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Anno VII, n. 65, gennaio 2013
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Problemi e riflessioni (a cura di Angela Galloro) . Anno VII, n. 65, gennaio 2013

Zoom immagine Fiat: tra dure condizioni
d’impiego e futuro incerto

di Francesca Ielpo
Da Aliberti, un amaro reportage racconta la rabbia
dei lavoratori per le promesse eluse dall’azienda


L’operaio è l’emblema rivoluzionario di un sistema economico che non si adegua più alle esigenze e ai bisogni di cittadini costretti, da vicissitudini contratte “dall’alto”, a campare a stento. Se redditi e diritti calano, intervengono i sindacati. Ciò che viene negato viene sottolineato, urlato in dichiarazioni e manifestazioni. Ma i grandi capi non smettono certo di godere, di tapparsi le orecchie tanto quanto basta per fingere di risolvere. Per poi arrivare a punto e a capo. Casi infiniti, storie di lavoratori che lottano e mal sopportano, si ritrovano in C’era una volta la Fiat. Tutto quello che l’azienda non vuole che sappiate (Aliberti editore, pp. 128, € 12,00), scritto con spirito critico e indagatore da Salvatore Cannavò, giornalista e collaboratore de Il Fatto Quotidiano.

 

Uomini o robot?

Cannavò riporta le parole di Pasquale, operaio alle carrozzerie di Mirafiori: «Perché la cosa assurda che ti capita con la linea di montaggio è che più il lavoro è facile più dai fuori di testa, perché la ripetizione è micidiale. Se è più difficile, magari puoi utilizzare un po’ di malizia per cercare di rallentare il ritmo e provare un po’ a pensare». Commenta il giornalista: «Certo non c’è quella rabbia fisica, non trasuda la rivolta, ma la fabbrica è ancora tutta sulle spalle di chi ci lavora, un ambiente che induce alla “paranoia”, straniante e straniera allo stesso tempo. Anche se ci si lavora da oltre vent’anni. Vent’anni di giornate uguali e faticose».

Si comincia alle 05:45, si termina alle 14:00. Le pause sono di dieci e quindici minuti, più il tempo necessario per un pranzo a mensa, «e poi c’è il silenzio, fatto dall’esterno dello stabilimento pochi minuti dopo l’uscita; lo sciame operaio si disperde subito, veloce come la rassegnazione che si è impadronita del mondo del lavoro. Resta però una sensazione, quella della dignità. Pasquale, e molti come lui, minimizzano la fatica, lo stress, l’alienazione, “la paranoia” come la chiama lui. La sente ma non se ne lamenta, non si atteggia a vittima. Sarà perché si è iscritto al sindacato, perché crede nella lotta comune e in qualche possibilità di riscatto»: così leggiamo. Così, la rabbia si accenna su labbra che vorrebbero pronunciare parole d’azione per modificare la passività, l’inumanità e l’inettitudine di un sistema lavorativo che crea cose e distrugge persone. Con un amministratore delegato, Sergio Marchionne, dallo «stile vittimista», la Fiat crea confusione, lamentele e si meraviglia di tanta ingratitudine da parte degli italiani verso un’azienda «che, è il ragionamento supposto, per l’Italia ha fatto tanto e in cambio ha avuto solo lamentele». Codesto atteggiamento porterà a giustificare «il definitivo abbandono dell’Italia da parte della Fiat o, più probabilmente, una riduzione significativa della presenza industriale nel nostro Paese», dice l’autore.

Questa, l’illuminante psicologia economica della Fiat e dei suoi lavoratori. Questi, i primi capitoli del libro: La vittima Marchionne, Vivere a Mirafiori, Vivere a Pomigliano. Si continua con l’analisi approfondita dei misfatti accaduti nei successivi cinque capitoli: Il tramonto di Termini Imerese; Melfi, la fabbrica della paura; A sud di Cassino; Lavorare più veloci, il Wcm; Padroni e operai.

Le parole dell’autore si intrecciano a quelle di operai in mobilità e in cassa integrazione. Di operai che si sentono ripetere promesse non mantenute né da Marchionne, né dal governo. Si parla di terrore e discriminazione nel caso dei tre operai licenziati allo stabilimento di Melfi perché iscritti al sindacato Fiom. Tuttavia, ribadisce Cannavò, «I casi sono ancora più numerosi, ma spesso affondano nell’anonimato delle cronache locali e i giornali disposti a criticare la Fiat non abbondano». Infatti si potrebbe stilare una lista densa di nomi e questioni da risolvere. Si pensi ancora al caso Capozzi, dipendente dell’azienda, licenziato perché mittente di un’email che incitava i suoi colleghi di lavoro alla rivolta. La sua esclusione da quella che è la sua unica fonte di reddito pare ingiusta e fuori luogo anche al giudice Rocchetti. Sembrano venir fuori, così, da un grigio sfondo di crisi di mercato, nuovi stabilimenti in Polonia (che portano alla riduzione non solo dei costi di produzione ma anche dell’occupazione nostrana), un minimo di speranza. Capozzi commenta: «C’è ancora una giustizia che tutela chi tutela i diritti».

Sulla soglia della disperazione troviamo Cassino. La cultura del difendersi attraverso i sindacati sembra non esistere. Si aspetta una manna dal cielo e, dipendendo esclusivamente dal Lingotto di Torino, si ben spera che esso non chiuda. Ciò significherebbe la fine dello stabilimento laziale.

 

La velocità dell’improduttività

Si ritorna a parlare di uomini robot con World class manufacturing (Wcm): un sistema di organizzazione del lavoro che ha permesso alla Fiat di ridurre le pause e organizzare strategie produttive. Leggere la definizione che il giornalista ne riporta incute timore. Si pensa, senza sforzare troppo il ricordo, a George Orwell e al suo 1984, scorrendo gli occhi su: «Il sistema si basa sulla riduzione sistematica di ogni tipo di spreco e perdita, con il coinvolgimento di tutti, attraverso l’impiego rigoroso di metodi e standard».

Salvatore Cannavò, con il suo reportage, riporta la descrizione di un mondo perfetto che fa acqua da tutte le parti. Veloci sì, ma licenziati no.

 

Francesca Ielpo

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno VII, n. 65, gennaio 2013)

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