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Anno VII, N. 66, febbraio 2013
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Comunicazione e Sociologia (a cura di Ilenia Marrapodi) . Anno VII, N. 66, febbraio 2013

Zoom immagine Nuove sfide
giornalistiche

di Federica Lento
Da Dissensi un libro
sui reporter, prefato
da Pietro Ingrao


In un’epoca in cui lo sviluppo dei mezzi di comunicazione avviene in maniera frenetica e inarrestabile, inevitabilmente ci si deve fermare quantomeno a domandarsi come i media stiano reagendo al cambiamento e che futuro li aspetti. L’idea misteriosa e avventurosa del giornalista che indaga, cerca la verità, quella della celebre foto di Indro Montanelli con la macchina da scrivere poggiata sulle ginocchia pronto a testimoniare la Rivoluzione ungherese del 1956, sta lasciando il posto al concetto di un giornalismo “comodo”, in cui i redattori stanno seduti ad aspettare che le notizie vengano a loro e non il contrario. Il Secolo XIX, nello scorso mese di luglio, pubblicava ad esempio un articolo in cui veniva tratteggiata la nuova figura del giornalista, un’immagine decisamente sui generis: si trattava di Al, abbreviazione di algoritmo, un rivoluzionario programma di intelligenza artificiale in grado di digerire dati economici, sportivi, semplici elementi di cronaca e di tradurli in un pezzo pronto per la pubblicazione sia on line che in versione cartacea. Ma può questo definirsi giornalismo?

Nell’interrogarsi sulla postazione di schieramento, combattuti tra “apocalittici” e “integrati”, Fausto Pellegrini ci regala un saggio, La bisaccia del giornalista. L’informazione necessaria per il XXI secolo (Dissensi, pp. 136, € 12,50). Il testo, la cui Prefazione è a firma di Pietro Ingrao, analizza il destino di una professione estremamente affascinante e strettamente legata al movimento, al concetto di dinamismo e di indagine dei fatti.

 

Un viaggio alla ricerca della verità

La storia del giornalismo ha radici nel mondo classico, da Erodoto dove già l’idea di cronaca era unita a doppio filo all’immagine del continuo divenire e della costante esplorazione per descrivere il mondo.

Un excursus lungo i secoli che non hanno modificato la dinamica di tale mestiere, caratterizzato da una scrittura nitida, asciutta, precisa, rapida ma non improvvisata, attraverso la quale il giornalista analizza con esattezza e concisione i fatti trasformandoli in storie, ponendo al centro dell’attenzione gli esseri umani, andando alla carne e alle ossa dei protagonisti della vicenda. Un reportage, ad esempio, fa presa sul lettore se da esso trapela la curiosità nei confronti del mondo, l’ansia di conoscere una cultura aliena, di aprirsi all’altro, stabilendo contatti empatici. Ogni inviato, insomma, è prima di tutto un viaggiatore che condivide occhi che vogliono vedere, intelletto che vuol comprendere e stupore che vuol raccontare. Si tratta della capacità di meravigliarsi, di sbalordirsi, elementi che hanno reso celebri le cronache di grandi giornalisti come Hemingway, Parise e Terzani. Osservare ciò che non si conosce con attesa e interesse, senza chiusure culturali e giudizi arroganti, scegliere il confronto, che possa generare l’incontro e non lo scontro, questo è l’approccio dell’inviato. È chiaro, per citare Kapuściński, che oggi i reporter devono compiere il proprio lavoro non dimenticando di essere, prima di tutto, traduttori di culture: viaggiano, scrutano, analizzano per spiegare le ragioni degli altri, favorendo accettazione e collaborazione anziché chiusura e conflitto.

Esempio di questo modello è il giornalismo d’oltreoceano che, negli anni Sessanta, produsse il new journalism, soprattutto a New York e in California, cambiando la tradizione dello scrivere le notizie, applicando tecniche ed espedienti letterari. Quello fu un decennio di radicali cambiamenti negli stili di vita, sfociati poi in conquiste o, in certi casi, detrimenti sociali come l’emancipazione femminile, la contestazione giovanile, il permissivismo sessuale, la “morte di Dio”, la coscienza nera. Nella società americana, che in quegli anni approdava alla nuova frontiera del consumismo, si affermò l’importanza dei comportamenti, il valore delle mode, dei gusti, degli stili di vita; fatti immateriali che non potevano essere descritti attraverso le regole del giornalismo classico ma soltanto introducendo una lingua ricercata, plastica e tecniche sperimentali al confine tra cronaca e letteratura. Nacquero dunque nuovi generi, il journalistic novel di Truman Capote, la non-fiction novel di Tom Wolfe, che intendevano dare al lettore l’impressione di essere sulla scena dei fatti: be there era l’espressione chiave.

Per raccontare un fatto attraverso i pensieri, le parole, le emozioni di chi lo aveva vissuto in prima persona era necessario passare molto tempo, a volte mesi, con le persone delle quali si doveva parlare. Il new journalism ampliò il concetto di “notiziabilità”, del rendere manifeste e misurabili, secondo i canoni della notizia, condizioni sociali ed esperienze individuali (linguaggi, mentalità, atteggiamenti) che di per sé non lo erano, attraverso ricerche dettagliate sull’ambiente, sul gergo, sulle sensazioni e sui ricordi. Siamo di fronte ad un superamento dell’era del reporter: il giornalista non va semplicemente a caccia della notizia, non assiste all’evento con gli occhi del cronista, il suo sguardo ora è diverso, più profondo, si propone di penetrare l’inconoscibile.

Oltre a una descrizione precisa e verificata dei fatti, l’importante diviene adesso fornire l’insieme di parametri contestuali che permettano di giungere al significato profondo dell’accaduto. Secondo Pellegrini questo è il modello da mantenere nel giornalismo, accettando e utilizzando il prepotente imporsi dei nuovi mezzi di comunicazione ma senza snaturare la vera missione del giornalista.

 

Nella bisaccia del giornalista

Tiziano Terzani raccontava il suo mestiere come un percorso, una ricerca della verità che presuppone movimento. Un suo vecchio principio era quello di viaggiare leggero: un paio di libri, una macchina fotografica per fermare il mondo in immagini, scarpe da ginnastica per camminare comodi e mantenere il fiato durante la corsa quotidiana. Queste, le poche cose che deve mettere un vero giornalista nella sua bisaccia. Il suo viaggio “tra inchiostro e pelle” è fatto per conoscere, conquistare, sopravvivere, per spirito di avventura, per essere testimone di eventi particolari o spettacolari affinché si racconti la realtà con l’abilità di far entrare, vedere, sentire e vivere i fatti. La missione del giornalista ha un carattere sociale, antropologico, epistemologico, morale e presuppone uno sguardo aperto e critico sul mondo. Il vero giornalista deve vivere i posti che attraversa e sentire la gente; contro l’idea di oggettività tipica del giornalismo anglosassone, Pellegrini parla della figura del cronista che è spinto dal desiderio di comprendere le ragioni degli altri, cercando di calarsi completamente nella realtà che deve raccontare. Il giornalista vero deve insomma vivere la storia fino in fondo, creare un legame con le persone, quello che una fredda rete di comunicazione non potrà mai sostituire; il suo non essere imparziale deve naturalmente essere bilanciato da una profonda etica professionale e da una concreta onestà intellettuale.

 

Federica Lento

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno VII, n. 66, febbraio 2013)

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