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Anno VII, n. 71, luglio 2013
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Letteratura straniera (a cura di Alba Terranova) . Anno VII, n. 71, luglio 2013

Zoom immagine Voci strazianti
e orrori di vita
in Afghanistan

di Emanuela Pugliese
Da Ponte33, quattordici storie
terribili testimoniano la guerra
in un luogo devastato da anni


«Siamo ancora vivi. È grazie all’autunno che siamo ancora vivi. Respiro a malapena. I lamenti piano piano stanno scemando. Io sono seduto sul petto dell’uomo che è rotolato sulle mie gambe; non le sento più fare su e giù sotto le mie natiche. Forse ha smesso di espirare».

Mazar-e Sharif non è una località nota. Digitando la parola su Google Maps si viene immediatamente catapultati in Medioriente, per la precisione in Afghanistan, a nord-est di Kabul. Approfondendo la ricerca su Wikipedia, per cercare di saperne di più sulla città, si scopre che, in lingua afghana, Mazar-e Sharif significa “nobile santuario”, con riferimento alla moschea colorata d’azzurro, dedicata alla memoria del quarto califfo e primo imam sciita e chiamata “Santuario di Sua Eccellenza”; essa è collocata nel cuore del centro urbano. Un tempo la zona era il centro della filosofia e degli insegnamenti del profeta Zarathustra, oggi è diventata scenario di distruzione e morte.

Strazianti, dolorose, agghiaccianti sono le pagine de I fichi rossi di Mazar-e Sharif (Ponte33, pp. 144, € 16,00), di Mohammad Hossen Mohammadi scrittore afghano, attualmente direttore del Dipartimento di Giornalismo dell’Università Ibn Sina , una raccolta di quattordici racconti, con la quale l’autore ha vinto alcuni premi letterari tra cui il “Golshiri”, il “Mehregan” e l’“Isfahan” sulle atrocità della guerra in Afghanistan, uno scontro che si protrae da più di un decennio e che non accenna a interrompersi.

 

Cronaca di un conflitto senza tregua

Imbattersi in queste quattordici storie non è un’impresa da affrontare con leggerezza. Ognuna di esse racconta in modo crudo e diretto le vicende dei vari protagonisti: contadini uccisi brutalmente mentre si avviano nei loro campi per raccogliere il grano, donne costrette a prostituirsi per sopravvivere, nonostante la paura di essere condannate alla lapidazione, bambini orfani, mutilati e sfruttati, corpi ammassati in un container e condannati a una fine lenta e asfissiante.

Straordinario lo stile dell’autore: con estrema eleganza e lucidità, le voci narranti si mescolano per creare confusione nell’ordine naturale degli eventi e disorientare il lettore.

Già dal primo racconto (I morti), lo scrittore dà voce alle anime dei cadaveri gettati in un pozzo: esse assistono, senza rendersene subito conto, al disseppellimento dei propri corpi. Dal loro racconto in prima persona si passa alla testimonianza di chi ha assistito alla scena della fucilazione e, in un’alternanza di sentimenti di terrore e di follia, alla voce dei carnefici. E ancora: alla voce addolorata di una madre che deve necessariamente prostituirsi per dare da mangiare ai propri figli si alternano le voci dei suoi stupratori e quella incosciente di una bambina che si sveglia per il rombo degli aeroplani sempre, ormai, da quando il padre non è in casa e si dirige verso l’albero di fichi rossi nell’angolo assolato del cortile per raccogliere il frutto più maturo. Infine, il grido disperato di un prigioniero e del suo assassino («Sentivo il bum-bum prodotto dai colpi delle loro mani, dei loro piedi, e forse anche delle loro teste, sulla parete del container. […] Me ne stavo all’ombra del muro, grondante di sudore, e ogni volta che il vento sfiorava il mio corpo provavo un brivido di piacere. Mi sentivo proprio bene»). In contrapposizione a questo stato di calma e di tranquillità, la voce narrante descrive la lenta agonia, sua e quella degli altri prigionieri, sotto il sole cocente del deserto di Leili: «Urliamo. Non siamo ancora cotti. Urliamo e chiediamo che aprano il portellone. Tutti gridano a voce alta. Non capisco niente di quello che stanno dicendo. […] Tutti battono contro le pareti del container. Forse sono le loro teste che battono e fanno bum-bum. Non riesco a respirare, do un colpo contro la parete, il bum-bum mi risuona nella testa».

La totale assenza di giudizio sulla guerra e sul comportamento dei soldati è ciò che accomuna i pensieri di questi personaggi: le storie sono raccontate con estrema lucidità e oggettività, oltretutto senza perdere mai di vista lo sguardo sui sentimenti più profondi.

Mohammadi dà vita così a un libro che si trasforma in cronaca minuziosa di un pezzo di storia contemporanea spesso celata dall’informazione giornalistica, talvolta anche solo per l’impossibilità di raccontarla per motivi di sicurezza , riservando, al contempo, un posto anche a quei talebani detestati dal mondo occidentale e temuti in Afghanistan, come osserva chi ha curato l’edizione del libro.

 

Un libro da leggere senza timore

Certo, dopo aver letto questi racconti non si può non provare una sensazione di turbamento e grande angoscia: il libro non va letto tutto d’un fiato, ma con mente lucida e con molta parsimonia.

Altrettanto tormentata la vita dell’autore: di origini afghane e cresciuto in una famiglia di rifugiati in Iran, Mohammadi ritorna a Kabul e dà vita a una casa editrice per promuovere i giovani autori. I fichi rossi di Mazar-e Sharif è il suo quarto titolo edito da Ponte33, casa editrice fiorentina che si propone di far conoscere in Italia la letteratura contemporanea in lingua persiana, cercando di portare avanti un prodotto librario autentico, che sia soprattutto avulso dagli stereotipi sulla cultura iraniana, oggi presenti nel panorama editoriale e culturale.

 

Emanuela Pugliese

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno VII, n. 71, luglio 2013)

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