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Anno VII, N. 66, febbraio 2013
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Storia (a cura di Fulvia Scopelliti) . Anno VII, N. 66, febbraio 2013

Zoom immagine Storicamente aperto
il processo unitario
che conquistò il Sud
invece di integrarlo

di Maria Rosaria Stefanelli
Grazie a Rubbettino diventa un libro
lo spettacolo teatrale di Egidia Bruno
che narra la questione meridionale


Sapevate che a San Leucio, vicino a Caserta, già nel Settecento c’era un villaggio tessile all’avanguardia basato sull’uguaglianza e sul merito in cui gli operai potevano vivere – tutti – dignitosamente? E sapevate che la prima ferrovia italiana fu quella di Napoli-Portici? E che anche il primo transatlantico che arrivava a New York era stato progettato e costruito nei pressi di Napoli, a Castellammare di Stabia? E che a Mongiana (Vibo Valentia) si ergeva il più grande complesso siderurgico d’Italia, un’imponente fabbrica di armi che riforniva anche l’esercito borbonico?

Qualcuno stenterà a crederci, ma è tutto vero. Non v’è traccia di queste notizie sui libri di scuola, da cui emerge l’immagine di un Sud sempre arretrato rispetto al Nord, un Sud predestinato a un’esistenza subalterna, in una condizione di perenne inferiorità. Sono discorsi noti e sempre attuali per chi nasce al Sud e sperimenta il disagio e l’amarezza di appartenere a una terra che, per quanto amata, a una certa età ti fa venire la voglia di fare le valigie e scappare. Per cercare fortuna, lavoro o, semplicemente, per trasformare in realtà un sogno che non ti è concesso realizzare nel paese in cui sei cresciuto. È storia comune a tanti ragazzi e anche a Egidia Bruno, attrice poliedrica e carismatica nata in Basilicata e trasferitasi, giovanissima, a Bologna, dove si è laureata al Dams e ha conseguito il diploma presso la Scuola di teatro “Galante Garrone”. Avviata la sua carriera artistica, abbandona l’idea di tornare a casa, così si trasferisce a Milano, dove vive tuttora.

Vivere lontano dal Sud, però, non significa reprimere il proprio senso di appartenenza a quella terra che, anzi, costituisce un incentivo ad aguzzare la vista e leggere la realtà in modo imparziale. Perché, si sa, bisogna sempre porsi a una certa distanza per ottenere una prospettiva più ampia di ciò che desideriamo guardare.

Così, dallo studio, dalla ricerca e dalla passione, è nato W l’Italia.it… Noi non sapevamo, un testo teatrale scritto a quattro mani con Marie Bellotti, un’artista che collabora già da tempo con Egidia Bruno (insieme avevano già scritto i testi di Non sopporto le rose blu).

 

Dal palcoscenico alla carta stampata

Il lavoro della Bruno nasce nel periodo del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia e si è distinto come una voce fuori dal coro di quel patriottismo declamato con una fierezza spesso cieca, incapace di andare al di là dei dati sterili che sono sotto gli occhi di tutti ma fondamentalmente poveri di contenuti. L’attrice, invece, decide di andare oltre e si lascia guidare dal fiuto per certe verità troppo a lungo nascoste e dalla ribellione per la passività di una storia da ingoiare a memoria senza farsi troppe domande.

Legge, si documenta, acquisisce il maggior numero di informazioni possibili: inizia da Terroni di Pino Aprile per approdare alla rete, che lei stessa ha definito un mezzo di informazione democratico che le fornisce dati e nozioni sorprendenti. Alla luce di ciò, si può affermare che il titolo dello spettacolo ha un duplice valore: alludere al mare magnum di Internet e suggerire come, anche all’epoca in cui per “navigatori” si intendono gli internauti, la famosa “questione meridionale” sia quanto mai attuale.

Lo spettacolo fa il giro dei piccoli e grandi teatri italiani ed emoziona il pubblico del Sud come quello del Nord, che dopo ogni performance reclama il testo, non solo per la valenza artistica della drammaturgia ma anche per avere in mano un esempio di informazione libera, pura, scevra da qualsivoglia condizionamento esterno.

W l’Italia.it… Noi non sapevamo diventa così un libro, edito da Rubbettino (pp. 72, € 8,00), il cui testo è assolutamente fedele alla pièce teatrale.

Un atto unico, intervallato solo da cenni di canzoni popolari che l’attrice esegue a cappella sfruttando, a mo’ di percussioni, un semplice sgabello e il movimento ritmico dei suoi piedi. Nel lungo monologo, l’artista lucana ripercorre le principali tappe dell’Unità d’Italia raccontando un Sud che lotta, si indigna, si infervora e si danna per ideali di libertà che, ben presto, si riveleranno fragili e illusori.

Il testo può essere suddiviso in tre “capitoli” ideali: nel primo si parla di brigantaggio, della guerra di resistenza e del ruolo delle donne brigantesse, non intese come mogli di briganti ma come combattenti in prima persona; nel secondo si narra dell’industrializzazione al Sud prima e dopo l’Unità, per poi passare al successivo smantellamento del tessuto industriale meridionale da parte del Nord; nell’ultimo, quello più amaro, si affrontano senza censure le responsabilità del Sud nel processo che lo ha portato all’attuale arretratezza. In quest’ultima parte si estrinseca tutta l’obiettività di Egidia Bruno e il suo desiderio di riportare a galla la verità senza forzature, né in bene né in male, senza calcare la mano su un Meridione ingiustamente defraudato dalla sua grandezza, che sarebbe stata una rilettura dei fatti non meno scorretta di quella operata da coloro che hanno cancellato con un colpo di spugna le glorie del Sud. Le responsabilità, in realtà, sono piuttosto bilanciate, e la Bruno lo ribadisce senza mezzi termini: «ma è anche vero, come dice una mia amica, che in una coppia le cose si fanno in due: e se il Nord agì in questo modo è perché il Sud glielo permise». Si focalizza, quindi, sul cattivo operato della classe politica meridionale per proseguire, poi, con la mentalità della gente comune, di cui denuncia l’assenza di una «veduta collettiva» – parole dello storico Piero Bevilacqua che l’autrice cita testualmente –, ovvero quel senso di collaborazione operosa che caratterizza le famiglie del Nord, non necessariamente e non solo quando tra loro sono presenti legami di consanguineità. E cita anche Pasquale Villari, di cui riporta l’osservazione «nel Sud troppo spesso si sente “io, io” e troppo poco “noi, noi”».

Un lavoro critico, dunque, nonché un’operazione culturale dall’alto valore educativo e pedagogico, non solo per le preziose informazioni che l’autrice elargisce generosamente, ma anche per il metodo che ha adoperato, sotto la spinta irrefrenabile della curiosità, motore sempiterno di ogni umana ricerca.

 

Maria Rosaria Stefanelli

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno VII, n. 66, febbraio 2013)

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