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Storia (a cura di Fulvia Scopelliti) . Anno VII, n 73, settembre 2013

Zoom immagine La Corea del Nord
nell’immaginario
dei sudcoreani

di Guglielmo Colombero
Da O barra O un viaggio nell’ultimo
baluardo del socialismo reale in Asia


«La Corea del Nord è uno dei paesi meno accessibili al mondo, forse il più frainteso. Occupa i pensieri delle diplomazie, si fa incasellare come un reperto della guerra fredda, come una mutazione impazzita del ceppo comunista», scrivono gli autori nell’Introduzione a queste pagine dedicate alla Corea del Nord. In Italia il grosso pubblico televisivo sentì parlare per la prima volta di questa sconosciuta e remota entità geografica, con raggelata costernazione, quando i minuscoli ma veloci atleti della nazionale di calcio nordcoreana sconfissero per 1 a 0, nel campionato mondiale di calcio inglese del 1966, gli Azzurri di Edmondo Fabbri, che ci rimise la panchina. Il goal che costò l’eliminazione all’Italia fu segnato da un certo Pak Doo-Ik, un insegnante di ginnastica di 24 anni, futuro tedoforo alle Olimpiadi del 2008. A gettare un fascio di luce tremula su questo “Cuore di Tenebra” asiatico, che sembra proprio scaturito dal realismo allucinato di un Conrad, oppure dalla fantasia labirintica di un Kafka o di un Borges, nel loro volume L’impero del mai. Corea del Nord: realtà, immaginazione e rappresentazioni (O barra O edizioni, pp. 96, € 11,00) provvedono, con lo stile spregiudicato e tagliente dei corrispondenti in prima linea (alla Hemingway) Giuseppina De Nicola, orientalista di fama internazionale, docente di Scienze antropologiche ed etnologiche alla Bicocca, vissuta diversi anni a Seoul, e Marco Del Corona, giornalista del Corriere della sera e autore dei libri Strade di bambù e Cattedrali di cenere sulla Cambogia, uno dei pochi occidentali che ha visitato di persona la Corea del Nord, nel 2001.

 

Storia di due popoli fratelli divisi da 67 anni

È indispensabile tracciare una sintetica cronistoria della Corea dal 1910, anno in cui fu annessa all’Impero del Sol Levante, fino ai giorni nostri. La colonizzazione della Corea costituì il primo passo dell’espansionismo imperialista del Giappone nel Sudest asiatico. Pochi anni dopo la sensazionale vittoria contro il colossale quanto imbelle impero zarista nella guerra in Manciuria, l’impero nipponico inaugura trentacinque anni di brutale dominazione schiavista sul popolo coreano: solo di recente il governo di Tokyo ha chiesto ufficialmente perdono alla comunità internazionale per le migliaia di lavoratori morti di stenti durante la costruzione di strade, ponti, ferrovie ed installazioni militari, e per altrettante migliaia di giovani donne rastrellate nei villaggi dell’entroterra e deportate come carne da bordello riservata all’esercito imperiale durante i due conflitti mondiali. Sorvolando sulla feroce repressione attuata contro il Movimento indipendentista coreano, fondato nel 1919: deportazioni di massa, torture, esecuzioni sommarie. La fatidica spartizione lungo la linea del 38° parallelo risale al 1945: la parte settentrionale del paese viene occupata dai sovietici, quella meridionale dagli americani.

Da allora le drammatiche vicende storiche delle due Coree si intrecciano in un susseguirsi di eventi spesso catastrofici. Nel Nord (120.000 km2, attualmente circa 24 milioni di abitanti), a Pyongyang assume il potere il Partito comunista fondato dal comandante della guerriglia antinipponica Kim Il Sung, un capitano dell’Armata rossa di trentatré anni addestrato a Mosca. Nel Sud (99.000 km2, oggigiorno circa 49 milioni di abitanti), a Seoul si insedia invece un governo filoccidentale con a capo il settantenne Syngman Rhee, di famiglia aristocratica, che aveva guidato il governo coreano esule negli Stati Uniti sin dal 1919. Due dispotismi di segno opposto. Domenica 25 giugno 1950, alle quattro di notte, un’armata nordcoreana di 120.000 soldati irrompe oltre confine. Seoul capitola il 28 giugno, centinaia di migliaia di profughi sudcoreani intasano le strade per sfuggire agli invasori. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu (in assenza del delegato sovietico) autorizza l’intervento militare degli Stati Uniti: affluiranno in Corea circa un milione e trecentomila uomini fra combattenti e ausiliari; Seoul è liberata il 17 settembre; dieci giorni dopo le truppe americane raggiungono il confine fra le due Coree. Dopo l’intervento della Cina maoista in soccorso del regime di Pyongyang (un milione di “volontari”, in realtà militari di leva), che trascina il mondo sull’orlo della Terza guerra mondiale, viene ristabilito il confine lungo il 38° parallelo con l’armistizio – tuttora formalmente in vigore – stipulato il 27 luglio 1953, pochi mesi dopo la morte di Stalin. Le perdite umane risultano ingenti: la Corea del Nord perde un milione di civili e 400.000 militari; la Corea del Sud 500.000 civili e 400.000 militari; la Cina 250.000 militari; gli Stati Uniti registrano 54.000 perdite fra militari e ausiliari.

Negli anni della Guerra fredda e anche dopo la caduta del Muro, la Corea del Nord si è trasformata in una grottesca “repubblica dinastica marxista”: a Kim Il Sung, morto ultraottantenne nel 1994 (resta il dittatore più duraturo del XX secolo dopo il cubano Fidel Castro), subentra il figlio Kim Jong Il, defunto nel 2011 all’età di sessantanove anni. Si approda così alla terza generazione degli “autocrati rossi”, con la nomina presidenziale, avallata dall’apparato militar-industriale e naturalmente dalla Cina, del nipote di Kim Il Sung, Kim Jong Un, nato nel 1983, che assume quindi il potere all’età di soli ventotto anni in seguito alla prematura dipartita paterna.

In Corea del Sud, invece, al vecchio despota Rhee, cacciato dalla sommossa studentesca del 28 aprile 1960, subentra una cricca di generali tramite il colpo di stato del 3 luglio 1961. Sostenuta in funzione anticomunista dagli americani, la dittatura di Seoul esprime tre presidenti provenienti dall’esercito: Park Chung Hee, assassinato il 26 ottobre 1979 a colpi di rivoltella dal capo dei servizi segreti (la Kcia, Korean central intelligence agency) nel corso di un banchetto; Chun Doo Hwan, ex volontario filoamericano nella guerra del Viet Nam, responsabile della sanguinosa repressione del 17 maggio 1980 nella regione di Gwangju; e il liquidatore del regime, Roh Tae Woo, dal 1988 al 1993. Processati dopo il ripristino della legalità costituzionale nel paese, i due ultimi ex dittatori saranno condannati e poi amnistiati. Dal 1993 ad oggi, altri quattro presidenti sudcoreani sono stati eletti democraticamente: Kim Young Sam, Kim Dae Jung (primo cattolico a ricoprire la suprema carica), Roh Moo Hyun e, dal 2008, Lee Myung Bak, ex magnate della Hyundai.

 

Un non-paese visto in uno specchio deformante

In un cartone animato circolato a lungo nelle scuole di Seoul, i capi del regime comunista nordcoreano sono raffigurati «con le sembianze di un maiale, mentre i membri del Partito e i soldati prendono quelle di lupi e di pipistrelli». Dopo la svolta improntata al dialogo voluta dal presidente Kim Dae Jung nel 2000, la «politica del governo sudcoreano si trova al centro di una sorta di circolo vizioso: è, al tempo stesso, sia causa sia effetto di un generale cambiamento dell’opinione pubblica verso la Corea del Nord. I sudcoreani non guardano più alla riunificazione come ad un evento immediato o incombente e stanno rivalutando la natura dei loro rapporti con il Nord». La spirale perversa del “conflitto permanente” non ha una natura esclusivamente geopolitica e strategica, ma ideologica, economica e soprattutto esistenziale: ad un surrogato autarchico del socialismo reale nel Nord, piagato da carestie endemiche, si contrappone il consumismo ipertrofico del Sud. «Uno dei più grandi progetti avviati fra i due Paesi fu l’apertura di una stazione turistica presso il Monte Geumgang, nella parte meridionale della Repubblica Democratica Popolare. Realizzato dalla Hyundai, il progetto apriva non solo la possibilità a qualsiasi sudcoreano di visitare, almeno in parte, l’altrimenti proibitissimo Nord, ma nasceva anche come zona franca per far incontrare le famiglie rimaste separate dopo la divisione della Corea». Si potrebbe fantasticare un parallelismo metastorico, a prospettive ribaltate, fra le due Coree e gli Stati Uniti d’America spaccati dalla Guerra di secessione dell’Ottocento: come se fosse stato il Nord e non il Sud a risultare schiavista e militarista, votato unicamente all’industria degli armamenti, contro un Sud idilliaco, egualitario e pieno di vetrine colme di abiti di cotone dai colori sgargianti. «A Pyongyang non si arriva mai e, anche dopo esserci arrivati, non ci si è mai veramente. Da Pyongyang, anche dopo la partenza, non si torna: la Corea del Nord permane e germina. La Corea, quella Corea, rimane lontana ma viene molto vicino, persino a chi non ci è mai stato. Deposita immagini che diventano le immagini di qualcos’altro, di qualcun altro», scrive Marco Del Corona nell’incipit della seconda parte del volume. Utopia degenerata e grottesca, più nichilista che marxista, dominata da un apparato militar-industriale ancora più coriaceo di quello che aveva dominato l’Urss nel trentennio intercorso fra la morte di Stalin e la Perestroika, la Corea del Nord emerge come allucinato e allucinante simulacro di se stessa. «Un’ulteriore implicazione riguarda la figura stessa di Kim, rappresentato spesso come un dittatore-bambino chiuso in una realtà di privilegio, di lussi e tecnologia, caratterialmente instabile, ostaggio di se stesso e del proprio potere, isolato da una popolazione pesantemente condizionata»: mentre nel 1980 le immagini della feroce repressione dei moti studenteschi a Seoul fecero il giro del mondo, indignando fortemente l’opinione pubblica occidentale, le testimonianze sul lavoro coatto a Pyongyang sono scarse e poco verificabili. Come del resto le voci sulla terrificante carestia del 1995: l’unico indizio pervenuto fino a noi fu una serie di trasmissioni radiofoniche captate di soppiatto, in cui si insegnava alla popolazione norcoreana come cucinare certe radici che solitamente venivano utilizzate per i mangimi negli allevamenti di suini. «Se non siamo noi a viaggiare in Corea del Nord, è lei a viaggiarci incontro, a venirci addosso nostro malgrado. Il mondo che non c’è prende a esistere grazie a noi e, anche dopo che vi si ha avuto accesso, continua a vivere di vita non esclusivamente propria. Gli accompagnatori che, a coppie, marcano stretto il visitatore straniero costituiscono, non meno della barriera linguistica, uno schermo tra lui e ogni cosa».

 

Demonizzazioni, coreografie di massa e anatemi

Uno dei rari visitatori occidentali, il fumettista canadese Guy Delisle, in un reportage del 2003, paragona la propria stanza d’albergo a un «cubicolo solitario dove leggere Orwell e dove convivono la noia e l’occhiuta sorveglianza di cameriere che entrano senza bussare (quasi fossero blande imitazioni della “psicopolizia”)». In un soprassalto simile a quello che fa sussultare gli zombie degli horror americani, le «vaste geometrie urbane di Pyongyang si animano davvero solo in occasione dei “giochi di massa”, le immense coreografie allestite dal regime in occasione di poche feste comandate: il compleanno del presidente eterno Kim Il Sung, quello del caro leader Kim Jong Il, la nascita del partito […]. Nella loro innaturale naturalezza, i giochi di massa sono l’indizio di un regime che non distingue fra sé e la propria rappresentazione. Chiamati a disporsi in ordine sulle gradinate dello stadio Kim Il Sung, i cittadini alzano a comando tavole di diverso colore raccolte in una sorta di libro, e così facendo danno vita alle coreografie di cui ciascuno è un tassello colorato, un “pixel umano” come si legge nel fumetto di Delisle». La Corea del Nord viene inclusa dal presidente americano George W. Bush «in piena sindrome traumatica post 11 settembre» in un emblematico “Asse del Male” insieme ad altri stati-canaglia come Iran e Iraq. Pyongyang replica definendo gli Stati Uniti “Impero del Diavolo”, il che suona grottesco pronunciato da una nazione fanaticamente atea: «una terminologia quasi biblico-escatologica, tra l’Armageddon e Star Wars». Durante la visita a Pyongyang di alcuni politici belgi nel 2000 «in un momento di lucidità, un membro della delegazione ammette: “Siamo nel paese di Ubu re”».

La Corea del Nord «vuole restare fuori ma è dentro, e se in apparenza si colloca comunque altrove, siamo noi a visitarla, a penetrarla anche da lontano. La facciamo nostra, e non c’è Juche a respingerci. In una cantina di Montreal satura di suoni elettronici o in una sceneggiatura hollywoodiana, la Repubblica Democratica Popolare di Corea celebra il suo crepuscolo, il suo più perverso fallimento».

 

Guglielmo Colombero

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno VII, n. 73, settembre 2013)

Collaboratori di redazione:
Ilenia Marrapodi
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