale dignitosa che inizialmente garantiva all’Italia una posizione stabile nella scala dei commerci internazionali, si è giunti a dei livelli minimi di esportazione. La causa principale del degrado è da ricercare nella carenza di investimenti adeguati in tecniche innovative che garantissero alle arance nostrane una qualità competitiva sui mercati. Unica certezza di guadagno è rappresentata dalla vendita delle materie prime alle aziende multinazionali, come ad esempio la Coca-cola, produttrice di bevande analcoliche, che accumula extraprofitti da prodotti qualitativamente bassi e, di conseguenza, acquistati a prezzi stracciati.

Gli agrumeti siciliani e calabresi, dunque, hanno subìto un percorso di declassamento, passando da “giardini delle delizie”, rifornitori di frutta da tavola, ad esportatori di arance destinate ai grandi marchi di bevande di largo consumo.

 

Dal degrado economico agli episodi del 2010

La produzione delle arance in Calabria è peggiorata a tal punto da non garantire neppure un magro guadagno alle piccole aziende a gestione familiare: questione da non sottovalutare in una terra dove i rapporti di parentela divengono uno strumento per ampliare le cerchie clientelari.

Le cause della rivolta del 2010 vanno ricercate all’interno di una degenerazione economica che ha dato vita ad una guerra fra poveri, cui ha fatto seguito uno sfruttamento della manodopera africana, portata a livelli insostenibili, e di conseguenza alle guerriglie urbane.

Un saggio fin troppo reale e concreto, dunque, quello di Mostaccio, letto con amarezza da chi vive in Calabria e, pur considerandosi fortunato di risiedere in una terra baciata dal sole, difficilmente accetta l’idea che ciò che la natura stessa ha donato in grande quantità non possa apportare progresso e benessere.

Nonostante lo stile saggistico di carattere prettamente economico e di politica dell’impiego, l’autore lascia trasparire una cruda realtà e un indebolimento dell’economia nostrana che, sebbene ci riguardi in prima persona, spesso ignoriamo, tentando di arginare il problema e fingendo siano preoccupazioni che non toccano minimamente i non addetti ai lavori. I comuni cittadini, infatti, come rileva Mostaccio, quando si recano al supermercato, nonostante l’aumento vertiginoso dei prezzi, fanno semplicemente i conti in tasca, per approssimazione, per evitare di sprofondare nello sconforto collettivo o, semplicemente, perché ciò che non rappresenta un pensiero fisso all’interno delle quattro mura in cui vivono non è degno di ulteriori ragionamenti.

 

L’approssimazione prima di tutto

Leggendo i paragrafi relativi al degrado della produzione italiana, soppiantata da quella americana (già negli anni Sessanta) quando le piantagioni di agrumeti iniziarono ad espandersi in Florida, Louisiana e California, ci si rende conto dell’“emigrazione” dei nostri “giardini delle delizie”. Oltreoceano, infatti, avevano compreso come sfruttare le loro terre baciate dal sole con una tipologia di frutta italiana tipica del bacino del Mediterraneo e fu così che iniziarono a produrre arance e derivati di qualità superiore a quelle importate dal nostro paese.

L’approssimazione negli investimenti nel Sud Italia è stata una delle cause portanti del fallimento. Piuttosto che proteggere e garantire una qualità competitiva sui mercati internazionali, molte aziende nostrane hanno preferito la strada del low cost e delle tecniche di irrigazione più desuete.

Il risultato è palesemente sconvolgente: la guerra delle arance non è altro che il culmine della “cultura” made in Italy, del suo stile di vita e, purtroppo, anche del suo masochismo, apparentemente involontario o, meglio, reso noto semplicemente quando la situazione risulta ormai drasticamente ingestibile.

 

Alessandra Pappaterra

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno VIII, n. 78, febbraio 2014)

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