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Anno VII, n. 65, gennaio 2013
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Letteratura contemporanea (a cura di Francesca Rinaldi) . Anno VII, n. 65, gennaio 2013

Zoom immagine Un punto di vista “privilegiato”
e una riflessione etica e storica
sui complici indiretti della Shoah

di Rossella Michienzi
In un romanzo da Ponte alle Grazie,
le colpe individuali nei totalitarismi


Come ogni anno il 27 gennaio è la giornata dedicata alla commemorazione dell’Olocausto, delle vittime del nazionalsocialismo e del fascismo. Una giornata dedicata alla memoria di eventi catastrofici, di una storia brutale cha ha visto la più totale e sistematica violazione dei diritti umani, primo tra tutti quello alla vita.

Il secolo scorso, non a caso definito come “il secolo dei genocidi”, è stato testimone di un progetto d’eliminazione di massa che non ha precedenti: nel gennaio del 1942 la Conferenza di Wannsee approva il piano di “soluzione finale” del cosiddetto problema ebraico, che prevede la cancellazione di questo popolo dalla faccia della Terra. Lo sterminio degli ebrei non ha una motivazione territoriale, non è determinato da ragioni espansionistiche o da una per quanto deviata strategia politica. È deciso sulla base del fatto che il popolo ebraico non merita di vivere. Molta è la letteratura sull’argomento, sono stati pubblicati molti romanzi e innumerevoli saggi che danno spazio alle vittime o ai carnefici dei totalitarismi.

Invece Nir Baram, giovane autore di Tel Aviv, con il suo romanzo Brave persone (Ponte alle Grazie pp. 564, € 22,00), parla dei totalitarismi da una prospettiva insolita: inserisce al centro della narrazione due brave persone le cui scelte sembrano di volta in volta plausibili, ma che poi porteranno verso drammatiche conseguenze. Nel far ciò, l’autore pone il lettore di fronte a una questione essenzialmente etica e strettamente legata al concetto di responsabilità. Anzi, si potrebbe quasi dire che è attraverso il concetto di deresponsabilizzazione che si può tentare di fornire una valida interpretazione dei motivi che spinsero milioni di uomini comuni a obbedire ai comandi dei regimi totalitari, diventando parte della macchina più distruttiva che l’uomo sia mai stato in grado di generare: la Shoah. Il libro, pubblicato nel 2011, gli è valsa l’entusiasta accoglienza dei mostri sacri della letteratura israeliana come Amos Oz e Abraham Yehoshua.

 

Le vicende parallele di due silenziosi complici della tragedia

L’intero romanzo è una profonda riflessione su chi collaborò con i regimi totalitari, ma non su chi lo fece direttamente, piuttosto su coloro che indirettamente o inconsapevolmente si resero complici di quei regimi. Infatti, la maggior parte delle persone che ebbe una responsabilità in seno a un processo così distruttivo era composta da gente comune, proprio come Thomas e Saša, protagonisti della vicenda parallela che narra magistralmente Baram. Si tratta di individui che non hanno particolari convinzioni ideologiche né forti credenze politiche ma che, per un motivo o per un altro, si sono trasformati in ingranaggi funzionali alla costruzione di una macchina pericolosa e distruttiva.

La narrazione è costruita brillantemente: due vicende parallele, colte nel cruciale triennio intercorso tra la Notte dei cristalli (novembre 1938) e l’inizio della campagna di Russia della Wehrmacht (giugno 1941).

Thomas Heiselberg, giovane pubblicitario tedesco , rimane senza lavoro dopo che la ditta americana presso cui era impiegato lascia la Germania. Consapevole dell’importanza delle ricerche di mercato e della necessità di conoscere quello che lui più volte definisce «spirito del popolo», al quale le imprese commerciali generalmente si rivolgono, Thomas, apolitico (o almeno crede di esserlo) e interessato solo al successo professionale, si ritrova a prestare la propria creatività al servizio del regime nazista impegnato nella «gestione della popolazione» della Polonia occupata. C’è in atto un processo di deresponsabilizzazione che porta a una disumanizzazione che non ha limiti: il suo «modello del tipo nazionale polacco», che lui aveva creato sulla base delle esperienze maturate nel marketing, ora serve egregiamente a giustificare le deportazioni. Vengono sostituiti i possibili acquirenti di una merce con delle popolazioni sottomesse, che sono oppresse da un regime totalitario. Thomas si vende letteralmente come esperto di Psicologia dei popoli e diventa un accreditato consulente del Ministero degli Esteri in materia di arresti, condanne a morte, campi di lavoro e, naturalmente, la “questione ebraica”.

Lui però si ritiene innocente, si considera privo di qualunque senso di colpa, crede di non avere nulla a che fare con simili tragedie, fa solo il suo lavoro, quello che gli riesce meglio, produce documenti in qualsiasi ambito infarciti di formulazioni brillanti. «Ditemi di cosa avete bisogno e vi cucirò una disciplina su misura», così rispondeva a qualunque domanda gli venisse posta. Sentimenti vacillanti, deboli, che non potevano competere con la sua vera coscienza. Questo era lo stesso problema di Aleksandra (Saša) Weisberg, la cui vita cambia radicalmente sulla scia di quell’odore di tragedia che l’avrebbe portata ad una doppiezza spirituale, potremmo dire, irrisolta ed irrisolvibile. Baram narra in modo lineare la sua vicenda: il 1938 è l’anno in cui la sua famiglia cade nelle maglie della repressione staliniana a seguito dell’arresto dell’amante del padre, una poetessa sospettata di dissidenza. Dopo la deportazione dei genitori, Saša riallaccia un antico legame amoroso che le apre le porte dell’Nkvd (la famigerata polizia segreta) e ben presto diviene maestra nell’estorcere confessioni. Dice: «com’era facile giocare con le debolezze umane», «sgretolare l’immagine» che le persone si erano fatte di loro stesse. Il suo compito è quello di rendere più efficienti le procedure d’incriminazione e così Saša si rende responsabile dell’arresto di migliaia di persone, a cominciare dall’intera cerchia degli amici paterni. La motivazione che la spinge a tanto è quella di salvare i due fratelli minori, relegati in un campo di lavoro o in un orfanotrofio . Ma ne ottiene solo nuova sofferenza: i fratelli cadono in guerra e lei vive con la consapevolezza di apparire un mostro che ha sterminato tutti i propri cari. Non dirà mai di essere pentita, tuttavia finirà, come Heiselberg, col riconoscere che il movente delle proprie scelte non è mai stato l’amore fraterno ma l’attaccamento alla vita. Emerge una dura verità, ossia che «siamo macchine fatte per sopravvivere», talmente ansiose di salvarci la pelle da perdere ogni capacità di distinguere tra verità e menzogna. Spinti da un desiderio di autoaffermazione e di sopravvivenza, i protagonisti del romanzo non perdono di vista la cosa che sembra essere la più importante: non farsi schiacciare, cercare di non soccombere mai. Ed è proprio qui che sta la denuncia del libro, in quell’ incapacità di riconoscere l’altro, di riconoscere la sua umanità. «Io mi sento responsabile non appena un uomo posa il suo sguardo su di me» diceva Dostoevskij, ed è questo che ci distingue dagli animali. Ma nella storia non è sempre stato così. Specie nel secolo scorso.

 

Le responsabilità degli uomini comuni

L’autore chiama in causa temi complessi, essenzialmente etici, non ricerca le cause storiche della Shoah, ma si rivolge alla comprensione umana del fatto, ponendosi una domanda cruciale: perché persone istruite assistono al crescere del totalitarismo nei loro paesi, non solo senza tentare di reagire, ma cercando addirittura un qualche vantaggio personale? L’atteggiamento di Thomas è quello degli uomini le cui azioni sono rivolte solo al soddisfacimento dei propri bisogni, il suo ruolo è quello svolto dalle persone senza qualità, senza ideali, che già aveva compreso Hannah Arendt nelle sue celebri corrispondenze da Gerusalemme durante il processo ad Adolf Eichmann. L’arte in cui Thomas e Saša mostrano di eccellere è la medesima di Eichmann, ossia: condannare a morte, indirettamente, tramite un ordine, tramite delle carte grazie alle quali si mette in moto una serie di eventi che sfuggono al controllo e portano alla morte. Il romanzo di Nir Baram accompagna i lettori attraverso una riflessione profonda sulla totale mancanza di responsabilità che ha portato molte persone ad aggiungere sempre più tasselli al gigantesco puzzle dell’orrore.

È molto interessante mettere in risalto una relazione evidente tra questo libro e quello di Christopher Browning, Uomini comuni (Einaudi). In questo caso siamo di fronte a persone che, per puro spirito di emulazione o desiderio di carriera, mutano la loro condizione: da uomini comuni a spietati assassini. All’alba del 13 luglio 1942, gli uomini del Battaglione 101 della Riserva di Polizia tedesca (uomini comuni, né soldati di carriera, né tanto meno Ss) entrarono nel villaggio polacco di Józefów. Al tramonto, avevano rastrellato 1.800 ebrei: compito svolto con sorprendente zelo. Il libro si basa sui resoconti delle testimonianze degli ex membri dell’Unità avvenuti nel processo del ’62 e rappresenta uno dei rari successi giudiziari contro esecutori dell’Olocausto verificatosi dopo la guerra. Particolarmente toccanti sono le descrizioni dei protagonisti del massacro, gli ufficiali del battaglione, così umani anche se inevitabilmente trascinati e macchiati dagli eccidi. Questo atteggiamento fa pensare a quello di centinaia di persone durante la dittatura militare di Videla in Argentina, iniziata in seguito al golpe del 24 marzo 1976. Essendo dittatoriale, il governo Videla era caratterizzato da una naturale tendenza all’eliminazione di qualunque forma di opposizione attraverso l’uso della forza. Con il pretesto di effettuare un processo di riorganizzazione nazionale è stato instaurato un terrorismo di stato, centinaia di uomini, ritenuti sovversivi, sono stati gettati in mare da aeroplani in volo dopo esser stati narcotizzati. In tutta questa vicenda, centinaia di persone che, alle dipendenze dell’armata argentina, conducevano gli aerei dei famosi “voli della morte” dichiararono che non sapevano o forse non volevano sapere cosa o chi gettavano nell’oceano da quegli aerei. Questi militari partivano, gettavano persone vive in mare dagli aeroplani e, poi, rientravano a casa riprendendo, come se nulla fosse, la routine quotidiana: obbedivano a degli ordini, svolgevano il proprio lavoro. Ma la domanda è questa: gli artefici diretti o indiretti di quella carneficina erano consapevoli o no delle proprie azioni? È molto difficile cercare di capire fino a che punto potevano vivere con la loro coscienza e sembra quasi impossibile tentare di spiegare il motivo per cui persone brillanti e istruite come i protagonisti del romanzo abbiano potuto collaborare ai regimi totalitari.

È proprio a causa di persone come Thomas e Aleksandra, che si sono spogliati di qualunque responsabilità, che si è reso possibile un processo che ha portato alla totale disumanizzazione degli ebrei; grazie a loro si è attuato un meccanismo per il quale l’uomo è diventato un “non uomo”.

Questo romanzo sembra un vero e proprio monito per le nuove generazioni: attraverso due brave persone Nir Baram ribadisce quanto peso abbiano le scelte individuali. Tutta la riflessione sembra tirare in causa non solo il passato ma anche il futuro, perché finché l’uomo continuerà a non opporsi a quel processo di deresponsabilizzazione in atto nella nostra società, Auschwitz, purtroppo, resterà ancora possibile.

 

Rossella Michienzi

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno VII, n. 65, gennaio 2013)

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