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Anno VII, n. 72, agosto 2013
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Problemi e riflessioni (a cura di Angela Galloro) . Anno VII, n. 72, agosto 2013

Zoom immagine Solidarietà femminile:
un viaggio che inizia a Est

di Emanuela Pugliese
Una raccolta di testimonianze di numerose donne
sulla fratellanza di genere, da Infinito edizioni


Che cosa si intende per “solidarietà femminile” e, soprattutto, esiste davvero? O, meglio, è possibile parlare di un legame di genere che unisca le donne nonostante le diversità personali e di carattere? Le femministe ne hanno fatto un punto cardine della loro lotta; emblematico è l’abbraccio intorno agli alberi delle donne del Movimento Chipko, in India, per salvare le foreste. Forse, questa empatia non è che un sentire affine che spinge le donne ad allearsi perché consapevoli di condividere emozioni che un uomo difficilmente potrebbe cogliere; oppure non è che un mito, un mero ideale trasmesso dalla generazione della contestazione e dal femminismo?

È più probabile che tale afflato nasca tra sorelle o tra amiche, nel momento in cui ci si scambiano certe confidenze che solo il “sesto senso” femminile è in grado di percepire e cogliere. In altre circostanze, invece, le donne rimangono intrappolate in comportamenti reciprocamente ostili, dovuti nella maggior parte dei casi a competizione e gelosia. Tutta una serie di barriere che ostacola il raggiungimento di un sentimento di “sorellanza” tra donne e che, invece, Enisa Bukvić ci aiuta a superare con il suo nuovo libro dal titolo Io, noi, le altre. Donne portatrici di cambiamento tra Bosnia Erzegovina, Istria e Italia (Infinito edizioni, pp. 160, € 12,00), partendo innanzitutto dalla consapevolezza dei propri limiti, per giungere al miglioramento di se stessi e del rapporto con gli altri.

 

Trenta storie di donne tra Bosnia, Italia e Istria

L’autrice, originaria di Bijelo Polje, in Montenegro, racconta una trentina di vicende di figure femminili con le quali è venuta a contatto durante la sua lunga permanenza in Italia e lo fa innanzitutto partendo da se stessa, dal proprio vissuto e dalla presa di coscienza dei propri errori.

Quelle di Enisa Bukvić sono le donne che hanno vissuto la guerra nei Balcani e che, negli anni Novanta, hanno deciso di emigrare, trovando il coraggio per reinventarsi una nuova vita e integrarsi nella società italiana attraverso programmi umanitari. Per questo l’autrice si è a lungo impegnata dapprima nell’industria agroalimentare, successivamente nella ricerca scientifica, per poi maturare una lunga esperienza nella formazione e nella cooperazione con organizzazioni non governative (Ong), sia italiane che internazionali, per la realizzazione di progetti legati all’immigrazione e finalizzati ai richiedenti asilo.

Muovendosi inizialmente dall’analisi delle proprie esperienze e scavando in profondità ogni comportamento per cercare di capirne le dinamiche, Bukvić si confronta con le altre donne e con le loro storie intime e personali, raccontate con semplicità e con uno stile lineare. Prendono vita, così, le storie di Nataša, Julija, Fata, Slavica, Nela, Nisveta, Amra e tutte le altre, le cui vicissitudini sono unite dal dolore, dalla paura e dalla tristezza per aver dovuto lasciare la propria terra, della quale conservano tradizioni e usanze. Tuttavia, accanto a questi sentimenti negativi, si scatena una grande energia, un forte desiderio di cambiamento in positivo sia in Italia sia in Bosnia Erzegovina. Sono donne intelligenti, creative, colte e, soprattutto, dotate di un profondo spirito umanitario che le rende capaci di reagire a qualsiasi momento difficile e, quindi, di superarlo.

All’interno della narrazione colpisce, inoltre, la descrizione di ritratti femminili italiani, in particolare calabresi.

Da questa sezione del libro emerge, senza sorpresa da parte nostra, l’esistenza di una cultura e di una società fortemente “tradizionaliste” che sostengono l’ideale della creazione della famiglia attraverso la divisione dei ruoli. Lo si nota fin da subito: a tavola, durante i pranzi o le cene nei ristoranti, le donne sono sedute insieme da una parte del tavolo, mentre gli uomini occupano l’altra parte. Questa divisione manifesta una netta differenziazione dei generi, attraverso cui l’uomo prende le distanze dalla donna e rimarca l’appartenenza a una categoria più forte. In realtà, così facendo, l’uomo non sa di favorire la chiusura e il conflitto con la donna, poiché nasconde le proprie debolezze e insicurezze dietro un atteggiamento dettato soltanto dalla tradizione.

Alla fine del libro, troviamo la storia di Romana Sansa, «una vera istriana» in quanto originaria di Dignano d’Istria la cui vicenda ha maggiormente colpito l’autrice, poiché vi trova molti punti in comune con la storia della propria famiglia. Entrambe, infatti, hanno vissuto il dramma della guerra, la perdita delle proprie terre e la fatica di recuperarle, e infine il dolore per non poter ritornare più in Bosnia. Secondo l’autrice, saranno proprio le donne come Romana a risollevare le sorti del paese: avendo subìto diversi traumi e sopportato molte sofferenze, sono già di per sé portatrici di crescita per la propria patria.

 

Insieme verso il cambiamento

Giunta alla conclusione di questo percorso tutto al femminile, l’autrice fornisce una possibile chiave di lettura del testo. Si parte da un assunto: gli individui sono fossilizzati nei propri limiti, non avvertono la necessità del cambiamento e non partono dalla consapevolezza delle proprie mancanze. Sono le donne a fornire una soluzione a questo problema: non di rado, infatti, arrivano prima degli uomini al raggiungimento di tale avvedutezza. Dal loro esempio si può, dunque, iniziare a superare i luoghi comuni e le difficoltà che impediscono di vivere in maniera equilibrata la relazione tra i due generi. Spesso, nella vita di tutti i giorni, e soprattutto a livello mondiale, sembra che l’uomo voglia risolvere i problemi con l’uso della forza, e ciò accade per il semplice fatto che è stato educato così per secoli. All’uomo, fin da piccolo, è stato inculcato il concetto che le ragazzine sono più deboli, invece a lui è stato trasmesso il messaggio opposto: cioè che egli è il vero depositario della forza, la quale, però, finisce per prendere il sopravvento sulla ragione e sulla saggezza. Difatti, si vede bene come nel mondo i cosiddetti “forti” hanno campo libero su tutte le decisioni più importanti che riguardano l’umanità. Si possono eliminare questi pregiudizi? Assolutamente sì, ci insegna l’autrice. Ma solo con grande impegno da parte di ognuno di noi, uomini e donne, senza discriminazioni.

 

Emanuela Pugliese

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno VII, n. 72, agosto 2013)

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