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Anno VII, n. 67, marzo 2013
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Politica ed Economia (a cura di Alba Terranova) . Anno VII, n. 67, marzo 2013

Zoom immagine Storia d’Italia:
leggi elettorali
ed enti locali

di Irene Nicastro
Un libro edito da Rubbettino
esamina le elezioni comunali
e provinciali dal 1946 al 1956


Nel 1946, si svolsero in Italia le prime elezioni amministrative dell’epoca repubblicana, cui fecero seguito, nel 1951, l’approvazione delle leggi di riforma che consentirono la ricostruzione dei Consigli provinciali e le elezioni del 1951-52, che diedero il via all’introduzione del premio di maggioranza e del nuovo sistema degli apparentamenti. Di tutto questo si parla nel libro L’Italia divisa. Gli enti locali tra proporzionale e maggioritario (1946- 1956) (Rubbettino, pp. 286, € 18,00), scritto da Barbara Taverni. Il testo fornisce nel dettaglio i risultati delle elezioni amministrative di quel decennio, approfondendo il dibattito sulle autonomie locali e la questione regionale, il problema della rappresentanza e dei sistemi elettorali locali, i progetti per attuare il Titolo V della Costituzione e le vicende che hanno caratterizzato il rapporto alternato tra centro e periferia nel primo decennio della storia repubblicana.

Per il presidente del Consiglio del tempo, Alcide De Gasperi, il tema dell’attuazione del Titolo V non era prioritario, perché in quel periodo avevano la precedenza le questioni economiche e finanziarie, i problemi della ricostruzione e di politica estera. Inoltre considerava doverosa una riflessione sulla questione politica dell’autonomia regionale, dato che gli altri partiti di governo, tranne il Partito repubblicano italiano, non erano d’accordo con l’istituzione delle Regioni. Vi era anche preoccupazione per gli esiti della Guerra fredda sul piano interno. Il dibattito, svoltosi fra i partiti sui progetti di normativa elettorale regionale, approdò al disegno di legge del 10 dicembre 1948 e successivamente al disegno di legge del 16 dicembre 1949, che ripropose il meccanismo allora in vigore per l’elezione del Senato. La prima commissione permanente della Camera dei deputati elaborò un progetto alternativo, indicando il suffragio indiretto, ritenuto ammissibile secondo un’interpretazione solo letterale dell’articolo 122 della Costituzione, sottolineando il carattere amministrativo, non politico, delle elezioni regionali. Il progetto non giunse alla discussione in aula. Nel dibattito in merito alla legge elettorale regionale, intrecciato con quello relativo alla normativa sull’elezione dei consigli comunali e provinciali, non si raggiunse alcun accordo risolutivo. Non ebbero quindi una risposta positiva né le continue richieste di attuare la Costituzione, avanzate dai comunisti e dai socialisti, né la proposta di legge costituzionale presentata nel dicembre del 1948 dai deputati eletti nelle liste del Movimento sociale italiano per la revisione del Titolo V della Costituzione, né le istanze dei liberali per disciplinare il referendum. Invece, fra il 1949 e il 1951, vennero discusse e approvate le leggi elettorali per i consigli comunali e provinciali, che differenziarono notevolmente i sistemi elettorali locali rispetto al modello parlamentare, risultando per più aspetti innovative rispetto al decreto legislativo del 7 gennaio 1946. Nel volume è ben documentato che i disegni di legge presentati dal ministro dell’Interno, Mario Scelba, nella seduta della Camera dei deputati del 16 dicembre 1949, riprendevano le tesi prevalse nei mesi precedenti. Il duplice sistema elettorale comunale adottato nel 1946 fu ritenuto, riguardo ai comuni maggiori, inidoneo a consentire la formazione di maggioranze qualificate, atte a garantire un normale funzionamento delle amministrazioni, come sottolineò Scelba nella relazione del disegno di legge.

Una nuova fase della Guerra fredda si aprì con lo scoppio del conflitto in Corea, e all’interno del paese si inasprirono ulteriormente i rapporti fra i partiti di maggioranza e opposizione. Proprio in questa occasione il vicesegretario della Democrazia cristiana, Giuseppe Dossetti, divenne fautore di un approccio cauto e graduale verso l’istituzione delle Regioni. Più in generale, le tensioni internazionali influirono nel sottolineare l’importanza del ruolo dei governi locali nel sistema politico. Nelle trattative interne ai partiti di maggioranza furono ricoperti ruoli decisivi da Dossetti e da De Gasperi. Per un’intesa definitiva fu proposto il sistema maggioritario con voto limitato per i comuni con popolazione inferiore ai 10.000 abitanti e, per tutti i comuni con popolazione superiore, l’attribuzione dei due terzi dei seggi alla lista, o alle liste apparentate, che avessero riportato la maggioranza relativa dei voti. Fu introdotta una significativa novità, la “facoltà di collegamento fra le liste”, cioè l’apparentamento che molti paesi europei avevano già sperimentato da tempo. Per De Gasperi l’apparentamento poteva garantire e facilitare nei comuni e nelle provincie la costituzione di un’amministrazione a larga base, estendendo al settore autonomo amministrativo il consolidamento della democrazia in Italia, considerato un obbiettivo primario.

 

Le delusioni del maggioritario e il dibattito fra i partiti

Le delusioni del maggioritario dopo le elezioni politiche del 7 giugno 1953 rianimarono il dibattito tra i partiti sulla riforma della legge elettorale politica e amministrativa. Nella seconda legislatura furono numerose le iniziative per abrogare la legge elettorale della Camera dei deputati oltre alla proposta di legge avanzata in Senato da Luigi Sturzo il 23 ottobre 1953. La prima proposta di legge per l’abrogazione della legge 31 marzo 1953, fu avanzata il 25 giugno 1953 dall’onorevole Pietro Nenni e fu approvata il 9 giugno 1954 dalla Camera dei deputati con 427 voti favorevoli e 75 contrari, mentre al Senato fu approvata all’unanimità il 14 luglio successivo. Con la legge del 31 luglio 1954 si stabilì che le elezioni del primo ramo del Parlamento sarebbero avvenute secondo le disposizioni previste dal testo unico 5 febbraio 1948, numero 26. Furono proposti altri emendamenti da Sturzo in sede di discussione nella Commissione affari interni del Senato, quali ad esempio, l’introduzione del principio di collegio storico, la presentazione della candidatura in un’unica Regione e massimo in due collegi, le presentazioni di liste integrative. Successivamente il governo presentò un nuovo testo approvato dalla Commissione parlamentare, discusso in commissione il 20 febbraio 1958, mentre il 26 febbraio fu approvato a scrutinio segreto alla Camera dei deputati: si ebbe così la legge del 27 febbraio 1958 numero 64. Analogamente a quanto era avvenuto per la Camera dei deputati, il ritorno al sistema proporzionale fu avanzato anche per i consigli comunali dagli esponenti di quei partiti che avevano difeso il diritto di rappresentanza di tutte le forze politiche in ambito nazionale e locale. Emergeva un forte legame con le elezioni politiche. Gli apparentamenti costringevano i partiti concorrenti a snaturare la loro fisionomia e ad alterare di fatto i loro programmi, non garantendo nemmeno la stabilità dell’amministrazione comunale, come dimostrarono anche le frequenti crisi delle giunte seguite alle elezioni amministrative del 1951- 52.

 

La proporzionale del 1956

Il ritorno al sistema proporzionale, con l’abolizione dei collegamenti elettorali e del premio di maggioranza per le elezioni dei comuni maggiori, fu proposto per iniziativa governativa con il disegno di legge «modificazioni del testo unico per la composizione e la elezione degli organi delle amministrazioni comunali», approvato con decreto del presidente della Repubblica 5 aprile 1951, numero 203. Fu presentato dal ministro dell’Interno Fernando Tambroni nella seduta della Camera dei deputati del 31 gennaio 1956. La prima commissione parlamentare respinse la proposta del ministro della divisione in tre classi dei comuni, e a maggioranza si dichiarò favorevole al sistema maggioritario per quelli con popolazione fino a 10.000 abitanti e alla rappresentanza proporzionale, con scrutinio di lista, per tutti quelli con popolazione superiore. Accettò anche l’abolizione degli apparentamenti elettorali. In sede di commissione fu respinta la proposta di estendere il sistema maggioritario ai comuni con popolazione fino a 15.000 abitanti. Il testo definitivo fu approvato nella seduta della Camera dei deputati il 21 marzo e diventò la legge 23 marzo 1956, numero 136. La convergenza verso la rappresentanza proporzionale fu la risultante di diverse valutazioni politiche dei partiti. Per la Democrazia cristiana, si trattava di favorire l’autonomia del Psi dal partito togliattiano. Il 1956 rappresentava nel palcoscenico internazionale un anno di svolta, che poteva aprire sul fronte interno nuovi spiragli di dialogo politico con gli esponenti del socialismo. Il 27 maggio 1956 si svolse il terzo ciclo delle elezioni amministrative del Secondo dopoguerra. Nei comuni con popolazione inferiore ai 10.000 abitanti si continuò a votare con il sistema maggioritario del voto limitato; nei comuni in cui la popolazione era superiore ai 10.000 abitanti si sperimentò la formula proporzionale. Nel Comune di Trento, come disciplinato dalla legge regionale del 6 aprile 1956, si utilizzò, invece, lo scrutinio di lista.

Il ritorno al proporzionale costituì la risultante di una parabola, che, attraverso un decennio, ha permesso di misurare sul tema delle rappresentanze degli enti locali l’immagine di un’Italia divisa sulla dialettica tra governo centrale e governi locali, sulle relative strategie di alleanza e sulle logiche della Guerra fredda. Il dibattito tra sostenitori del proporzionale e del metodo maggioritario si inserì nella rivalutazione strumentale dei poteri locali, come formula di “contenimento del comunismo”, per i partiti ministeriali, e come “contraltare” di potere politico per le forze di sinistra, dopo la ratifica del Patto atlantico e lo scoppio della Guerra di Corea. Che aprì un più ampio dibattito tra le forze di governo sul tema della solidarietà nazionale e della democrazia protetta.

 

Irene Nicastro

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno VII, n. 67, marzo 2013)

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