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A. XVIII, n. 198, marzo 2024
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Dibattiti ed eventi (a cura di Emanuela Pugliese)

Presentazione del libro:
La fonte di Mazzacane
in cui rivivono i ricordi
del nazifascismo

di Giovanna Bruco
Per Laruffa editore, Enzo Antonio Cicchino ritrae un Molise scosso
dalla guerra, in un romanzo storico anche di forte valore linguistico


Si terrà sabato 30 giugno alle ore 17:00 presso la libreria Giunti al Punto, sita nel centro commerciale Centro del Molise − strada statale 87 C di Campobasso – la presentazione del romanzo La fonte di Mazzacane di Enzo Antonio Cicchino, edito da Laruffa. Introduce il romanzo il giornalista e storico Roberto Colella. Sarà inoltre presente l’autore.

Vi proponiamo la recensione del romanzo a firma di Giovanna Bruco, pubblicata sul numero 75 di marzo 2012 di Direfarescrivere (http://www.bottegaeditoriale.it/primopiano.asp?id=142)

 

La redazione

 

Gavena, un paese immaginario sperduto nel Molise, che oggi ci appare più fantastico che reale. Qui Enzo Antonio Cicchino (noto saggista della Rai, autore, fra l’altro, delle trasmissioni La Grande Storia e Correva l’anno) ha ricreato gli ambienti della terra di suo padre e sua, raccontando di una cultura contadina che sembra essere sopravvissuta per divenire protagonista del romanzo storico La fonte di Mazzacane. Quanno ri tideschi ammazzarono all’intrasatta (Laruffa, pp. 248, € 14,00), dove i ricordi si fanno memoria. Ricordi duri, certo d’ispirazione autobiografica legati alla vita del padre, espressi con parole che talvolta «travolgono il limite del lecito espressivo», dice Zanca nella Postfazione, dove la narrazione di Cicchino viene messa in relazione a Fontamara di Ignazio Silone, suo conterraneo dell’Italia centrale, di una stessa terra ingrata abbondante di dure pietre quanto scarsa d’acqua, della quale entrambi gli scrittori hanno saputo dare la rappresentazione dolorosa.
Storie di eccidi non ci sono nuove. Dal film La lunga notte del ’43 di Florestano Vancini, tratto dalla raccolta di Cinque storie ferraresi di Giorgio Bassani (vincitore del premio “Strega” nel 1956) a La grande guerra di Mario Monicelli (1959), e prima ancora il capolavoro di Roberto Rossellini Paisà, grandi registi del neorealismo hanno saputo fornircene, assieme ai nostri migliori scrittori, particolari agghiaccianti. Ma diversamente dagli storici e dai giornalisti che possono limitarsi a raccontare i fatti, per scrittori e artisti i fatti sono sempre stati un pretesto per dire altro.
E dunque, per venire a noi, qual è il protagonista di questo romanzo di Cicchino? In una intervista sul libro egli si è così espresso:
«Vi è un mantello sulla storia degli uomini e delle donne e degli animali e delle pietre raccolte nelle pagine di questo romanzo. Un mantello abbandonato dalla guerra con le sue pozze di sangue. Un mantello buttato come un peso tragico sugli omeri e nei solchi. Un mantello bucherellato di raffiche e di cappi. Quello tedesco, di un eccidio che ancora pesa con morte e piombo nel cuore. Che grida vendetta. Che aleggia il presente nel passato. Che ha piantato carne e tombe, seppellito amori, e spiccato ritorni. È l’eccidio di un immaginario che li racchiude tutti, Colle Impergola! È nome che tradisce massacri oscuri di vinti e vittime. Vendetta. Cruda. Nazista. E non solo».
Noi pensiamo che il miracolo della scrittura porti il lettore a rivestirla del significato che vuole, e questa abbiamo cercato di approfondire.

Parole che liberano nel silenzio della scrittura il suono di un conflitto interiore
Opportune distinzioni sul piano linguistico portano a chiedersi come mai, pur nello stesso intento di critica sociale, in Cicchino le costruzioni abbiano un incedere discontinuo, per come l’autore passa bruscamente da una pacatezza di tono a un opposto graffiante che a volte sembra voler assordare il lettore. È per costringerci ad entrare in sintonia col frastuono interno di un’umanità spogliata di tutto, a cominciare dalla speranza, che è rimasta sepolta nella silenziosa vita rurale? Noi il frastuono lo abbiamo sentito fin dalle prime pagine, nel viaggio di lavoro di Anacleto, il quale, diversamente dal veterinario goffo e trasandato col solito vestito che pareva «un’asola scucita» dove «dal taschino scendeva un grosso fazzoletto grigio che somigliava all’orecchio di una vacca» che incontreremo più avanti, è subito voce narrante che scuote il lettore con parole che paiono senza sbocco. Parole agitate, simili agli improvvisi scrosci d’acqua provenienti dal tetto del vagone che cadono sui passeggeri investendoli di viscidi capitoni. Colpiti per essersi avvinghiati alle gambe dei viaggiatori, i grossi vermi-serpenti continuano a guizzare nella loro schiuma bavosa e rossastra finché non arriva il vetturino ad aprire i finestrini e la via d’uscita dal combattimento con gli uomini rivela che si trattava dell’immagine di un sogno. Un incubo, forse, dovuto ai «molti viaggi persi e le troppe destinazioni mai raggiunte».
In Barbaruscio, altro personaggio chiave del libro, «Empio… con quella maschera potente che… pareva si fosse impiccata al silenzio», lo scompiglio ci arriva soffocato da una torbida “morale”, intrappolata nell’odio incallitoglisi prima ancora dell’eccidio di Colle Impergola, del quale fu il responsabile per essersi vendicato delle capre rubate uccidendo due tedeschi. Pesante segreto che solo alla fine non riesce più a nascondere ad Anacleto, dopo aver vissuto a lungo appartato in una grotta da lui stesso scavata sotto le mura del cimitero: «Sto dintro al campisanto pi stari chiù vicino a ri vicchi amici».
E ancora sentiamo subbuglio nella morte fulminea del povero Mingantonio, cui Anacleto vuol far credere che le voci sul suo carcinoma erano state solo uno scherzo del figlio, quando dopo eccitanti stravaganze il falegname si accascia al suolo proprio come il motore rumoroso della sua pialla quando si fermava, e che aveva un che di bestia, come la terra. «Cominciò a volare, a sfrenarsi, saltare da un lenzuolo all’altro con la vitalità di un istrice ed un falco. Lo zigomo gli tremava. Il ciuffo basculante. Solo che… annaspava il pensiero… fra il credulo e l’incredulo. Ma il timore risvaniva. Allegro come un tormento. Felice più della grandine. Lupo senza sentieri. E falegname del vento. Era la muscolatura di un’ancora. Sì. Gaio. Eppoi spossato, attento. Vuoto, pieno. Impavido. […] Ammazzamorte! Contro le unzioni, le bare, le tombe, il fumo […] e le ceneri».
In questo stile originale, brioso, gaio anche al cospetto della morte, Cicchino tende a uscire dagli argini linguistici per andare oltre la realtà oggettiva e prendere le distanze sia dal rude verismo del linguaggio popolare di Silone che dal narratore interno di Gavino Ledda, il cui lessico non ricercato spesso traduce subito tra parentesi le espressioni dialettali sarde. Quasi che Cicchino preferisca far parlare i suoi cafuni per costringerci a capirli dal suono della loro voce, per dirci di un’identità etnica rimasta ancora viva in una musicalità antica, non ancora corrotta dalla miseria che ha invaso i sentimenti ossessionati dalle azioni dei tristi avvenimenti bellici. E forse per suggerirci che l’alleanza tra la razza dei cafuni molisani e il “padre”, ossia quel mondo religioso e arcaico che li ha resi tanto duri e tenaci quanto privi di ogni possibilità di cambiamento, va in qualche modo spezzata. Con la forza della parola che ne sappia svelare la condanna ingiusta che nasconde.

La ribellione di Peruffa, donna dalla sana sensualità in cerca di vera vita
Ecco allora che l’accostamento di termini spesso spregiudicati e dissonanti vuole condurci, respiro dopo respiro, al finale drammatico del romanzo. Che, però, può dar adito a diverse letture di un messaggio finale come segreto da raggiungere. Latente sotto i segni della scrittura. Segni contorti che non a caso si addolciscono quando si spostano nell’universo femminile come quello di Peruffa, dove la ribellione interna è meno tragica e più vitale che negli altri personaggi. Negli intrighi sessuali che il suo corpo voglioso, sempre in tempesta, la costringe a vivere con suoi tre uomini c’è solo un non voler lasciarsi morire in quell’«amore contrario al desiderio» del marito Anacleto. Che odorava di stalla e che per la gelosia avrebbe potuto scannarla senza un gemito, così come sapeva fare con gli agnelli, «perché il suo essere bestia e il suo consorte» era «sincero, sì! Proprio sincero». Non come lei che qualunque cosa avrebbe preferito a «quella circospetta indifferenza con cui […] le si rivolgeva freddo e la colpiva» costringendola a mentire. «“Grazie” fece lei. Poi hhhhh! Hhhh! Disperata, sconvolta da un dolore lontano che ora tornava all’improvviso… […] Ed in cuor suo lei si sentiva come un partigiano che di notte dopo aver corso tanto s’aggira e rigira nei sentieri finché non sbaglia strada e torna stremato al punto di partenza. Per arrendersi. […] Si scrutavano ancora, con sfida. Ma entrambi sconfitti. Alto e grosso, pareva di un egoismo infantile sterminato, lui. […] Gli occhi di lei avevano la stessa infinita dolcezza di una piaga inguaribile. […] “Sì. Ti amo Peruffa, ti amo!”. Corse ad abbracciarla… Ipocrita, schizofrenico. […] Stringendola si commosse. Identico ad un mulo che addenta una balla di fieno caduta per sbaglio della mangiatoia».

La verità urlata senza sotterfugi dal “matto” del paese, non più poeta imbavagliato
Uno stile più levigato troviamo anche nelle vicende meno tumultuose che caratterizzano il personaggio di Cipresso, in cui scorgiamo la possibilità di un valido rapporto con la donna che riscatti il finale del romanzo. Nell’ingenua follia di Cipresso, che per urlare ad Anacleto tutto il suo amore per Giovanna sale a chiamarlo da un palo del telegrafo costringendo l’amico, che è per lui come un padre adottivo, a fare lo stesso con slancio irrazionale inatteso, anche se razionalmente giustificato dal timore di essere reclamato da qualcuno precipitato in un burrone, sentiamo una timida separazione dalla natura, che le follie d’amore non ha mai conosciuto. Figura non ancora corrotta dai bisogni, al mite Cipresso la guerra ha tolto sì un po’ di senno, ma non una sensibilità fuori dal comune. Tanto che riesce a diventare persino arguto quando scrive un necrologio procuratogli da Anacleto come suo «primo vero incarico», su commissione di Cacchione, un marito di cui tutto il paese fingeva di non sapere che aveva gettato la giovane moglie nel pozzo assieme alla bicicletta perché lo aveva tradito col bel pompiere Tullio Cantaro. Incarico accettato da Cipresso per ripiego, solo dopo che la vecchia Irene non era riuscita a fargli pubblicare le sue poesie come promesso: «“Non ho più alcuna stima delle poesie che ho scritto. Il mio lavoro è banale! Mi vergogno!” […] “Le pubblicheremo Cipresso, le pubblicheremo credi a me! […] Continua a cercare la bellezza amico! Insisti…!” […] Cipresso rise con fiducia amara del suo sguardo di vecchia innamorata. Per lei lui era un angolo remoto, estraneo alle stucchevoli mediazioni che appartenevano alla sua vita. […] Era il pregiudizio che la sprofondava nella melma», non era come il «fiume di cianuro […] che sorge dalla ragione». Anche se: «Unghie massicce, sguardo calloso, c’era poco in Cipresso dell’artista che avrebbe voluto essere. Gli zigomi da maschio facevano pensare piuttosto ai colli petrosi del suo villaggio: alla terra zappata col cuore secco… invece che al poeta! Lui pareva un uomo divenuto terra. Una terra che neanche il sudore del cielo avrebbe potuto intenerire!». Ma: «Iré che fa? Chiagni?».
È «Intrigante» e «artificiosa», nonostante le lacrime di commozione, la vecchia contessa, tanto che Scurcetta e Pierluigi, i carbonari che presso di lei prestano malvolentieri servizio, tentano di uccidere con gli effetti tossici dell’ossido di carbonio tutti gli ospiti del suo salotto borghese. Bramosa delle attenzioni di Cipresso, il personaggio di Irene incarna il tornaconto sterile del suo ambiente quando vorrebbe comprarsene l’amore, regalandogli maliziosa un armadio nuovo con due specchi dove potersi «finalmente specchiare in due». Che però lascia Cipresso, ormai innamorato di Giovanna, «sobrio, composto» con già dentro l’inizio di un addio da «una normalità che pareva strangolasse». E Irene: «“Beh, a parte… Giovanna. Cos’altro mi racconti?”. […] Una travolgente ruota di ovuli secchi. Il cerchio del fuoco mostrava il suo cardine molle». Ma subito dopo parole più dolci vanno ad accarezzare Cipresso: «Io non racconto che il nulla. Nulla! Tranne che il mondo è diventato onesto!”. […] Il cuore gli batteva sopraffatto dalla memoria felice dell’incontro avuto poc’anzi con Giovanna quella mattina. Si rendeva conto che il suo corpo di uomo non avrebbe avuto alcun senso se privo di passione, privo di donna, privo di futuro, sarebbe stato inutile, trucido, scadente! Banale, infetto!».
Nel salotto di Irene troviamo anche la giornalista Clotilde, figura che, alla fine, viene sfregiata dai sobbollimenti che fermentano in Anacleto e esplodono su di lei quando, ipocrita e indifferente ai disperati approcci di lui, fuggito di casa senza farsi vedere per aver scoperto Peruffa a letto con John, sarà solo a caccia delle notizie segrete avute da Barbaruscio sull’eccidio, per una notizia che faccia scandalo e che le porti i dovuti introiti. «Gli guardò perplessa la pancia. “Ti dà carattere!” disse. Un dialogo di circostanza. Anonimo. Evasivo. “Ti dà un carattere forte!” incoraggiò. Ma Anacleto, guardando lo specchio… si odiava. […] “Provo angoscia… Strano. L’angoscia di essere sincero!”».
Solo i due vecchietti ai quali Anacleto aveva dato del denaro quando ne avevano perso al gioco e pensano di doverglielo restituire riscattano nell’economia del romanzo le clandestinità di appropriazioni indebite. Ma Anacleto l’elemosina la fa volentieri e quei soldi non li rivuole. Non possono bastare a sopportare le miserie di affetti che lo stanno trascinando alla dolorosa fine.

La ciclicità della Terra e della Natura non simboleggia l’indole dei personaggi
Dunque temi reali, toccanti, drammatici, questi affrontati da Cicchino. Storie che ci sembra di aver già sentito ma che tornano avvincenti per l’agilità con cui l’autore passa da un quadro all’altro legandoli insieme come si fa nel montaggio di un film: «La faccia di Scurcetta poi era un pugno nello stomaco… peggio di un verme che fa cucù in mezzo alla forchetta di un cliente… […] Di lui era amico solo quel vipero di Pierluigi» che era «un uomo rinselvatichito. Ondulante, il cuore. Tuc! Tuc! Tuctuctuctuc! Ru zazambr di ru core! […] Nell’ispido scorzone del cranio certo gli si proiettava il fuoco, la brace, il fegato, le ossa, il cervello e di nuovo il fuoco… Svum! Neppure le vernecche carnali del carbone acceso fossero soffiate dai proiettori di un cinema! Lanterne di un sogno… il suo cinema! Trtrtrtrk! Trtrtrtrk! Trtrtrtrk!». Certo Cicchino sa, anche quando si serve di questi suoni che ci ricordano quelli che precedono il linguaggio articolato nei bambini, che se la poesia è libera e le parole possono andare dove vogliono, non così è per la narrazione, che non sempre può raccontare poeticamente. Ma il miracolo della scrittura, come prima linea interna che non ha suono, ha sempre qualcosa di importante da dire se la sua forma è autentica e ognuno può rivestirla del significato che vuole.
Così possiamo concederci di dissentire da una connotazione positiva della «perfetta – di cui si parla nella Postfazione – uomo-animale-natura», che non ci pare appropriata allo stato d’animo che caratterizza le azioni dei personaggi. Tanto che, a ben vedere, è la stessa scrittura provocatoria di Cicchino, che da questa simbiosi non si è lasciata confondere, a svelare l’ipocrisia che nasconde. Ipocrisia che, più volte esplicitamente suggerita da Anacleto al trasparente Cipresso, è proprio quell’alone nero, imperscrutabile, che nel libro cola fango e freddo sui sentimenti dei protagonisti prima ancora che sull’habitat.
Fatta eccezione per Cipresso e Giovanna nel momento del loro amore nascente quando riescono a giocarci vincendo la paura di sporcarsi e poi se li scrollano di dosso. «“Ti avverto!” fece duro Cipresso. “Io ho propensione per il dolore. Vorrei che tu non me lo contestassi mai… […]” “Ne hai ancora paura! […] Stupido! […] Credi che io non capisca quel che tu…”. Lo baciò. E l’imbarazzo per le verità semplici della vita gli fece sentire l’esistenza un male incurabile. […] C’era la luna. Quando all’intrasatta Cipresso affondò nel terreno molliccio che circondava il lago. “Aaah!” […] e scivolò con il sedere nel fango. Giovanna, per un minuto si era divertita a vederlo annaspare. “Esci dall’acqua!”. Alfine… rise […]. “Con questo freddo ti prenderai una bronchite! Vieni andiamo a casa a cambiarti!”. Ma la faccia opaca di lui si animava. […] prese a scavare […]. “Ecco, questo è il Nilo!” […] “Ecco il Missouri”. “Ecco il Volga!”».
Fantasie di poeta che saranno bazzecole di innamorati per Anacleto, ostinato a incarnare la simbiosi come la «pena contadina» col vincolo di condensare in sé gli altri personaggi minori coi quali lui è l’unico a intrecciare esistenze colme di risentimenti, invidie, sventure, tragici amori col «rischio di essere un amico di quella gente». Ma, a nostro avviso, è proprio l’impossibilità di districare questa simbiosi fra uomini e bestie a portare al finale drammatico. E non per un atto d’amore-sacrificio che amore faccia vivere, come quello nato tra Peruffa e John durante la guerra, quando gli stessi mariti acconsentivano a barattare le mogli per una stecca di cioccolata. Più realistico è per noi pensare che Anacleto soccombe per non aver compreso che la creatività nel rapporto interumano, come esigenza particolare della specie umana cui apparteniamo, viene prima di quello con la terra, che il pensiero umano non può comprendere e che gli animali non hanno. «Quella mattina Anacleto si scoprì innamoratissimo di Peruffa, le si era così immerso; come un rospo nella terra umida dell’orto, da non volersene staccare».
L’identificazione col padre padrone come terra e paese ha soffocato nei bisogni quotidiani l’esigenza umana di realizzarsi “nonostante”, e in primis nel rapporto con l’essere umano diverso, che comincia con la donna per l’uomo e con l’uomo per la donna. Donna che nel libro è un’immagine perdente destinata ad essere o moglie fedifraga e madre assente col figlio Orazio, oppure puttana schiava di un vantaggio borghese. Unica figura femminile che sembrerebbe salvarsi è Giovanna, che quando sa di aspettare un bambino decide di trasferirsi con Cipresso nel suo paese, anche se ci lascia col fiato sospeso il fatto che appena diventata moglie fa rinnegare a Cipresso la sua vena poetica per una voglia “tutta nuova” di tornare a vivere a Pesche con lei. Un luogo non troppo distante, dove Cipresso rischia di diventare a sua volta un altro padre padrone. «“Sicché, torni tra i tuoi cafoni!?”. Anacleto, ripensandoci masticava il pensiero. C’aveva riflettuto ancora su quella resa di Cipresso e […] non riusciva a mandarla giù. “Torno tra i miei cafoni. Certo! […] ora che sono sposato, ci voglio vivere! Allevarci mio figlio. Come ha fatto mio nonno, mio padre, e tutti gli altri». Dunque, l’attesa di un figlio sembrerebbe aver già fatto dimenticare a Cipresso la poesia che aveva dato a Irene, e che a lei era caduta di tasca come un foglio sgualcito prima delle inutili lacrime. E in questa condanna alla ripetizione ecco che comprendiamo perché a tratti la scrittura di Cicchino sembri scavare dentro la ricerca affannosa dell’immagine originaria della nascita come prima fantasia umana che non può perdersi nel mondo infinito della natura. Natura che non pensa e non odia e che la fantasia dell’umano non ha e non potrà mai avere a che fare. Cicchino sa che dietro il duro e «rugoso» lavoro del contadino c’è un’idea. Ma sa anche che per restare tale deve essere legata agli affetti sani della vita che il ciclo di riproduzione della natura non conosce. E forse sa anche che gli animali non fanno scienza né arte. E quando le parole diventano troppe, ridondanti, eccessive, ciò è certo dovuto al fatto che sono alla ricerca forsennata di qualcosa andato perduto, ma che si può recuperare colmando il vuoto di disumana ignoranza sull’umano, a cominciare proprio dal cerchio angusto di Gavena, dove il prete Bartolo è l’unica autorità che incute rispetto e il veterinario è costretto ad essere anche il medico chirurgo «amico, confidente, avvocato e giudice» dei cristiani del paese. «Nel dolore tuttavia, il parroco trattenne un sorriso, come quando un germoglio tenero fa capolino dalla bisaccia di un ortolano. Non era che un tralcio da potare anche la sua cisti! Pur se Anacleto l’avrebbe poi buttata in quell’orfanotrofio squallido che è il bidone della spazzatura!?». La religione come alleata di tutto ciò che è solo manifesto come le ferite del corpo, che hanno le stesse caratteristiche sia nelle bestie che nei cristiani, è un pensiero latente cesellato abilmente dall’autore fino all’ultima pagina. Quando fede e ragione si trovano insieme a rispecchiarsi nella morte, che cade sul marmo gelido della chiesa mentre sangue ancora caldo vacilla alla ricerca di un latte umano che non lo faccia sentire solo come è stato con quello della scrofa, da sembrare raccolto fino alla fine tra le mani ancora tremanti di Anacleto protese a toccarne «i trepidi capezzoli». Alla sintesi di questa eloquente rappresentazione pensava inconsapevolmente l’autore quando faceva dire da Giovanna a Cipresso: «Divengono sculture… le tue parole».

La sostanza impalpabile dei sogni in una parabola delirante e solitaria
I passi più poetici del libro, dove gli ambienti della natura si animano di una proiezione primitiva libera da ogni trascendenza, di un animismo che è alienazione dell’immagine interna dello scrittore che nella memoria legata agli affetti è fusa al sentire del corpo, ci ricordano scoperte recenti sulla realtà psichica teorizzata da Massimo Fagioli, dove la «memoria fantasia» è legata all’affetto dell’immagine originaria della nascita che si è fatta pensiero come prima «pulsione fantasia» nel ricreare quello che fu il contatto col liquido amniotico. Un’immagine mentale pura. Senza figura. Immagine non cosciente che è un sentire dentro di sé la certezza di vita umana come rapporto.
Non così è quando l’autore sembra attingere da una psicanalisi ormai smascherata come truffaldina raccontandoci i sogni di Anacleto. Che sono tre e strettamente collegati tra loro. Il primo sogno-incubo, quello dei capitoni, dal quale Anacleto si sveglia bagnato vergognandosene tra i passeggeri del treno, fa pensare, dato il suo difficile rapporto con la donna, al serpente tentatore del peccato originale che condanna la donna ad essere schiava dell’uomo per aver voluto disubbidire al divieto di conoscenza. «“È importante avere una donna a cui opporsi. Sa! A cui mostrare i denti, la propria efficienza, la propria ingratitudine!”. Gli morse un bruciore dell’anima… “Una moglie a cui offrire la propria vigliaccheria!”». Ed è per un’intuizione inconscia che certo ispira in questi passi dell’autore che, dopo aver scoperto la passione tra Peruffa e John, Anacleto fa il secondo sogno, che è quello in cui tenta di mettere una testa di donna su un altro corpo che la testa non ha senza riuscirci. È il corpo suo? È una sua immagine femminile interna dissociata, come quella delle donne nere di altri tempi, quella che subito dopo l’avvilente scoperta gli fa venire in mente il funerale di sua madre? «Quando, all’improvviso, il ricordo! Gli si para di fronte – chissà perché? – la morte di sua madre. Lei! Sì. Quel giorno infelice in cui la tumulò nella fossa. Povera donna, si era gonfiata come una vacca prena dal fetore!».
Da qualche parte abbiamo letto, poiché l’inizio e la fine del romanzo hanno come protagonisti il mare, che questo avvolgerebbe il poema come una placenta, come la Grande Madre della vita che rinasce nella morte. Ma questo pensiero non è calzante, perché rischia di scivolare pericolosamente in un heideggeriano “essere per la morte”, che ha impastato la vita in tutte le sue forme per non aver saputo distinguere il prettamente umano uguale per nascita e diverso per razza da quello che umano non è, e ha portato alle tragiche conseguenze che ben conosciamo sfociando nel delirio nazista di un inconscio ariano come discriminazione divina. Se poi intendiamo il mare come il noto e vecchio archetipo di matrice junghiana, il «mare amaro» dell’ultimo capitolo viene ad essere offensivo per gli ingenui cafuni molisani del Dopoguerra, forse inconsapevoli del fatto che anche Jung aderì al partito nazista e negli ultimi anni della sua vita soffrì di deliri, quasi come Nietzsche che finì per conversare con un cavallo e morì pazzo tra le sue feci.
Inevitabile, dunque, che, sull’onda del pensiero che ha segnato la cultura occidentale attribuendo all’irrazionale umano il significato di pazzia dandogli una veste animale, l’autore immagini una foca e non una Venere ad emergere dal mare nel terzo sogno di Anacleto. Immagine delirante che ben rappresenta quanto vissuto in quel momento dal protagonista. «Sono venuta qui per chiederti il rendiconto: io sono la tua anima» gli dice la foca. E a questo punto della narrazione viene da chiedersi se l’autore non stia forse cercando di prenderci un po’ in giro, perché lui certo sa che la parola “anima” deriva da psyché, che anticamente voleva dire farfalla e che già in certi passi omerici può venir tradotta come “memoria”, “immagine”, “movimento” . È stata poi la filosofia greca, che di realtà umana non aveva capito nulla, a svuotarla con Platone del suo primitivo significato, che era anche “respiro”, “vita”, “immagine di sogno”, e a tradurla in “anima” proveniente dal fuori dell’uomo. Visione immateriale ed eterna che da allora ha confuso il finito dell’umana natura, che si estingue con la morte dell’organismo, con l’infinito eterno e immutabile. Riversatosi poi sull’impossibilità di conoscenza dell’umano e della sua possibile trasformazione. Concezione che, avendo storpiato la vera natura irrazionale dell’uomo legandola alla ragione astratta del lógos occidentale, a tutt’oggi discrimina le donne proprio come avvenne nel mondo greco, che, oltre a sodomizzare i bambini, lasciava le donne fuori dalle mura della pólis. Ma questa era solo una digressione cui ci ha costretto la drammaturgia presente nei sogni inventati, non a caso, dall’autore e che noi abbiamo tentato di condurre a un messaggio più profondo e moderno del testo.
Riteniamo che, diversamente da certo realismo del Novecento, in Cicchino non ci sia distacco né assoluzione ma ricerca. Che si esprime nello stesso voler riproporre alcuni passi con espressioni dialettali dove troviamo racchiusa tutta la ricchezza della sua arte. Che è sostanzialmente quella di essere un abile documentarista schietto e caustico, che non esprime un giudizio attraverso il significato ricercato delle parole, ma lo affida al senso del loro effluvio spontaneo, che potrebbe nascondere una volontà di scuotere il lettore affinché presti attenzione all’abbandono che hanno subìto gli uomini nella sua terra. L’irrazionale Cipresso, antagonista simbolico di Anacleto, non sogna. Sembra sognare solo nella vita. Come gli artisti e gli scrittori che non sempre hanno bisogno di sognare quando possono esprimere il loro pensiero attraverso immagini inconsce non oniriche.
Nel chiudere il libro abbiamo ricordato quel che Giovanna risponde ad Anacleto quando lui le dice che al paese di Cipresso ci nidificano i corvi: «I corvi sono intellettualissimi uccelli in frac». Perché ci piace sperare che il tentativo di Cipresso di separarsi dal passato, grazie al rapporto col diverso che comincia dalla donna, non debba fallire. E questo sarà se entrambi sapranno stare attenti ai vecchi corvi che impediscono la conoscenza di una realtà umana che apre la strada a destini nuovi e diversi.

Giovanna Bruco

(www.bottegascriptamanent.it, anno VI, n. 59, luglio 2012)

Collaboratori di redazione:
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi
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