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Anno VIII, n 78, febbraio 2014
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Storia (a cura di Fulvia Scopelliti) . Anno VIII, n 78, febbraio 2014

Zoom immagine Come la presenza
spagnola influenzò
la storia d’Italia

di Riccardo Berardi
Un saggio di Giuseppe Galasso
sull’Età moderna. Da Rubbettino


Uno dei più recenti saggi di Giuseppe Galasso si aggrega con notevoli novità a quella corrente storiografica e metodologica sulla “regionalizzazione della ricerca” di cui l’autore fu il massimo precursore italiano nella seconda metà del Novecento. Questi studi, confluiti nel classico volume Economia e società nella Calabria del Cinquecento [1], si contrapposero all’analisi di Witold Kula in Teoria economica del sistema feudale [2].

L’opera di Galasso – uno dei più grandi storici italiani viventi – costituì e costituisce, nella sua materia, un punto ineludibile di riferimento, non solo per la Calabria.

Ne La Calabria spagnola (Rubbettino, pp. 238, € 12,00), saggio maturato da una conferenza tenuta a Cosenza nel maggio 2008 [3], lo storico napoletano analizza magistralmente la prima parte dell’Età moderna calabrese, sottolineando: «non vogliamo affatto sostenere […] che i due secoli della Calabria spagnola si possano nitidamente e rigidamente distinguere in un secolo XVI, luminoso e dinamicamente proiettato in avanti, e in un secolo XVII, oscuro e declinante in un regresso precipitoso. Se il secolo XVI può essere indubbiamente caratterizzato […] quale periodo di grande espansione in quasi tutti i campi della vita civile, non è meno vero che nel corso di questo secolo […] si vedono anche […] gli elementi decisivi della successiva crisi. Analogamente, […] sarebbe fuorviante una visione del secolo XVII in Calabria come una notte di tenebre».

Galasso, partendo – come di consueto – dal grande sviluppo demografico ed economico del Cinquecento calabrese, si sofferma anche sull’aspetto meteorologico, evidenziando come la “Piccola età glaciale” europea (XIV-XVIII sec.) abbia avuto – proprio nel Cinquecento – un più blando andamento, favorendo così lo sviluppo regionale.

Altro elemento peculiare fu il “compromesso storico” tra baronaggio e monarchia, illustrato in modo dettagliato dall’autore. Dopo il fallimento dell’offensiva francese contro Napoli nel 1528, coloro che avevano collaborato con i francesi furono pesantemente puniti; inoltre, l’amministrazione regia tentò un indebolimento radicale della potenza feudale, la quale portò «un’intensa pratica della venalità e commercializzazione dei feudi» che tolse alla classe baronale il crisma di una stabilità indiscutibile, nonché l’accesso facilitato al feudo di nuovi ceppi familiari, disintegrando, così, la fisionomia storica della classe feudale. Tuttavia, tale circostanza provocò l’inserimento nella gerarchia imprenditoriale, mercantile e finanziaria di forestieri, in particolar modo genovesi, e secondo Galasso questo fu uno dei «molteplici limiti di un grande secolo», in quanto confinò gli “attori locali” ad un ruolo secondario nello sviluppo regionale. Per concludere, la potente monarchia non eliminò la classe feudale, che come forza sociale rimase intatta; ci fu, invece, una sorta di disciplinamento politico.

L’analisi dello storico per il XVI secolo è a tutto campo; infatti, dopo aver esaminato criticamente la storia dell’arte, della mentalità, della cultura e dell’insicurezza marittima, si sofferma su due aspetti decisamente rappresentativi del Cinquecento calabrese: i patriziati cittadini e la chiesa. Quanto a quest’ultima, è definita «una delle massime forze locali», come dimostrano il più che consistente incremento organizzativo e patrimoniale, nonché la forza di aggregatrice sociale, specialmente ai livelli più bassi della scala. Tuttavia «se poteva apparire […] più malleabile e penetrabile della sfera feudale e di quella regia per l’affermazione di ceti emergenti e di nuove energie sociali, in fondo la Chiesa e il suo nuovo mondo lo furono di meno».

Per quanto concerne la formazione dei patriziati cittadini, Galasso ne mette in risalto il ruolo contraddittorio nello sviluppo regionale, sottolineando che non fu la minore consistenza demografica a limitarne la capacità a sostituirsi in forza alla dominante classe feudale, «al contrario: di questa classe essi subiscono, invece, l’attrazione, sia entrando come clientes nella sua sfera sociale, sia, e soprattutto, subendo la logica feudalizzante della struttura sociale e lasciandosi catturare […] dal miraggio del titolo e di una distinzione nobiliare che appaiono come mete assolutamente da raggiungere, per cui la coincidenza tra patriziati urbani e piccola nobiltà feudale è […] assai larga». Ciononostante proprio da questi ceti civili, che non hanno potuto accedere al baronaggio, emerge una classe di uomini colti, che alimenta una tradizione di opposizione alla chiesa e al feudalesimo, certamente segnato dal limite della chiusura oligarchica e dal rapporto con la monarchia, che, come già si è detto, mantenne la preminenza sociale della feudalità.

Nella positiva congiuntura del XVI secolo fu notevole anche la fioritura di elementi sociali del più vario ordine, come gli artigiani, i negozianti, i commercianti e i professionisti; d’altra parte, il loro ruolo si manifesta storicamente in «maniera assai discontinua, rapsodica, occasionale».

Per quanto riguarda il Seicento, Galasso enumera diverse varianti che hanno portato la «società [calabrese, Nda] verso la débacle».

Il colpo di grazia a una realtà economica già difficile lo diede la pressione fiscale esercitata dallo stato, nella disastrosa crisi finale degli anni Quaranta, annientando le risorse accumulate nel secolo precedente.

Altro elemento furono le diverse calamità naturali e le epidemie. Il secolo si aprì, infatti, con una forte carestia nel 1607 e con cambiamenti climatici che si protrassero per tutto il periodo, di cui ci dà testimonianza Giovanni Fiore da Cropani, la fonte più utilizzata da Galasso per questo genere di informazioni. L’epidemia più poderosa fu la peste del 1656, che si fece sentire soprattutto nella Calabria settentrionale, mentre la parte meridionale non scampò ai numerosi terremoti, soprattutto quelli del 1638. D’altra parte, una relazione di metà secolo si sofferma sulla scarsa attenzione riservata alla seta; sull’impoverimento di un’altra eccellenza calabrese, i cavalli di razza; nonché sulla potenza feudale, definita da un viaggiatore anonimo lombardo «all’usanza de’ Turchi».

È da precisare – sottolinea Galasso – che gli elementi negativi non furono soltanto legati alla Calabria, «ma che trovarono in questa regione un caso portato più frequentemente».

Inoltre, il panorama calabrese seicentesco non fu soltanto di débacle: lo storico napoletano, infatti, individua nell’azione delle “città” calabresi nei moti masanielliani (1647-1648) un fattore importante che testimonia come «la regione non avesse vissuto invano la fase di espansione; che essa ne avesse colto frutti non tutti svaniti col sopravvenire della fase avversa; e che, anzi, essa conservasse spiriti ed energie notevoli». Tuttavia, la società calabrese non si dimostrò matura per una prova così impegnativa come quella imposta da una rivolta le cui origini furono antifiscali e antibaronali. Fu la monarchia che adoperò un ridimensionamento del potere feudale, anche se il dominio sociale del ceto aristocratico non fu mai messo in discussione, specialmente dopo la cosiddetta “Seconda restaurazione”.

Di grave peso per la regione fu poi la quadriennale Guerra di Messina (1674-1678), durante la quale la Calabria costituì la più importante base strategica e logistica della riconquista spagnola.

Galasso, infine, traccia gli elementi caratteristici della fine del XVII secolo, mettendo in risalto che «la recessione economica, sociale e culturale di inizio Seicento si trasformò in stagnazione secolare» e che la regione del 1707 «era una terra più chiusa nei suoi orizzonti, più emarginata rispetto ai maggiori circuiti italiani e mediterranei di quanto fosse due secoli prima, ma alquanto più strutturata e definita nella sua realtà, così da poter riprendere […] un certo suo cammino su basi meno vistose e ampie, ma più proprie e congrue […] di quanto non fosse all’inizio della grande espansione del secolo XVI».

Galasso compie quindi un’“ispezione globale” – su una regione considerata in passato, a torto, priva di fonti scritte – che ci conferma ancora una volta il suo ruolo di “padre della storiografia italiana”.

 

Riccardo Berardi

 

[1] L’ultima edizione disponibile è pubblicata Guida editori, Napoli 1992.

[2] Einaudi, Torino 1970. Al riferimento teorico della teoria marxiana sulle formazioni economico-sociali, lo storico polacco congiungeva l’influenza metodologica e storiografica delle Annales. L’oggetto della sua ricerca fu la costruzione di un modello economico del sistema feudale polacco nei secoli XV-XVIII. Le implicazioni del modello strutturale proposto da Kula era di portata vastissima, ma la costruzione di questo sistema non era sempre possibile, dal momento che non poteva essere applicato a tutta l’Europa feudale. Su questo dibattito cfr. A. Musi, Il feudalesimo nell’Europa moderna, il Mulino, Bologna 2005, pp. 123-142.

[3] A. Anselmi (a cura di), La Calabria del viceregno spagnolo. Storia, arte, architettura e urbanistica, Gangemi, Roma 2009.

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno VIII, n. 78, febbraio 2014)

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