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Anno VI, n. 58, giugno 2012
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Letteratura contemporanea (a cura di Francesco Mattia Arcuri) . Anno VI, n. 58, giugno 2012

Zoom immagine I tormenti amorosi di Catullo
rivivono nelle intense pagine
di una giovane autrice

di Guglielmo Colombero
Leonida editore propone un romanzo
sulla vita del noto poeta lirico latino


«Una piccola statua di Venere che adornava la fontana, posta nel cortile interno, ricordava l’importanza che l’Amore e la Bellezza hanno nella vita di un uomo. Quella statua fu per lui una sorta di presagio, perché non conobbi mai nessun altro uomo per cui l’Amore e la Bellezza ebbero più grande importanza».

Parole della voce narrante (un amico di Catullo) che esprimono con efficacia il senso più profondo di Miser Catulle (Leonida editore, pp. 162, € 12,00), il romanzo che Vittoria Caiazza ha voluto dedicare al grande poeta di Sirmione. L’autrice, romanziera e poetessa, esercita la professione forense a Catanzaro, ma questo non le ha assolutamente impedito di curare la propria passione letteraria. Benché giovanissima (ha trent’anni), Vittoria Caiazza ha già pubblicato altri cinque romanzi oltre a quello di cui parleremo: quattro con la Montedit – Il Cavaliere di Spagna (2003); L’Angelo di Cristallo (2004); Il fuoco del Vesuvio (2006); Gente sorda (2008) – e uno con Rubbettino – L’odore del Freddo, (2009). La sua prosa elegante e raffinata sfiora spesso il calligrafismo ma senza caderci mai dentro, avviluppando il lettore in una musicalità suadente e a tratti stregonesca.

 

L’infelice cantore dell’Eros che amava Lesbia

Approdato a Roma, nella vitalità caotica dell’antica metropoli dell’Occidente pagano, alcuni decenni prima che l’uragano livellatore del cristianesimo spazzasse via stoici, edonisti ed epicurei, il giovane provinciale Catullo, originario di Verona, «era così abile che sapeva passare dai più dolci versi d’amore ai canti più osceni e acri che si possano immaginare». Verissimo: scrive infatti Luca Canali nel suo splendido saggio Erotismo e violenza nell’antica Roma (Piemme, 2005) che «il passionale Catullo ha un pessimo concetto delle donne […] Per Lesbia c’è l’altalena dell’incanto e dell’estasi da una parte, del disprezzo e della maledizione dall’altra. L’espressione di quella divorante passione è policorde, a volte gioiosa e incantata, altre volte aggressiva fino all’insulto». L’ispirazione poetica di Catullo diventa un tarlo che gli corrode l’anima: «passava così i suoi giorni in una situazione che andava dalla beatitudine più perfetta alla disperazione e alla gelosia più totali». E in questo contesto prende forma il primo embrione della passione amorosa che lo consumerà, quella per l’inafferrabile Lesbia: «aveva le guance rosse come chicchi di melograno […] d’inverno doveva nascondere sempre le piccole mani per vergogna di mostrarle così rovinate per il gran freddo. A lei aveva dato il suo primo bacio, un pomeriggio di chissà quanti secoli prima, di primavera, quando nascono gli amori così come sbocciano i fiori. Si era innamorato dei suoi capelli chiari e dei suoi occhioni azzurri che lo fissavano incantati. Era la prima che era parsa per lui il mondo, era la prima a cui lui era parso il mondo». Caiazza descrive con accenti lirici il ritorno di Catullo a Sirmione, per riabbracciare la madre afflitta da una grave malattia: «A Sirmione pioveva. Piovve ognuno di quei primi lunghi giorni che lui trascorse lì. Aveva piovuto durante il viaggio, pioveva al suo arrivo. L’acqua cadeva nel Lago grigio increspandone leggermente la superficie. Non era una pioggia forte, era sottile, monotona, triste. La pianura si stendeva a dismisura, piatta, come morta e inerme sotto quel cielo sempre cupo. C’era un silenzio incombente, una nebbiolina bassa e malinconica». Il poeta amava immensamente quei luoghi, e in uno dei suoi carmina Sirmione viene descritta come Paene insularum, Sirmio, insularumque Ocelle, quascumque in liquentibus stagnis marique vasto fert uterque Neptunus (“O Sirmione, gemma di tutte le penisole e isole, tutte quelle che nei limpidi laghi e nel vasto mare sostiene l’uno e l’altro Nettuno”). E con pittorica sensualità, degna degli affreschi pompeiani, riporta Catullo a Roma e lo fa incontrare con Clodia, la sposa del suo amico Metello perdutamente invaghita di lui: «Il sangue scorreva nelle vene azzurrine del suo collo, il suo seno si alzava ogniqualvolta l’aria entrava attraverso le sue labbra perfette, indovinava la curva delle sue gambe attraverso le pieghe del suo vestito, contemplava la rotondità dei suoi fianchi, le braccia tornite, le mani meravigliosamente affusolate, i morbidi capelli che le scendevano sciolti sulle spalle dopo che lei aveva sfilato il fermaglio d’osso che li teneva negligentemente raccolti in alto». Clodia diventa così la sua Lesbia innamorata, e i carmina amorosi fluiscono come una cascata di versi da una fervida, instancabile ispirazione.

 

Nel vortice inesorabile di una morte precoce

Poi, un giorno, Clodia si stanca di Catullo e lo abbandona, scacciandolo brutalmente dalla sua dimora. Inizia così la lenta agonia del poeta: «La notte vuota e lunga che pesava sulle sue spalle stanche si spalancava davanti a lui come uno spaventoso, un orrendo abisso dal quale si sentiva risucchiato». I suoi carmina diventano amari e s’impregnano di sdegnosa malinconia: Miser Catulle, desinas ineptire, et quod vides perisse perditum ducas (“Misero Catullo, smetti di delirare, e ciò che vedi perduto consideralo perduto”). E la sua esistenza si consuma in uno struggimento divorante, in un anelito sempre più intenso che ripudia Eros e si protende verso Thanatos: «Non la voglio più vicina a me, eppure la desidero ardentemente. La amo ma non la stimo. Mi manca ma la odio. E mentre invoco di notte il suo nome, di giorno la maledico. Questa malattia mi sta consumando, amico mio. Non dormo più. Non mangio più». Durante il suo ultimo soggiorno a Roma, poco prima della morte improvvisa, Catullo riceve la tenera dichiarazione d’amore di Silvia, l’incantevole moglie del suo amico Lucio: «L’amore silenzioso di Silvia pareva volesse riportarlo alla vita che la passione per Clodia sembrava aver cancellato, ma con drammatica lucidità doveva fermarsi, perché anche quello, in modo completamente diverso, certo, era un amore impossibile». Sarà proprio Silvia, l’ultima appassionata musa del poeta, ad accompagnarlo dolcemente nel trapasso: «un respiro più profondo degli altri abbandonò il suo corpo per attraversare le sue labbra e disperdersi nell’eterno niente». Il ritratto che Caiazza ci offre di Catullo, in definitiva, ci appare suggestivo quanto, a tratti, eccessivamente indulgente: la furente misoginia del poeta (che si spinge fino a insultare con l’epiteto di moecha putida, sporca puttana, una delle sue ex amanti che rifiutava di restituirgli certe lettere) emerge raramente dal contesto, e l’effetto che produce è quello di una visione un tantino edulcorata. Ma ne guadagna indubbiamente la sobrietà della narrazione, che potrà quindi risultare assai gradita agli estimatori del grande poeta latino. Lasciando in ombra quello che Canali definisce il versante “stradaiolo” della poetica di Catullo, raffreddandone il livore astioso fino a cristallizzarlo in una goccia d’ambra.

 

Guglielmo Colombero

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno VI, n. 58, giugno 2012)

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