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Anno II, n° 6 - Febbraio 2008
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Home Page (a cura di Tiziana Selvaggi) . Anno II, n° 6 - Febbraio 2008

Zoom immagine Collaboratori di giustizia:
un universo enigmatico

di Annalice Furfari
Un’analisi dettagliata del fenomeno “pentitismo”
in una raccolta di saggi pubblicata da Donzelli


«Con il passare degli anni ho capito che la vita che stavo conducendo non mi apparteneva, e in coscienza ero stanco di vivere con il rimorso del male fatto ai miei simili». Le parole pronunciate dal collaboratore di giustizia Michele Guardato racchiudono il senso autentico del dissidio interiore provato da chi decide, dopo un travagliato percorso esistenziale, di rompere drasticamente con la vita condotta fino a quel momento e di iniziarne un’altra, completamente diversa, ma non meno irta di difficoltà e sofferenze. Stiamo parlando dell’universo dei collaboratori di giustizia, esplorato a fondo in Pentiti. I collaboratori di giustizia, le istituzioni, l’opinione pubblica (Donzelli Editore, pp. 282, € 25,00), una raccolta di saggi curata da Alessandra Dino, docente di Sociologia giuridica presso l’Università di Palermo.

Attraverso un osservatorio multidisciplinare, fondato su contributi provenienti dalle scienze socio-antropologiche, storiche e giuridiche, l’opera offre una lettura attenta e diversificata del fenomeno della collaborazione con la giustizia di soggetti appartenenti a organizzazioni criminali mafiose.

Gli autori hanno provato a cogliere e interpretare il significato del cambiamento intervenuto nell’identikit del mafioso e nelle caratteristiche tipiche del suo mondo. Grazie ad una complessa opera di recupero, analisi e studio di materiali e testimonianze, inoltre, hanno inquadrato le diverse componenti del fenomeno, contestualizzandolo in virtù del suo orizzonte storico, sociale, politico, giuridico, normativo, psicologico e culturale.

Gettare luce sul mondo dei pentiti non può certo prescindere dalla valutazione di alcuni aspetti tipici delle cosche mafiose. Infatti, il carattere segreto delle organizzazioni criminali ha imposto agli associati l’esigenza di individuare forme di comunicazione in grado di coniugare il bisogno della segretezza con la necessità dello scambio comunicativo. La strategia dell’organizzazione è stata sempre orientata a ridurre al minimo la comunicazione scritta e verbale, enfatizzando le potenzialità simboliche dei gesti, degli sguardi, del non-detto. L’uso limitato della parola garantisce il controllo reciproco tra i membri dell’organizzazione e riesce a bloccare ogni riflessione critica o personale, frenando sul nascere qualsiasi forma di dissenso.

La dissociazione da un gruppo al quale ci si è legati per tutta la vita si consuma proprio attraverso la parola: colui che “canta” (per citare un’espressione tipica dell’universo mafioso è il peggior traditore. L’uscita dal silenzio rappresenta il sintomo di un malessere, di un conflitto, di una frattura che inevitabilmente coinvolge l’organizzazione criminale. È l’inizio di un possibile processo di cambiamento.

A distanza di oltre due decenni dal prodursi dei primi casi di collaborazione con la giustizia, riemerge la necessità di studiare la controversa figura del pentito. E bisogna farlo anche alla luce degli avvenimenti contemporanei, i quali hanno chiaramente mostrato che la lotta alla mafia non è ancora stata vinta.

 

Una ricerca dettagliata per una maggiore comprensione del fenomeno “pentiti”

Nella prima parte dell’opera, intitolata Il sistema e le regole, troviamo il saggio di Simona Riolo, La legislazione premiale antimafia, che analizza la normativa sui benefici premiali previsti per la collaborazione in materia di criminalità organizzata di tipo mafioso. Le norme in questione sono state introdotte con la legge n. 82/1991 e successivamente modificate dalla legge n. 45/2001, la quale ha tentato di eliminare gli squilibri registrati nella pratica della gestione dei collaboratori di giustizia e al tempo stesso di sopire alcuni atteggiamenti di ostilità sorti nell’opinione pubblica, in occasione delle macchinazioni di alcuni collaboratori che continuavano a essere pilotati dall’organizzazione criminale di appartenenza. Lo scopo della nuova normativa è stato anche quello di risolvere il conflitto tra la necessità di sopperire alle difficoltà investigative mediante la collaborazione processuale e l’esigenza di perseguire un’efficace repressione dei reati attraverso la dissuasione dei consociati dalla commissione di crimini e il recupero di chi vi si è imbattuto.

Italia e Usa: esperienze a confronto, di Gioacchino Natoli, effettua una comparazione tra la legislazione italiana sui collaboratori di giustizia e quella statunitense, lasciando emergere i rispettivi punti di forza e di debolezza.

Il saggio di Francesco La Licata, Mafia, politici e pentiti, tratteggia un excursus storico del fenomeno dei collaboratori nel nostro paese, soffermandosi sul difficile, e spesso controverso, rapporto tra mafia e politica.

Vite sotto protezione, di Clara Cardella e Marilena Macaluso, offre uno spaccato profondamente umano delle esistenze condotte dai collaboratori e dai loro familiari nell’ambito del programma di protezione. Le autrici indagano sulle loro difficoltà di inserimento sociale, lavorativo ed economico nelle località di nuovo insediamento, sui loro disagi psicologici e affettivi. A pagare le conseguenze peggiori di questa condizione frustrante sono soprattutto i figli dei pentiti, vittime innocenti che diventano protagoniste, loro malgrado, di veri e propri traumi esistenziali. Il saggio inquadra il problema da un duplice punto di vista: quello dei professionisti del Servizio centrale di protezione (psicologi e responsabili) e quello dei soggetti protetti (mediante l’analisi di un corpus di 58 lettere inviate dai collaboratori di giustizia e dai loro familiari all’avvocato difensore). Emerge una notevole discrepanza tra le aspettative originarie dei pentiti e il traumatico impatto con la realtà del programma di protezione, che li spinge a sentirsi traditi e abbandonati dallo stato.

Nella seconda parte del volume, intitolata Uscire dalle mafie, il saggio di Salvatore Lupo, Alle origini del pentitismo: politica e mafia, analizza le relazioni storiche tra l’organizzazione criminale e il mondo della politica e della magistratura, risalendo alle origini del termine “Cosa nostra”, nato negli Usa nel 1962-63, grazie alle confessioni di Joe Valachi (il primo pentito di mafia negli Stati Uniti), e solo negli anni Ottanta esportato in Sicilia.

Rocco Sciarrone, con Passaggio di frontiera: la difficile via di uscita dalla mafia calabrese, ci offre un’immagine del mondo della ’ndrangheta, organizzazione criminale, dominante in Calabria ma presente in tutta Europa , come i recenti tragici fatti di cronaca ci insegnano, la quale presenta delle differenze rilevanti rispetto alla mafia siciliana. Emerge, in particolare, la maggiore importanza rivestita dai legami familiari, una delle principali cause del numero più esiguo di pentiti. Infatti, i vincoli di sangue sono caratterizzati da forti sentimenti di appartenenza e solidarietà e da elevati livelli di fiducia e lealtà. È, quindi, molto più difficile mettere in discussione le imposizioni, le regole e i valori che provengono dalla famiglia e tradire i propri consanguinei.

Il saggio di Monica Massari e Cataldo Motta, Collaboratori di giustizia nella Sacra Corona Unita, mette a fuoco le caratteristiche della conglomerazione di gruppi criminali attivi in Puglia, riconosciuta ufficialmente come associazione mafiosa, al pari di Cosa nostra, ’ndrangheta e camorra, nel 1994. Grazie alle testimonianze dei pentiti, gli autori sono riusciti a ricostruire le motivazioni principali che spingono a collaborare con la giustizia: la volontà di evitare il carcere duro e le condanne elevate, ma soprattutto la preoccupazione per il futuro della propria famiglia.

Pentiti di camorra, di Felia Allum, analizza il fenomeno dei collaboratori di giustizia nell’ambito della camorra napoletana, contrassegnata da una maggiore frammentazione rispetto alle altre associazioni criminali, mancando clan egemoni, e caratterizzata dalla presenza accentuata anche di una delinquenza “da strada” particolarmente violenta spesso formata da sbandati. Tale situazione ha determinato un vero e proprio pentitismo di massa, soprattutto durante la guerra scoppiata all’inizio degli anni Ottanta, tra la cosiddetta “Nuova camorra organizzata” di Raffaele Cutolo e la “Nuova famiglia”, guidata dai clan Nuvoletta, Bardellino e Zaza. 

 

Pentiti e società civile a confronto: la percezione della gente comune

La terza e ultima parte dell’opera, intitolata Essere e apparire, si sviluppa attorno al saggio realizzato dalla curatrice dell’intero volume, la già citata Dino, dal nome emblematico: «Ai pentiti non credo…». La percezione sociale dei collaboratori di giustizia in Sicilia. Si tratta del contributo maggiormente originale e significativo del libro, in quanto analizza un tema che non è mai stato sviscerato in profondità dai precedenti studi sul fenomeno mafioso. L’autrice ha, infatti, investigato sulla percezione dei pentiti nell’opinione pubblica siciliana. L’indagine è stata condotta nel 2005, mediante interviste a 350 soggetti, selezionati sulla base delle variabili di territorio, sesso, età, titolo di studio, professione e orientamento politico.

Ciò che emerge come dato uniforme e ricorrente è il fastidio con cui si guarda al collaboratore nei differenti universi sociali e soprattutto nell’opinione pubblica che, pur riconoscendone l’importate contributo, non dimentica le sue origini. La normalità è la condizione che meno si è disposti a concedere al pentito, il quale, secondo la gente comune, dovrebbe scontare la sua pena in carcere, anziché godere dei benefici della legislazione premiale antimafia, percepiti come un ingiusto privilegio.

La scarcerazione del pentito viene vissuta come un ulteriore affronto verso le vittime della mafia. L’utilizzo dei collaboratori è visto come l’emblema del fallimento della magistratura, della politica e, più in generale, delle istituzioni del nostro paese, incapaci di sconfiggere la criminalità organizzata con i tradizionali strumenti investigativi.

Appare sconfortante che l’opinione pubblica non riesca a intravedere una possibilità di riscatto e re-inserimento sociale per i collaboratori e che nutra una sfiducia tanto profonda nei confronti delle istituzioni che regolano il vivere civile del paese. È necessario prendere in considerazione questi importanti spunti di riflessione, allo scopo di individuare soluzioni efficaci per diffondere non soltanto una corretta percezione e conoscenza del fenomeno dei collaboratori di giustizia, ma soprattutto per promuovere in ogni ambito sociale un’autentica cultura della legalità.

 

Annalice Furfari

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 6, febbraio 2008)

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