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Anno VI, n. 58, giugno 2012
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Filosofia e religioni (a cura di Maria Grazia Franzè) . Anno VI, n. 58, giugno 2012

Zoom immagine Scuola e dialetti:
cultura e didattica
un progetto possibile

di Daniela Vena
Da Città del sole uno sguardo filosofico
indaga l’apprendimento linguistico


«La lingua che parliamo può determinare la nostra visione del mondo? Quand’è che il cambiamento di una lingua nel tempo è da considerarsi un impoverimento? Bisogna rassegnarsi alle brutture, oppure lottare per affermare il buon gusto?». A queste e molte altre domande, risponde Francesco Idotta nel suo ultimo libro: La Lingua dell’Altro. Il problema del dialetto nell’apprendimento scolastico. Uno sguardo didattico filosofico (Città del sole edizioni, 160 pp., 14,00 €). All’inizio del testo l’autore scrive: «dedico questo lavoro, frutto di oltre dieci anni di ricerche e sperimentazioni, ai miei alunni dialettofoni e no, che mi hanno consentito di comprendere il vero valore della parola e della filosofia: la parola è il mare, la filosofia la zattera, che consente di passare da un’isola all’altra, creando contaminazioni e generando possibilità». In queste parole si manifestano la necessità e la consapevolezza dell’appartenere ad un paese in cui dialetti differenti confluiscono in un’unica lingua “madre” che permette di raggiungere il traguardo più importante: la comunicazione. A questo va aggiunto il filo conduttore di tutto il testo, secondo cui la cultura è apertura e apertura è accoglienza dell’altro, dello straniero, del dialettofono.

Francesco Idotta è nato a San Roberto (Rc) nel 1970, insegna Filosofia e Storia nel Liceo scientifico “E. Fermi” di Sant’Eufemia d’Aspromonte; è docente di Filosofia, nel corso di alta formazione docenti, e di Lingua italiana, presso l’Università per stranieri “Dante Alighieri” di Reggio Calabria. Ha conseguito il diploma di alta specializzazione in Storia degli Stati Uniti presso l’Università di Madrid nella quale è anche dottorando di ricerca in Filologia. Nella scuola primaria, in cui dove ha lavorato per oltre un decennio, ha avviato un suo metodo per l’insegnamento della filosofia ai bambini. Da anni si occupa di letteratura per l’infanzia e di ricerche nell’ambito delle tradizioni popolari. Cura altresì incontri nelle scuole con progetti per la diffusione del libro e dell’amore per la lettura. Già coordinatore del “Gruppo giovani” del Circolo culturale “Rhegium Julii”, fa parte del consiglio direttivo della stessa associazione. È socio dell’Aspei (Associazione pedagogica italiana).

Tra le sue pubblicazioni: Una strada per i Rom di Calabria (1997) Le fiabe di Grazia (1998); Mediatori culturali ed educazione interculturale tra i Rom di Reggio Calabria (1998), L’ecomuseo dell’area grecanica (1999). La saga di Fioravanti (2002); Dialogo su Bonhoeffer: frammento di umanità (2003); Hermann Hesse. L’estetica del tentativo (2004); Il ponte del nudo apparire; In AA VV, No ponte. Racconti. (2005); Nel giardino delle tartarughe (2005); Il Luogo dei Luoghi (2006); Abadir (2006); Il Camaleonte de la lengua larga (Cuentos) 3 volumi; Racconti per l’educazione alla sessualità (Funsare, Buenos Aires, Argentina, 2008). Rotte Mediterranee (2009). Collabora con le riviste Il Bollettino; Lettere Meridiane; a-verare.

 

Il dialetto: un patrimonio da custodire

«Dialetto viene dal greco diàlektos tratto da dialègo (mai), verbo che potremo tradurre con discorrere, conversare, discutere (dialexisdisputa; dialogo). La parola greca è composta dalla particella dià (fra) e da lègo (dico). In mezzo al dire, nel vortice del suono, nell’armonia del darsi, troviamo l’uomo e la sua storia, la quale si concretizza nel momento in cui madre e figlio cominciano a scambiarsi le parole». La forza della parola è riuscita ad allargare i confini umani, ha espresso ed esprime i desideri dell’individuo e, più di ogni altra cosa, ha “vinto” la morte. Infatti, grazie prima alla parola e poi alla scrittura, è possibile “dialogare” con i più grandi pensatori del passato, con gli scienziati, con i nostri avi, capendone le paure e scoprendone i segreti. Alla base della comunicazione, però, ci devono essere: la comprensione, ovvero prendere con sé l’interlocutore, rendendolo partecipe della propria esistenza; ed il silenzio, necessario per accogliere l’altro, il nuovo e la sua unicità. Sull’importanza della comunicazione sono stati scritti centinaia di libri e il peso che una parola può avere all’interno di una relazione, sia essa scolastica, familiare, lavorativa o sociale lo sperimentiamo tutti ogni giorno; la cosa su cui tuttavia bisogna puntare è l’educazione alla diversità culturale e razziale sin dall’infanzia. Per interagire con l’altro, è necessario conoscerne la lingua, ma, secondo l’autore, una lingua non si apprende solo studiando una serie di regole grammaticali sterili ed astratte in quanto è attraverso un dialogo ricco di sensazioni che comprendo il mio interlocutore. Idotta rileva la difficoltà nell’apprendimento dell’italiano da parte degli stranieri e degli studenti dialettofoni che, nell’uso costante dei rispettivi dialetti trovano la sicurezza della quotidianità e l’appartenenza alle proprie radici, un’appartenenza atavica ricca di affettività. Chi conosce bene l’italiano, non abbandona mai il dialetto inteso come una parte fondamentale della propria storia e della propria tradizione. Scrive l’autore: «Dobbiamo chiederci se un italiano povero è sempre meglio di un dialetto ricco». La ricchezza che i dialetti possiedono deve essere gelosamente custodita, poiché la loro scomparsa porterebbe ad un enorme impoverimento, conducendoci ad un’omologazione totale e totalizzante. Bisogna rispettare il bilinguismo dei dialettofoni e degli stranieri, allo stesso tempo è necessario conoscere e parlare una lingua comune, poiché dentro le parole troviamo noi stessi e gli altri. Se da una parte la mancanza di una lingua comune porta all’incomprensione, dall’altra la preferenza di una sull’altra genera allontanamento, come accade spesso, nel rapporto fra genitori e figli in cui lo stacco generazionale è acuito dalla mancanza di una lingua comune che porti alla comunicazione, eliminando quel silenzio che genera distacco e isolamento. Con una sana e proficua comunicazione le barriere si azzerano e le diversità si esaltano, rendendo il dialogo un incontro unico ed irripetibile che getta le fondamenta per l’accettazione e l’accoglienza dell’altro, facendoci sentire parte integrante del mondo. Per conoscere bene una lingua è necessario che sia insegnata in modo efficace, secondo Idotta, l’abilità di un’insegnante è proporzionale alla capacità di: «“accendere” il dialogo e di custodire il fuoco sacro della “narrativa”». I professori quindi devono insegnare molo bene ai loro alunni la lingua che parlano, poiché essere in grado di chiamare per nome un’emozione, li rende capaci di conoscerla e comunicarla, allontanandoli dall’“annichilimento imperante” della generazione precedente. Scrive Idotta: «nella scuola le tre “i” (informatica, inglese, impresa) dovrebbero lasciare il posto alla cinque vocali (ascolto, entusiasmo, opportunità, immaginazione, unicità): ascoltare l’Altro e dedicarsi alla comprensione della sua parola accende l’entusiasmo per la scoperta, la quale regala infinite opportunità di crescita e incrementa il potere immaginativo, lo stesso che ha reso unici gli inventori del passato, coloro che hanno saputo trasformare la loro eccentrica particolarità in servizio per la comunità».

Un testo molto valido, scritto con uno stile accurato e preciso che rende la lettura piacevolmente scorrevole. Grazie allo sguardo attento dell’autore ed alla sua sensibilità è possibile conoscere la scuola d’oggi e quindi, intravedere la società del futuro, un futuro sempre più vario in cui l’accoglienza dell’ altro sembra l’unica fonte di una sana e ricca convivenza.

 

Daniela Vena  

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno VI, n. 58, giugno 2012)

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