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Graziana Pecora
Anno VI, n. 62, ottobre 2012
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Biografie (a cura di Fulvia Scopelliti) . Anno VI, n. 62, ottobre 2012

Zoom immagine Il Mercurion: valle
di noti ritiri mistici
e saperi medievali

di Guglielmo Colombero
Da Ferrari, un viaggio nel passato
sulle tracce dei monaci basiliani


«Durante il periodo napoleonico (1806-1812), un ufficiale francese a Salerno acquistò del formaggio in un mercato rionale. Sua somma sorpresa fu quella di constatare che l’oggetto acquistato era stato avvolto in una pergamena strappata da uno dei tanti codici greci provenienti da monasteri della regione mercuriense e finiti nell’Abbazia benedettina di Cava dei Tirreni». Così racconta Giovanni Russo, nativo di Orsomarso (l’incantevole borgo rustico situato allo sbocco delle gole del fiume Argentino) nelle prime pagine del volume La valle dei monasteri. Il Mercurion e l’Argentino della Collana Historiae (Ferrari editore, pp. 192, € 20,00). Attualmente direttore generale dell’Anffas (Centro di riabilitazione per disabili intellettivi e relazionali) di Firenze, Russo è un metodico e appassionato cultore della Magna Grecia e del monachesimo basiliano e calabro-bizantino.

Nel suo saggio ripercorre pazientemente, con il prezioso supporto iconografico curato da Pietro Rotondaro, i sentieri del monachesimo calabrese di origine greca, in tutti i suoi aspetti: quello caritatevole e spirituale in primo luogo, ma anche il fervore culturale, l’amore per la natura, l’indole contemplativa armonizzata con la laboriosità manuale e lo studio dei testi sacri e dei classici. Ripercorrendo le valli del Lao e dell’Argentino, nella zona Nord-occidentale della Calabria, Russo indaga a fondo sui caratteri dell’Eparchia del Mercurion: con questo termine greco, corrispondente grosso modo al nostro “diocesi”, si indica la mappa di insediamenti monastici nel bacino compreso fra i fiumi Lao e Mercure, fra il paese di Laino a monte e la foce a valle. «Quello del monachesimo mercuriense rappresenta una parentesi storica di cui si può essere orgogliosi», afferma Russo nell’Introduzione, «La sua particolarità risiede nel fatto che non riguarda avvenimenti bellici o di contrapposizione tra popoli o idee, ma introduce concetti che lo stesso mondo moderno fa fatica a recepire: è una pagina di storia che parla di ospitalità, di pace, di studio, di spiritualità, di contemplazione della natura e di adorazione dell’Assoluto».

 

Tre ondate migratorie di monaci greci verso la Calabria

Il primo embrione del monachesimo greco si sviluppa in Egitto (ad Alessandria e nella Tebaide), si espande a partire dall’epoca di Costantino il Grande e, ramificandosi in varie espressioni di ascetismo (anacoreti, eremiti, stiliti, dendriti, cenobiti), conserva il ceppo originario dell’imitazione del Cristo in preghiera nel deserto. Intorno al 375, il monaco Basilio di Cesarea, proveniente dalla Cappadocia, si ritira in meditazione nel deserto e compila le prime Regole per gli adepti. Si deve a Basilio l’introduzione del monachesimo greco a Costantinopoli: ritenuto il padre fondatore del cenobitismo, nella sua dottrina insiste «sulla necessità della vita in comune, sull’obbedienza al padre spirituale della comunità (egumeno o igumeno), che doveva essere considerato dai monaci come il rappresentante di Cristo e sull’obbligo del lavoro manuale o intellettuale, che doveva essere praticato a gruppi e nelle stesse ore». A partire dal VI secolo, prende il via la prima ondata migratoria di monaci, conosciuti come basiliani, dai Balcani verso la Calabria: il flusso aumenta notevolmente nel VII secolo, sotto la spinta dell’invasione araba della Siria, dell’Egitto, della Libia e della Palestina (il celebre Codice Purpureo di Rossano Calabro, risalente al 650, proviene infatti dalla Siria).

Una seconda ondata migratoria è conseguenza della lotta iconoclastica a Costantinopoli: nel 726 l’imperatore Leone III l’Isaurico, ferocemente ostile al culto delle immagini sacre, ordina la demolizione della venerata effigie d’oro di Cristo apposta sul portone bronzeo del palazzo imperiale. Scoppiano tumulti nella capitale, e Ravenna addirittura insorge contro il sovrano iconoclasta. Ma è durante il regno del successore di Leone III, Costantino V Copronimo, che la persecuzione contro i monaci dissidenti diviene efferata e sistematica: i cultori delle immagini sacre vengono braccati, incarcerati, spesso lapidati, mutilati o accecati. Lo storico John Julius Norwich racconta addirittura che in Tracia le guardie imperiali si divertivano a bruciare la barba ai monaci arrestati. Si verifica così una vera e propria migrazione di massa dei monaci greci verso la Calabria: «Oltre alla grande speranza di salvezza, i monaci greci portarono nell’Italia meridionale un notevole bagaglio culturale, tanto da poter affermare che il movimento iconoclasta, nonostante avesse provocato il fenomeno della «monacomachia», produsse nelle regioni dell’Italia meridionale, ripercussioni assolutamente positive, non solo dal punto di vista religioso, ma anche sociale, culturale ed artistico», osserva Russo.

Una terza ondata migratoria risale, invece, al IX secolo: la conquista araba della Sicilia, avvenuta fra l’826 e il 902, provoca l’esodo dei monaci dall’isola verso la Calabria, e il flusso di migranti si sposta poi verso il settentrione della regione, ai confini con la Lucania, per sfuggire alle scorrerie dei saraceni. È questo il periodo di massima fioritura del Mercurion, al punto da meritare l’appellativo di Nuova Tebaide.

 

La leggendaria santità di Nilo di Rossano, “atleta di Dio”

Il santo più celebre del Mercurion nasce nel 910 a Rossano da una famiglia agiata: è un giovane colto e raffinato nel vestire, dalla voce melodiosa molto adatta al canto religioso. Nilo si sposa e mette al mondo una figlia, ma intorno all’età di trent’anni, in preda a una crisi mistica seguita a un tremendo attacco di febbre, abbandona la famiglia e si stabilisce al Mercurion. Russo così ricostruisce il suo itinerario verso la valle dei monasteri: «Un percorso che richiese una giornata di cammino: Rossano, Corigliano Calabro, guado del fiume Crati presso Cassano all’Ionio (dove Nilo guarì dalla febbre), Castrovillari, Morano, Mormanno, Laino Castello, e, attraverso la valle del fiume Lao, la famosa Eparchia monastica del Mercurion».

L’ascesi di Nilo ha un avvio quasi compulsivo, fra le mura del monastero di San Nazario sul monte Bulgheria: «Appena arrivato a destinazione, stanchissimo, rifiutò ogni conforto di cibo e di vino che i monaci gli offrivano e, dimenticata la vita di agi goduta fino a poco tempo prima, si dedicò a esercizi inumani e a severe pratiche ascetiche. Indossò una tunica di pelle che si era cucito da sé, sulla quale aveva appuntato una serie di croci, e cominciò a girare sempre a capo scoperto e a piedi nudi. Qui, Nicola dimorò per quaranta giorni, durante i quali non trascurò mai la cara abitudine di modulare la voce; si dedicò all’esercizio della calligrafia, continuando ad esercitare la sua scrittura sottile e minuta. Tutte le ore diurne a San Nazario furono impiegate nella trascrizione di opere antiche e di codici».

Singolare è la furibonda misoginia del santo: si narra che un giorno venne posseduto da «un desiderio carnale così potente e tormentoso che per domarlo fu costretto a rotolarsi in mezzo ai rovi e alle ortiche che abbondavano nei pressi dell’eremo mercuriense». E, nel corso di un colloquio con alcuni prelati, pare che Nilo abbia affermato «e poi sappiamo noi se sia Dio ad unire un uomo e una donna, oppure soltanto l’amore carnale ed il piacere della carne?»: del resto, essendo stato un tempo sposato, la sessualità non era qualcosa di sconosciuto per Nilo, che probabilmente era ancora tormentato dal ricordo di un qualcosa a cui aveva dovuto rinunciare forse a caro prezzo. Secondo uno studioso citato da Russo, il Cappelli, «in Nilo si riscontra, oltre al concetto negativo che in genere i monaci avevano delle donne, un sentimento che rasentava un’idea ossessiva e morbosa, probabilmente derivante da una contingenza particolare della sua vita giovanile, che riaffiorava tutte le volte che aveva a che fare con una donna. Come se tutte le donne gli ricordassero quella che lui aveva amato e che aveva abbandonato».

San Nilo muore agli albori del nuovo millennio, alla veneranda età di 95 anni, dopo aver incontrato a Roma sia il papa Gregorio V che l’imperatore Ottone III.

 

L’emozione del ritrovamento della Grotta dell’Angelo

Secondo lo storico Panebianco, «la posizione geografica della valle in cui oggi si adagia il centro abitato di Orsomarso, rappresentava il luogo ideale per chi, amante della solitudine e del raccoglimento, era, nel contempo, costretto a sfuggire alle incursioni musulmane che venivano dal mare». Infatti, nella «grotta di San Michele o di Sant’Angelo, sulla timpa della Simara, ad Orsomarso, ormai logorati dal tempo e dall’incuria dell’uomo, sono visibili i resti di un affresco raffigurante l’Annunciazione dell’Arcangelo a Maria. Pur fra mille crepe è possibile intravedere la forma di un trono, su cui probabilmente era assisa Maria di Nazareth e sulla sua destra una figura, abbigliata con una tunica rossa, presenta una serie di pennellate anch’esse rosse, che richiamano alla mente le lunghe ali di un angelo. In un altro affresco, ormai quasi del tutto sparito a causa del crollo di una delle pareti del santuario rupestre, in basso, si vede molto distintamente la piccola immagine di un uomo nero con ali simili a quelle di un pipistrello, spiegate verso l’alto e una coda formante una voluta anch’essa verso l’alto. Anche in questa grotta, come spesso accade nelle chiese rupestri, angelo e demonio hanno pari dignità pittorica; sono entrambi raffigurati, perché entrambi potenziali abitatori delle grotte». Fu il professor Orazio Campagna di Cirella a identificare l’asceterio in cui visse penitente Nilo di Rossano: era l’8 ottobre 1987, all’interno della grotta è visibile la mensa degli asceti, una «grossa pietra, sulla quale era posata in luogo di scodella un frammento di anfora».

 

Una chiesetta su una rupe poco lontano da Orsomarso

Nel visitare la chiesa rupestre di Santa Maria di Mercuri, altro luogo emblematico del Mercurion su cui si sofferma Russo, nella valle dell’Argentino, ci si trova di colpo immersi in «un’atmosfera che riconduce ad un Medioevo mai completamente scomparso, fatto di monaci oranti, di novizi bramosi di apprendere il più possibile dai loro maestri, di saggi e studiosi alla ricerca di solitudine e al contatto con Dio attraverso la natura e la bellezza del creato, di religiosi impegnati in lavori di mantenimento o di costruzione di monasteri, dove ospitare la moltitudine di persone giunte sul posto per votare la propria vita allo studio e alla ricerca dell’Altissimo». Sembra un brano tratto da Il nome della rosa di Umberto Eco, o una sequenza della trasposizione cinematografica di Jean-Jacques Annaud. Assai singolare la statua della Madonna assisa sul trono, che nella destra regge un globo terracqueo (ma secondo il Campagna si tratta invece del simbolo pagano della melagrana).

La decadenza del Mercurion inizia nel XIV secolo: le ultime decime documentate recano la data del 1327. Pochi anni dopo, tutto silenziosamente si sgretola e svanisce nel fluire implacabile della Storia. Conclude Russo: «Con essa si chiudeva un lungo capitolo di storia che aveva visto protagonisti uomini e donne venuti dai paesi più disparati delle coste mediterranee, e che avevano portato con sé una grande cultura e un incontenibile desiderio di avvicinarsi a Dio attraverso la bellezza dei luoghi che componevano il territorio dell’Eparchia monastica del Mercurion».

 

Guglielmo Colombero

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno VI, n. 62, ottobre 2012)

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