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La visione teologale e teoretica di Gioacchino da Fiore, abate cistercense originario di Celico, nel cosentino, nato tra il 1130 e il 1135 e morto nel 1202, «non era il segno di un’era che avrebbe condotto alla fine del mondo, ma il tratto distintivo del dischiudersi della Nuova Età dello Spirito»: con queste parole, nella sua Presentazione, Alessandro Ghisalberti, professore di Filosofia teoretica e di Storia della filosofia medievale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, enuclea l’embrione fondamentale del volume Lo spazio nel Liber Figurarum di Gioacchino da Fiore (il Coscile, pp. 144, € 12,00). L’autore, Vincenzo Maria Mattanò, già docente di Composizione architettonica e di Storia dell’architettura presso l’Università della Calabria, attualmente insegna presso la Scuola di alta formazione di Arte e Teologia della Pontificia facoltà teologica dell’Italia meridionale. Autore di svariate pubblicazioni in materia di Storia architettonica (su Alfonso Rubbiani a Bologna, sulla Basilica angioina di Santa Chiara a Napoli, sui legami fra Gioacchino da Fiore, Dante e Michelangelo), Mattanò analizza la dottrina gioachimita con la fervida passione dell’esegeta, e la sviscera nei suoi più reconditi dettagli seguendone tutte le ramificazioni culturali, che raggiungono anche due titani come Dante e Michelangelo.
Il monaco calabrese che pensava per figure
Ma chi era veramente Gioacchino da Fiore? Nato da una famiglia agiata, forse di origine ebraica (il padre era un notaio), il giovane Gioacchino, dopo una breve esperienza con mansioni da cancelliere presso la corte normanna di Palermo, si reca in pellegrinaggio in Terrasanta, maturando nel corso del viaggio la propria vocazione per lo studio delle Sacre Scritture. Diventato un predicatore laico, viene ordinato sacerdote dal vescovo di Catanzaro e, all’età di circa trent’anni, diviene abate del Monastero di Santa Maria di Corazzo. Ottenuta da papa Lucio III l’autorizzazione a scrivere opere teologiche, Gioacchino fonda la Congregazione florense, approvata da papa Celestino III nel 1196. Sono attribuiti a Gioacchino almeno una trentina di testi, alcuni dei quali apocrifi: il Liber Figurarum fu riportato alla luce nel 1937. Il pensiero gioachimita, tacciato di eresia dalla scuola teologica di Parigi, viene approvato da una bolla di papa Innocenzo III, emanata nel 1216. Influenze gioachimite sono rintracciabili nella filosofia di Ruggero Bacone e di Guglielmo di Occam, nel misticismo di Ubertino da Casale (personaggio reso celebre dal romanzo di Umberto Eco Il nome della rosa) e nel pensiero politico di Cola di Rienzo e del Savonarola. Ma, soprattutto, nella Commedia di Dante e nella pittura di Michelangelo. Sostiene Mattanò che nel Liber Figurarum «pare essere all’opera, tra e nelle parole e figure, un genere di silenzio che le consuma dall’interno, e consuma e sospende consapevolmente con esse l’impianto esegetico ed ermeneutico che dovrebbe sostenerle».
Il Mistero Divino come apertura dello spazio mentale
Una prima figura fondamentale nella teologia trinitaria di Gioacchino è quella del “Salterio decacorde”, alla quale è dedicato un trattato: «Il testo costituisce così un esempio diretto di cosa significhi per l’Abate di Fiore pensare per figure, ed anche tradurre in scrittura l’aperto di quel luogo di meditazione costituito dai diagrammi e dalle immagini: luoghi del pensiero cui tornare, soggiornare, per abitarne, appunto, il dischiudersi eventuale della figura, nel suo magmatico, inappropriabile, silenzioso disperdersi». Straordinaria la modernità del pensiero gioachimita, che si riverbera con queste intuizioni, così lucidamente decodificate da Mattanò, sulle tappe successive del pensiero occidentale. Una seconda figura cruciale è quella dei “Cerchi divini o trinitari”: attraverso essa, Gioacchino opera la «suddivisione della Storia in tre Età o Tempi, ciascuno dei quali legato alla manifestazione di una delle Persone della Trinità», dove «I tre cerchi, di identica dimensione ma di tre diversi colori, raffigurano rispettivamente il verde il tempo del Padre, l’azzurro il tempo del Figlio e il rosso il tempo dello Spirito santo».
Gioacchino e Dante: due facce della stessa medaglia?
Sia nel Purgatorio che nel Paradiso, Dante sembra attingere a piene mani dalla teologia gioachimita: «secondo Gioacchino, e Dante con lui, Adamo non poté conoscere il nome della Rivelazione Trinitaria: quel nome che fu rivelato solo a partire da Mosè, dischiudendo di lì in avanti, per gli uomini, la conoscenza e la consapevolezza della Rivelazione Trinitaria come rivelazione storica». Inoltre, è oltremodo significativo che sia Dante sia Gioacchino utilizzino l’espressione “nostra effigie” (il primo nel canto XXIII del Paradiso, il secondo nell’Expositio) per indicare la Croce, segno del Dio vivente. Mattanò sottolinea che il “fulgore” scaturito dal futuro che investe la mente di Dante nel Paradiso, in quanto «rilucere dorato della nostra effigie a-venire (la Croce) sui Cerchi divini (imago trinitaria)», dimostra che «la conclusione della Commedia corrisponde dunque alla medesima ispirazione apocalittica che aveva ispirato l’inversione esegetica di Gioacchino. Sappiamo infatti che l’esegesi gioachimita consiste in una rilettura dell’intera storia dell’umanità alla luce della rivelazione apocalittica, cioè in una profezia, passata e futura, circa il finire dell’Essere e del Dio venturo, estaticamente estesa all’intera storia dell’umanità, della Chiesa e della Rivelazione; i Cerchi Divini ne costituiscono un’eminente ricapitolazione che ne precorre la traduzione in una poetica dello spazio».
L’Olocausto come consunzione totalitaria dello Spirito
L’Appendice del volume di Mattanò contiene il saggio Dello spazio: come un olocausto, ovvero la trascrizione di una conferenza dal titolo “Architetture in memoria dell’Olocausto”, tenutasi all’Università di Bologna il 16 maggio 1998, in occasione della Mostra e Simposio internazionale. Si tratta di un testo che, con rara potenza evocativa, getta un fascio di luce su uno degli aspetti più oscuri e ancora poco indagati del totalitarismo nazifascista. Scrive Mattanò che «dalla riflessione sul tema dello Spirito e del suo bruciare, emerge una sottile differenza ed un paradosso ontologico sulla cui riduzione infaticabilmente si adopera la metafisica occidentale. Da questa “speculazione”, traggono origine le totalità dommatiche e la cultura della violenza che hanno, coerentemente con i loro presupposti ideologici e teoretici, partorito la Shoah. Si può vedere come esse tentino sistematicamente di esorcizzare il tema spaziale e mantengano un costante riferimento alla preminenza della temporalità. Si può così cogliere la radice ontologica delle presunzioni totalizzanti del nazi-fascismo e come siano queste connaturate a quella logica sistemica di cui va fregiandosi sin dal Medioevo l’episteme occidentale come sua esclusiva prerogativa di emancipazione e di progresso». Non è casuale, secondo l’autore, che Dante attribuisca a «Gioacchino (calavrese di spirito profetico dotato) la pre-visione degli esiti problematici e violenti connessi alla riduzione dello spirito allo “spirito dialettico”. L’abate di Fiore fu dunque profeta in quanto studioso ed esegeta che aveva arguito quale svolta “epocale” andava compiendosi». Dalle meditazioni di Gioacchino traspare infatti il netto rifiuto di qualsiasi tradizione teleologica, “telecratica”, come diremmo oggi, e violenta. La conclusione più incisiva a cui approda Mattanò, argomentandola attraverso alcuni nodi logico-strutturali di particolare complessità (l’Andenken come temporalità e spazializzazione del Tempo, la “combustione” illuminante dello Spirito espressa dalla simbologia del Roveto ardente, l’Ereignis come “silenzio e kenosis dell’Essere”), definisce il nazifascismo come «fenomeno organico a certa parte della cultura occidentale. Considerata sul lungo periodo, la genealogia della sua costruzione ideologica mostra un avvicendarsi ed affinarsi di strategie discorsive che sembrano aver inizio con i primi tentativi medievali di astrazione metafisica e riduzione sistemica del divino. Il nazi-fascismo matura infatti la sua giustificazione teorica all’interno di quello che possiamo considerare un lento processo di riduzione dello Spirito allo Spirito dialettico». Sintesi agghiacciante, in termini teologico-filosofici, del fine ultimo di ogni stato totalitario, e non solo del Terzo Reich, ma anche dei fascismi “imperiali” in Italia e in Giappone, e del dispotismo caucasico di Stalin: la disintegrazione irreversibile di qualsiasi espressione di Pensiero Critico, per cedere il passo a un Pensiero Unico immutabile e inconfutabile come il monolito nero kubrickiano di 2001: Odissea nello spazio. Prosegue Mattanò, lucidamente implacabile nel suo ragionamento, che «il delirio di onnipotenza agito dal nazifascismo consiste nel delirio di pre-potenza del concetto sul Tempo e su l’Essere. La presunzione di controllarne la consunzione, il bruciare e addirittura di produrli». E, in chiusura: «Bisogna dunque chiedersi sino in fondo su quale genere di “cristianesimo” abbia potuto far leva la propaganda nazifascista; su quali basi abbia istituito l’impossibilità del rinvenire sul passato ed attraverso quale giustificazione ontica abbia costruito l’univocità di un senso della storia. Al suo interno l’organizzazione metodica della Dialettica ha prodotto una violenta riduzione dell’ambito teoretico, esibendosi in un continuo esercizio di manutenzione del limite tra la vita e la morte. Attraverso la Dialettica, la metafisica dell’occidente ha fatto del pensiero un abile equilibrista, pronto a lavorare con calcolate ed opportunistiche oscillazioni il margine estremo (la morte) per consegnarlo come unico destino all’avvenire. Questo sottile velo separa l’occidente da Se stesso, cioè da quella parte di sé che pretende di esibire qualcosa come la pre-sunzione di una propria identità. Con altro spirito, milioni di ebrei, zingari, slavi, uomini assunsero l’olocausto. Fu un bruciare altro, dalla logica del sacrificio che s’intendeva imporre loro. E questo è invero lo scandalo a-dialettico e oltremetafisico considerato, in certi ambienti, a tutt’oggi intollerabile». Notti e nebbie della Storia, quando il sonno della ragione genera mostri.
Guglielmo Colombero
(www.bottegascriptamanent.it, anno VII, n. 75, novembre 2013)